Il Circolo Pickwick/Capitolo 3
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Il signor Pickwick era stato in una certa apprensione per l’insolita assenza dei suoi due amici, nè aveva punto contribuito a rassicurarlo la loro misteriosa condotta di tutta la mattina. Si levò dunque con grandissimo piacere per salutarli, quando li vide entrare; e con vivo interesse s’informò della cagione che li avea tenuti lontani. In risposta alle sue domande su questo punto, il signor Snodgrass si disponeva a dare una storica relazione delle cose or ora narrate, quando s’ebbe ad arrestare di botto osservando che non solo erano presenti il signor Tupman e il compagno di viaggio del giorno innanzi, ma un altro forestiero di aspetto non meno notevole. Era un uomo che i pensieri ed i guai parevano avere invecchiato; dei lunghi capelli neri gli cadevano in disordine fino a metà del viso e faceano spiccare singolarmente degli occhi cupi ed infossati ed una faccia sparuta. Lo splendore e l’acutezza di quegli occhi erano quasi fuori del naturale; gli zigomi sporgevano; e le mascelle erano così larghe e pronunciate da far sospettare ch’egli, per una contrazione muscolare, assorbisse la carne dalle guance, se la bocca semiaperta e l’espressione impassibile non avessero dimostrato esser quello il suo aspetto ordinario. Portava attorno al collo una gran cravatta verde, le cui larghe estremità gli pendevano sul petto, e che si mostrava ad intervalli di sotto agli occhielli logori della sottoveste. Un lungo soprabito nero lo copriva; e di sotto un par di calzoni larghi di fustagno e delle grosse scarpe decrepite.
Su questa persona dallo strano aspetto l’occhio del signor Winkle si fermò, e il signor Pickwick fu pronto a presentarla, dicendo:
— Un amico del nostro amico qui. Abbiamo scoperto stamane che il nostro amico avea relazioni col teatro di qua, benchè non gli piaccia di farlo sapere a molti, e questo signore appartiene appunto all’arte drammatica. Egli si apparecchiava a favorirci un aneddoto di palcoscenico, quando voi siete entrato.
— Quanti ne volete degli aneddoti, — disse lo sconosciuto del giorno innanzi, avvicinandosi al signor Winkle, e parlando in tono basso e confidenziale. — Un bel tipo, fa le fatiche più grosse, non è attore, uomo strano, ogni sorta di disgrazie, Jemmy faccia da cataletto, così lo chiamano nell’arte.
Il signor Winkle e ll signor Snodgrass s’inchinarono cortesemente a questo signor Jemmy, e ordinato del ponce, ad imitazione del resto della compagnia, presero i loro posti intorno alla tavola.
— Ed ora, signore, — disse il signor Pickwick, — volete favorirmi il racconto ch’eravate sul punto di incominciare?
Il lugubre personaggio tirò fuori dalla tasca un rotolo molto sudicio di carta, e volgendosi al signor Snodgrass, che avea già posto mano al suo libro degli appunti, domandò con voce cupa, perfettamente consona all’aspetto:
— Siete voi il poeta?
— Ma.... così, scrivo qualche cosuccia, — rispose il signor Snodgrass, piuttosto imbarazzato da quella domanda direttagli a bruciapelo.
— Ah! la poesia è per la vita quel che sono i lumi o la musica per la scena. Strappate a questa i suoi falsi ornamenti ed all’altra le sue illusioni, e fatemi la finezza di dirmi quel che ci resta di reale e che ci possa premere.
— Verissimo, signore, — rispose il signor Snodgrass.
— Stare di qua dalla ribalta, — riprese a dire l’uomo lugubre, — è come lo stare a sedere ad una solennità di corte, ammirando le vesti di seta e la folla gaudente e sfarzosa; stare al di là, sulle scene, significa essere la gente che fabbrica quella vistosa ricchezza, gente sconosciuta e non curata, e lasciata a se stessa perchè nuoti od affoghi, viva o muoia di fame, al beneplacito della fortuna.
— Certamente, — disse il signor Snodgrass, il quale sentiva la necessità di dir qualche cosa, visto che l’occhio infossato di quel singolare individuo si fissava specialmente sopra di lui.
— Avanti, Jemmy, — disse il viaggiatore spagnuolo, niente brontolii, parla forte, svelto, silenzio.
— Volete prendere un altro bicchiere, prima d’incominciare? — chiese il signor Pickwick.
L’uomo-cataletto non si mostrò sordo all’invito, e dopo aver lentamente vuotato metà del suo bicchiere, svolse il rotolo di carta sudicia e un po’ leggendo, un po’ narrando, prese ad esporre il seguente incidente, che noi troviamo registrato negli Atti del Circolo sotto il titolo di Storia del commediante.
Storia del commediante.
"Non c’è nulla di meraviglioso nel racconto che vi farò — disse l’uomo lugubre; — e nemmeno di straordinario. La miseria e le malattie son cose tanto comuni, in molte classi sociali, che non possono meritare maggior attenzione che non si soglia dare a’ casi quotidiani della vita umana. Ho buttato giù queste noterelle, poichè per molti anni ne ho conosciuto il protagonista. L’ho seguito passo passo nella sua discesa nell’abisso sino al punto in cui cadde nel primo stadio della miseria, dalla quale non si sollevò più mai.
"Quest’uomo adunque era un mimo, e, come tutte le genti di tal razza, un ubbriacone inveterato. Ne’ bei giorni della sua vita, prima che il vizio e i malanni lo avessero indebolito, riscuoteva un buon salario; e se fosse vissuto con ordine e prudenza, avrebbe potuto serbarlo ancora per qualche anno; per qualche anno soltanto, poichè questa sorta di gente muoiono per tempo, o perdono almeno di buon’ora la forza fisica di cui abusano e che è l’unico merito loro. Egli si lasciò abbrutire così presto che fu impossibile di servirsene nelle parti in cui era veramente utile nel teatro. La taverna aveva per lui un’attrattiva alla quale non sapeva resistere. Le malattie e la povertà lo attendevano certamente con la morte, se avesse continuato in cotesta vita; e tuttavia egli andò avanti sempre allo stesso modo, e si può capire quel che ne seguì. Non trovò scritture e mancò di pane.
"Chiunque è un po’ addentro nelle faccende teatrali sa qual nuvolo di cenciosi, di miserabili s’aggiri intorno ad un palcoscenico. Non sono attori regolarmente scritturati, ma comparse, giocolieri, pagliacci, e via dicendo, che si pigliano come a nolo in una pantomima o per una scena orientale, e poi son mandati via, fino a che qualche altro dramma spettacoloso non renda utili di nuovo i loro servigi.
"A questa vitaccia s’avea dovuto dare il nostro uomo, e così, pigliando il suo posto tutte le sere in una di coteste baracche, si buscò un po’ di spiccioli da potere alimentare le sue antiche inclinazioni. Ma anche questa risorsa gli venne subito meno. Le sue sregolatezze erano troppo frequenti, sicchè gli tolsero quel magro boccone ch’ei riusciva a strappare seralmente, e lo ridussero alla estrema miseria. Solo di tanto in tanto qualche suo compagno s’induceva a fargli un prestito da nulla, o qualche infimo teatro trovava d’occuparlo alla meno peggio. Tanto per mutare, anche questi guadagni erano spesi come una volta.
"Verso questo tempo, quando già egli avea vissuto per più d’un anno senza che si sapesse di che cosa, lo incontrai sulle scene di uno dei teatrini di là dal Tamigi, pel quale io aveva una piccola scrittura. Da parecchio tempo lo avevo perduto di vista, perchè io aveva fatto un giro per le provincie, ed egli era andato bighellonando pei trivi di Londra. Mi ero già vestito per andar via e traversavo appunto la scena, quando mi sentii picchiar sulla spalla. Non dimenticherò mai il senso di ripulsione che mi produsse la sua presenza. Era vestito da pagliaccio per la pantomima. Gli spettri della Danza dei Morti, le più spaventose figure che un abile pennello abbia mai tracciate sulla tela, erano nulla a petto a lui. Il corpo scheletrito e le gambe malferme, che la vistosità del costume facea spiccare singolarmente, gli occhi vitrei che orrendamente contrastavano con lo strato di bianco di cui la faccia era spalmata; la testa adornata di fronzoli, tremante per paralisi; le lunghe mani ossute tinte di calce; — tutto gli dava un aspetto ributtante, eccezionale, di cui nessuna descrizione potrebbe dare una giusta idea, o che anche adesso mi mette i brividi al solo pensarci. Avea la voce cupa e tremula. Mi tirò in disparte, e con parole tronche mi contò una serie interminabile di malanni e di privazioni, chiusa, come al solito, dalla urgente domanda che gli prestassi qualche cosa. Gli posi pochi spiccioli in mano, e nell’uscire che fece dal teatro, udii lo scoppio di risa che accoglieva il suo primo capitombolo sulla scena.
"Poche sere appresso, un ragazzo mi pose in mano un sudicio pezzetto di carta, sul quale erano scribacchiate poche parole con la matita, le quali dicevano che il mio uomo stava assai male, e mi pregava che dopo la recita andassi da lui, non mi ricordo più in che via, non molto distante dal teatro. Dissi che sarei andato, non appena sbrigato; e, calato che fu il sipario, mi avviai.
"Era tardi, perchè avevo recitato nell’ultima commedia e siccome era stata una serata a beneficio, lo spettacolo s’era protratto più del solito. Era una notte scura e fredda, con un vento umido e sottile che spingeva la pioggia contro i vetri delle finestre. In quei vicoli angusti e poco frequentati s’erano formate molte pozzanghere; e siccome molti di quei meschini lampioni ad olio erano stati spenti dalla violenza del vento, la passeggiata era non solo poco piacevole, ma anche pericolosa. Per buona sorte, avevo imbroccato la via, e dopo poca difficoltà riuscii a trovar la casa che mi era stata indicata — un deposito di carbon fossile, con sopra un sol piano, dove in una cameretta giaceva l’oggetto delle mie ricerche.
"Una donna dall’aspetto miserabile, la moglie del commediante, mi ricevette sulle scale, mi disse ch’egli s’era appena assopito, ed avendomi introdotto pian pianino, mi fece sedere su una sedia presso al suo letto. Egli aveva la testa volta contro il muro, e siccome non s’accorse lì per lì della mia presenza, ebbi tempo di osservare il luogo ove mi trovava.
"L’infermo giaceva sopra due poveri scanni. Dei lembi laceri di una vecchia tenda erano sospesi a capo del letto, come un riparo dal vento, il quale nondimeno entrava d’ogni parte in quella camera desolata, e ad ogni istante agitava la pesante cortina. Sur una graticola arrugginita e sconnessa bruciava lentamente della polvere di carbon fossile. Accanto, sur una vecchia tavola a tre piedi, v’erano parecchie boccette; uno specchio rotto e qualche altro utensile. Un fanciullo dormiva sopra un materasso steso per terra, e la madre gli sedeva accanto. Alcuni piatti, qualche tazza e certe scodelle ingombravano una coppia di scansie; di sopra erano appiccati de’ fioretti con un paio di scarpe da teatro, e questi oggetti componevano il solo mobilio della stanza, senza contare tre fagottini di cenci gettati a casaccio in un canto.
"Mentre ch’io considerava questa scena di desolazione, e notava la respirazione stentata e i febbrili soprassalti del miserabile commediante, egli si voltava e rivoltava senza posa per trovare una positura men dolorosa. Una delle sue mani uscì dal letto e mi toccò; egli trasalì e mi guardò con occhi truci.
"— John, — gli disse la moglie, — è il signor Hutley che avete fatto chiamare stasera, vi ricordate?
"— Ah! — diss’egli passandosi la mano sulla fronte: è Hutley! Hutley! vediamo.
"Per qualche secondo parve sforzarsi di riunir le idee; poi, afferrandomi per le mani, esclamò:
"— Oh, non mi lasciate, amico mio! Ella mi assassinerà! Ne son certo.
"— È da molto tempo in questo stato? — domandai a quella donna, che piangeva.
"— Da ieri sera, signore. John, John, non mi riconoscete più?
"Dicendo queste parole, si chinava sul letto, ma egli gridò con un impeto di paura:
"— Non la lasciate avvicinare! Respingetela! Non posso vedermela accanto!
"Così parlando, la guardava con occhi smarriti e colmi di mortale avversione, poi mi disse all’orecchio:
"— Io l’ho battuta, Jem. Io l’ho battuta ieri ed altre volte ancora! Ora che son debole e senz’aiuto, ella m’ucciderà; così farà, questo è certo. Se come me e tanto spesso l’aveste intesa gemere e gridare, voi non ne dubitereste. Allontanatela!
Abbandonò la mia mano, e ricadde sul cuscino.
"Io comprendeva bene di che si trattava. Se avessi potuto dubitare un solo minuto, mi sarebbe bastato, per comprenderlo, un colpo d’occhio gettato sul pallido viso, sulle forme stecchite della povera moglie.
"— Fareste meglio a celarvi in disparte, — dissi all’infelice. — Voi non potete fargli del bene; forse sarà più calmo, se non vi vede.
"Ella si pose in un punto da non esser vista.
"In capo a qualche secondo, egli aperse gli occhi e si guardò intorno ansiosamente, domandando:
"— Se n’è andata?
"— Sì, sì, — gli dissi, — non vi farà male.
"— Vi dirò di che si tratta, — riprese egli con voce rauca. — Ella mi fa male! V’è qualche cosa negli occhi di lei che mi empie il cuore di paura e mi rende pazzo. Tutta la notte passata i suoi occhioni fissi e il suo pallido viso mi sono stati d’innanzi. Io mi volgeva e lei pure. Quando mi svegliavo d’un tratto, ella era là, vicina al mio letto e mi guardava.
"Poi si avvicinò ancora di più ed aggiunse con voce bassa, e tremante:
"— Jem, ella è il mio spirito maligno; un demonio. Zitto! Io ne son certo. S’ella fosse una donna, da quanto tempo sarebbe morta! Nessuna donna avrebbe potuto sopportar quello che ha sopportato lei!
"Io fremetti pensando alla lunga serie di disprezzi e di crudeltà di cui un tal uomo doveva essere colpevole per conservarne tale idea. Non potetti rispondere. Quale speranza, quale consolazione dare ad un essere così abietto?
"Restai là più di due ore, durante le quali egli si volse cento volte da una parte e dall’altra, abbandonando le braccia a dritta e a manca, e mormorando esclamazioni di pena e d’impazienza. Alla fine cadde in quello stato d’abbandono imperfetto quando l’anima erra penosamente di posto in posto, da scena a scena, senz’aiuto della ragione ma senza poter liberarsi d’un vago sentimento delle sofferenze presenti. Giudicando allora che il suo male non si aggraverebbe lì per lì, lo lasciai, promettendo a sua moglie di tornare la sera seguente e di passar la notte presso di lui, se fosse stato necessario.
"Tenni la promessa. Le ventiquattr’ore trascorse avevano prodotto in lui uno spaventevole cambiamento. Gli occhi, profondamente incavati, brillavano d’un lampo orribile; le labbra erano secche e screpolate; la pelle luccicava, arida e scottante; in fine si vedeva su quel viso un’espressione d’ansietà feroce, che indicava ancor meglio il danno della malattia e che pareva non appartener più alla terra. La febbre lo divorava.
"Presi la seggiola su cui m’ero seduto la sera innanzi. Io sapeva ch’egli era moribondo: l’avevo inteso dal medico. Restai là delle lunghe ore di notte, tendendo l’orecchio a suoni capaci di commovere le anime più dure. Erano le fantasie misteriose dell’agonia.
"Vidi le sue scarne membra, che poche ore prima si contorcevano per divertire la gaia folla, contorcersi fra le torture d’una febbre ardente. Intesi il riso acuto del pagliaccio mischiarsi al rantolo del moribondo.
"Gli è ben commovente seguire il pensiero d’un infermo che si finge tra le scene ordinarie della vita, tra le sue occupazioni d’un giorno, mentre il suo corpo ora è steso senza forza e senza moto innanzi a’ vostri occhi. Ma questa impressione è cento volte più forte quando quelle occupazioni sono interamente opposte ad ogni idea grave e religiosa. Il teatro e la taverna erano i principali mezzi da svagare quell’infelice. Nel delirio egli credeva di dover recitare una parte quella notte stessa, ch’era tardi e che doveva uscir di casa lì per lì.
" — Perchè lo rattenevano? Perchè gl’impedirebbero di partire? Avrebbe perduto il salario! Bisognava uscire! No, no! lo rattenevano!
"Nascondeva il viso fra le mani ardenti e gemeva sulla sua debolezza e sulla crudeltà de’ suoi persecutori, Dopo un momento, intonava un ritornello da baccanti.
"D’un tratto si levò sul letto, stese le membra di scheletro, e si atteggiò in una posa grottesca. Era sulla scena: recitava. — Un po’ di silenzio ancora, e mormorò un altro ritornello.
"Era giunto alla fine! Quanto era soffocante la sala! Egli era stato ammalato, molto ammalato; ma adesso si sentiva bene, era contento!
"— Riempite il bicchiere!... Chi me lo strappa dai denti?
"Era lo stesso persecutore che l’inseguiva.
"Ricadde sul cuscino e gettò de’ sordi gemiti.
"Dopo un breve intervallo, si trovò errante in un labirinto inestricabile di camere oscure, le cui volte erano così basse che gli bisognava talora trascinarsi carponi per avanzare. Tutto era buio minaccioso; e da qualunque parte si voltasse, trovava pel cammino ostacoli spaventosi. Rettili immondi strisciavano intorno a lui; gli occhi luccicanti dardeggiavano fiamme in mezzo a tenebre palpabili che lo circondavano; le mura, a vôlte, l’aria stessa era avvelenata da insetti schifosi. D’improvviso le vôlte si espandono e diventano d’una grandezza maravigliosa; spettri orribili riddano da ogni parte, in mezzo ai quali egli vedeva apparire visi conosciuti, resi deformi da smorfie e contorsioni terribili. Que’ fantasmi s’impadronirono di lui: gli bruciarono le carni con ferri roventi; gli strinsero delle funi intorno alle tempie, sino a farne spicciar sangue, e lo costrinsero a dibattersi violentemente per isfuggire alla morte che l’invadeva.
"Alla fine d’uno di questi parossismi, durante i quali avevo avuto un gran da fare per ritenerlo in letto, egli si abbandonò sfinito e cadde in una specie di assopimento. Stanco per le veglie e lo sforzo, avevo chiuso gli occhi da qualche minuto, quando intesi battermi violentemente sulla spalla; mi svegliai. Egli si era levato e seduto sul letto. Il viso era cambiato in guisa spaventosa; tuttavia il delirio era cessato, poichè certamente egli mi riconosceva. Il bambino, intimorito per sì gran tratta dalle fantasticherie del babbo, corse a lui gridando con terrore; ma la madre lo afferrò per le braccia d’un lampo, temendo che John non lo ferisse nella violenza de’ suoi delirii; poi, notando il cambiamento de’ suoi lineamenti, restò spaventata e immobile a piè del letto. Tuttavia egli stringeva convulsivamente la mia spalla; e battendosi con l’altra mano il petto, faceva orribili sforzi per parlare; ma invano. Stese le braccia verso sua moglie e il bambino; le labbra bianche gli si agitarono, ma non produssero che un rantolo affannoso, un gemito soffocato; gli occhi brillarono ancora un istante, poi ricadde all’indietro... Morto."
Sarebbe motivo per noi di grande soddisfazione il poter riferire qui l’opinione del signor Pickwick intorno all’aneddoto precedente. E l’avremmo senz’altro presentata ai lettori, se non fosse stato per una disgraziatissima congiuntura
Il signor Pickwick avea posato sulla tavola il bicchiere che, durante le ultime sentenze del racconto, avea tenuto in mano; e proprio in quel punto s’era determinato a parlare — abbiamo anzi l’autorità del libro di appunti del signor Snodgrass per attestare ch’egli aveva aperta la bocca — quando il cameriere si mostrò sulla soglia, annunziando:
— Dei signori, signore.
È da congetturare che il signor Pickwick fosse in procinto di dar vita ad alcune osservazioni che avrebbero illuminato il mondo se non il Tamigi, quando così bruscamente fu interrotto; poichè egli si volse con una severa occhiata al cameriere, e poi guardò intorno a tutti come per prender conto dei nuovi venuti.
— Oh! — disse il signor Winkle alzandosi, — degli amici miei; fateli passare. Persone amabilissime, — aggiunse poi quando il cameriere fu andato via, — ufficiali del 97°, di cui ho fatto stamane la conoscenza in un modo piuttosto strano. Vi piaceranno molto.
L’equanimità del signor Pickwick rivenne subito a galla. Il cameriere tornò, e tre gentiluomini entrarono dopo di lui.
— Il luogotenente Tappleton, — disse il signor Winkle facendo le debite presentazioni — il luogotenente Tappleton, il signor Pickwick; il dottor Payne, il signor Pickwick; il signor Snodgrass lo conoscete già da stamane; il mio amico Tupman, il dottor Payne; il dottor Slammer, il signor Pickwick, il signor Tupman, il dottor Slam...
Qui il signor Winkle si fermò di botto; perchè una forte emozione era visibile sul volto così del signor Tupman, come del dottore.
— Ho già altra volta incontrato questo signore, — disse il dottore con enfasi.
— Davvero? — esclamò il signor Winkle.
— Ed anche... anche quell’individuo lì, se non m’inganno, — riprese il dottore, abbassando un’occhiata indagatrice sullo sconosciuto dall’abito verde. — Mi pare di aver fatto ieri sera a cotesto individuo un invito molto pressante, che egli trovò opportuno di declinare. — Così dicendo il dottore guardò sdegnosamente allo sconosciuto, e disse alcune parole all’orecchio del suo amico luogotenente Tappleton.
— Davvero! — disse questi quando il dottore ebbe parlato.
— Proprio, sul serio, — rispose il dottor Slammer.
— Dovete senz’altro prenderlo a calci adesso adesso, — borbottò il proprietario dello sgabello con grande importanza.
— Chetatevi, Payne, — venne su il luogotenente. — Permettete che io vi domandi, signore, — disse poi volgendosi al signor Pickwick, il quale non si raccapezzava a questa scena sconvenientissima, — permettete che io vi domandi, signore, se quell’individuo appartiene alla vostra brigata?
— No, signore, — rispose il signor Pickwick, — non è che un nostro commensale.
— È socio anch’egli del vostro Circolo? — domandò ancora il luogotenente.
— Certamente no, — rispose il signor Pickwick.
— E non porta mai l’uniforme del Circolo?
— No, mai! — rispose lo stupito signor Pickwick.
Il luogotenente Tappleton si voltò di nuovo al dottor Slammer, con una leggiera scrollatina di spalle, come per significare un suo dubbio sull’accuratezza della memoria dell’amico suo. Il piccolo dottore pareva esasperato ma confuso; e il signor Payne fissava con uno sguardo pieno di ferocia la serena fisionomia dell’inconscio signor Pickwick.
— Signore, — esclamò il dottore, volgendosi di botto al signor Tupman in un certo tono che fece trasalire questo degno uomo così visibilmente come se una mano maligna gli avesse ficcato uno spillo nel polpaccio della gamba, — siete stato al ballo quassù, ieri sera?
Il signor Tupman balbettò un debolissimo sì, senza togliere un sol momento gli occhi dal signor Pickwick.
— Quella persona lì vi accompagnava, — disse il dottore additando lo sconosciuto sempre impassibile.
Il signor Tupman ammise il fatto.
— Ora, signore, — disse il dottore allo sconosciuto, — vi domando ancora una volta, in presenza di questi signori, se vi piace darmi il vostro biglietto ed esser trattato da gentiluomo, o se volete mettermi nella necessità di castigarvi qui con le mie proprie mani?
— Un momento, signore, — disse il signor Pickwick; — davvero io non posso permettere che questa faccenda vada più oltre senza qualche spiegazione. A voi, Tupman, esponete i particolari del fatto.
Il signor Tupman, con tanta solennità apostrofato, espose il fatto in brevi parole; toccò appena dell’abito preso a prestito; si fermò non poco a far notare come la cosa fosse avvenuta dopo desinare; conchiuse con alcune parole di pentimento per conto proprio; e lasciò lo sconosciuto a sbrigarsene il meglio che potesse.
Egli era, a quanto pareva, sul punto di farlo, quando il luogotenente Tappleton, che in questo mentre l’aveva osservato con attenta curiosità, domandò con tono di grande disprezzo:
— Non vi ho già veduto a teatro, signore?
— Certamente, — rispose tranquillamente lo sconosciuto.
— È un commediante, — disse il luogotenente con disprezzo, volgendosi al dottor Slammer. — Recita nella commedia che gli ufficiali del 52° mettono su domani sera al teatro di Rochester. Non potete andare oltre in questo affare, Slammer, impossibile!
— Assolutamente! — disse il dignitoso signor Payne.
— Son dolente di avervi messo in questa disgraziata situazione, — disse il luogotenente Tappleton indirizzandosi al signor Pickwick; — permettetemi però di aggiungere che il miglior modo di evitare che si rinnovino di queste scene, è di essere più guardingo nella scelta dei vostri compagni. Buona sera, signore! — e il luogotenente voltò le spalle ed uscì dalla camera.
— E permettetemi di dirvi, signore, — disse l’irascibile dottor Payne, — che se io fossi stato nei panni di Tappleton, o in quelli di Slammer, vi avrei rotto il naso, signore, nonchè il naso di tutti quanti voi, uno per uno. Sicuro, proprio così. Mi chiamo Payne, signore; dottor Payne del 43°. Buona sera, signore.
E conchiuso così il suo discorso e pronunciate in una chiave molto alta le ultime tre parole, il dottor Payne seguì con passo maestoso le pedate del suo amico, e si tirò dietro il dottor Slammer, il quale non disse verbo, ma si contentò di annichilire la brigata con una semplice occhiata
Durante tutte queste provocazioni, uno stordimento maraviglioso ed una rabbia crescente aveano gonfiato il nobile seno del signor Pickwick sino al punto di fargli quasi scoppiare la sottoveste. Restò come inchiodato al suolo, guardando nel vuoto, e non fu richiamato a se stesso che dal rumore che fece la porta chiudendosi. Si slanciò con le furie nel viso e le fiamme negli occhi. Avea già posto la mano sulla serratura; un altro minuto, e quella stessa mano avrebbe afferrato alla gola il dottor Payne del 43°, se il signor Snodgrass trattenendo per la falda del soprabito il suo riverito condottiero non lo avesse a forza tirato indietro.
— Trattenetelo, per carità! — gridò il signor Snodgrass, — Winkle, Tupman, trattenetelo! Egli non deve mettere a repentaglio la sua nobile esistenza per una causa come questa.
— Lasciatemi! — disse il signor Pickwick.
— Tenetelo fermo! — gridò il signor Snodgrass; e mediante gli sforzi combinati di tutta la brigata, il signor Pickwick fu sprofondato in una poltrona
— Lasciatelo stare, — disse lo sconosciuto dall’abito verde. — Un sorso di ponce. Stomaco leonino, vecchio arzillo, bravo. Giù! bevanda impareggiabile.
Avendo prima assaggiato la bontà della bevanda preparata dall’uomo-cataletto, lo sconosciuto accostò il bicchiere alle labbra del signor Pickwick, e vuotò da sè in un batter d’occhio il resto del contenuto.
Vi fu una breve pausa. L’acquavite nell’acqua avea fatto il suo effetto; l’amabile fisionomia del signor Pickwick tornava a splendere dell’usata sua luce.
— Non sono degni della vostra attenzione, — disse l’uomo-cataletto.
— Avete ragione, signore, — rispose il signor Pickwick, — non ne sono degni; mi vergogno anzi di essermi lasciato trasportare dal calore dei miei sentimenti. Accostatevi alla tavola, signore.
L’uomo lugubre obbedì: di nuovo si fece circolo intorno alla tavola, e il buon accordo fu ristabilito. Un residuo d’irritazione faceva capolino di tratto in tratto negli occhi del signor Winkle, dovuto probabilmente al prestito temporaneo dell’uniforme, benchè non si possa ragionevolmente supporre che una circostanza di così poco conto avesse acceso un sentimento di sdegno, anche passeggiero, in un seno pickwickiano. Meno questa nuvoletta, il buon umore tornò a regnare, e la serata fu chiusa con la medesima cordialità con la quale era stata aperta.