Il Circolo Pickwick/Capitolo 11

Il quale espone un altro viaggio e una scoperta archeologica; enuncia il proposito del signor Pickwick di assistere ad una elezione, e contiene un manoscritto del vecchio ecclesiastico

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Il quale espone un altro viaggio e una scoperta archeologica; enuncia il proposito del signor Pickwick di assistere ad una elezione, e contiene un manoscritto del vecchio ecclesiastico
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Il quale espone un altro viaggio e una scoperta archeologica; enuncia il proposito del signor Pickwick di assistere ad una elezione, e contiene un manoscritto del vecchio ecclesiastico.

Una notte di quiete e di riposo nel silenzio profondo di Dingley Dell e una buona boccata d’aria pura e fragrante il mattino appresso, rimisero completamente il signor Pickwick dalla stanchezza materiale e morale. Per due giorni di fila quest’uomo illustre era stato lontano dai suoi amici e seguaci; sicchè non è da concepire con quanto piacere egli si avanzasse a salutare i signori Winkle e Snodgrass, imbattendosi in essi al suo ritorno dalla mattutina passeggiata. Il piacere fu vicendevole; perchè chi mai poteva contemplare la faccia raggiante del signor Pickwick senza sentirsene rallegrato? Pareva nondimeno che una nube incombesse sui suoi compagni, la quale al grand’uomo non poteva sfuggire benchè la sua penetrazione non ne indovinasse il motivo. Erano l’uno e l’altro avvolti da una cert’aria misteriosa non meno insolita che allarmante.

— E come sta, — domandò il signor Pickwick, quando ebbe stretto la mano ai suoi seguaci e scambiato gli affettuosi saluti, — come sta Tupman?

Il signor Winkle, al quale la domanda era più specialmente diretta, non rispose verbo. Voltò il capo in là e parve assorto in malinconiche riflessioni.

— Snodgrass, — disse con ansia il signor Pickwick, — come sta il nostro amico.... non sta mica male?

— No, — rispose il signor Snodgrass; ed una lagrima tremolò all’orlo della sua palpebra sentimentale, come una goccia di pioggia sul vetro di una finestra. — No, non sta male.

Il signor Pickwick si fermò, e guardò in viso alternativamente i suoi amici.

— Winkle, Snodgrass, — disse il signor Pickwick, — che vuol dir ciò? dov’è il nostro amico? che è accaduto? Parlate, ve ne prego.... ve l’impongo anzi, parlate.

Il contegno del signor Pickwick era così degno e solenne che a dirittura non vi si potea resistere.

— È partito, — disse il signor Snodgrass.

— Partito! — esclamò il signor Pickwick, — partito!

— Partito, — ripetette il signor Snodgrass.

— Per dove? — domandò il signor Pickwick.

— Non possiamo congetturarlo che da questa comunicazione, — rispose il signor Snodgrass, cavando di tasca una lettera e porgendola all’amico. — Ier mattina, quando giunse la lettera del signor Wardle che annunziava il vostro ritorno con la sorella per la sera stessa, fu vista farsi più cupa la malinconia che avea pesato sul nostro amico durante tutto il giorno precedente. Poco dopo disparve: non fu trovato per tutto il giorno, e la sera fu portata questa lettera dal mozzo di stalla della Corona di Muggleton. Gli era stata consegnata la mattina con ordine severo di non recapitarla prima di sera.

Il signor Pickwick aprì la lettera. Era di carattere di Tupman e conteneva quanto segue:

"Mio caro Pickwick,

"Voi, mio caro amico, siete molto al di sopra di tante fragilità e debolezze mortali alle quali la comune degli uomini non può sottrarsi. Voi non sapete che cosa sia essere in un punto solo abbandonato da una donna adorata ed ammaliatrice e cader vittima degli inganni di un furfante, che nascondeva il ghigno dell’astuzia sotto la maschera dell’amicizia. Non vi auguro che mai l’abbiate ad apprendere.

"Qualunque lettera indirizzata a me al Fiasco di cuoio, Cobham, Kent, mi sarà recapitata, — supposto che io sia ancora fra i viventi. Io fuggo l’aspetto di un mondo che m’è venuto in odio. Se mai lo fuggissi del tutto e per sempre, compiangetemi, perdonatemi. La vita, mio caro Pickwick, mi si è resa insopportabile. Lo spirito che arde dentro di noi somiglia la gerla del facchino sulla quale posa il gran fardello delle cure e dei dolori; e quando questo spirito ci vien meno, il peso troppo grave ci schiaccia. Potete dire a Rachele.... ahi, questo nome!..."

— Dobbiamo partir subito da questo luogo, — disse il signor Pickwick ripiegando la lettera. — Non sarebbe mai stato conveniente rimaner qui, dopo quanto è accaduto; ed ora ci incombe il dovere di andare in cerca del nostro amico.

E così dicendo, si avviò alla casa.

Quando la sua determinazione fu nota, una gran ressa gli si fece intorno, perchè rimanesse. Ma il signor Pickwick fu incrollabile. Degli affari urgenti, disse, lo chiamavano altrove.

Il vecchio ecclesiastico si trovava presente.

— È proprio vero che volete partire? — domandò traendolo in disparte.

Il signor Pickwick riconfermò il suo proposito.

— In tal caso, — disse il vecchio, — eccovi un piccolo manoscritto, che mi auguravo di leggervi io stesso. Lo trovai alla morte di un mio amico medico, addetto al nostro manicomio, fra una farraggine di carte lasciate a me perchè le serbassi o le distruggessi a mia scelta. Non credo veramente che il manoscritto sia genuino, benchè certo non è scritto di pugno del mio amico. In tutti i modi, o che sia realmente scritto da un pazzo o che sia soltanto fondato sui delirii di qualcuno di questi infelici, cosa che mi pare più verisimile, leggetelo e giudicate da voi stesso.

Il signor Pickwick prese il manoscritto e si accomiatò dal buon vecchio con molte espressioni di stima e di affetto.

Fu meno agevole il prendere commiato dai padroni di casa, dai quali erano stati colmati di tante cortesie. Il signor Pickwick baciò le signorine — diremmo quasi come un padre, se il paragone non fosse alquanto inesatto, visto che un po’ di calore soverchio ei ve lo mettesse, —abbracciò la vecchia signora con cordialità filiale, e accarezzò con una sua piccola percossa le guance rosee della servitù femminile in un modo molto patriarcale, mentre faceva scivolare nelle mani di ciascuna qualche segno più sostanzioso della sua soddisfazione. Lo scambio di espansioni con quel caro vecchio del loro ospite e col signor Trundle fu anche più cordiale e prolungato; e solo dopo aver chiamato parecchie volte il signor Snodgrass, il quale emerse finalmente da un oscuro corridoio seguito subito dopo da Emilia (i cui occhi brillanti erano insolitamente offuscati), i tre amici riuscirono a divincolarsi dai loro ospiti cortesi. Molti sguardi volsero indietro alla fattoria, mentre lentamente s’allontanavano, e molti baci lanciò in aria il signor Snodgrass in risposta a qualche cosa che somigliava molto un fazzoletto di signora, sventolato dall’alto d’una finestra, fino a che un gomito del viale non ebbe nascosta agli occhi loro la vecchia casa.

A Muggleton si procacciarono un mezzo di trasporto per Rochester. La lunghezza del cammino aveva intanto mitigato in gran parte il loro dolore, tanto che potettero fare un eccellente desinare; indi, informatisi della strada da prendere, i tre amici si posero di nuovo in viaggio alla volta di Cobham.

La passeggiata non poteva essere più amena. Era una bella giornata di giugno ed essi attraversavano un bosco fitto ed ombroso, rinfrescato dallo zeffiro che mormorava dolcemente nel fogliame e rallegrato dalle canzoni degli uccelletti appollaiati sui rami. L’edera e il muschio rivestivano del loro verde i vecchi tronchi degli alberi e l’erba che cresceva sul sentiero faceva come un morbido tappeto di seta. Uscirono all’aperto in un ampio parco con un antico castello dall’architettura barocca e pittoresca del tempo di Elisabetta. Lunghi viali di olmi e quercie annose si aprivano dall’una e dall’altra parte: greggi numerose di daini pascolavano; e di tratto in tratto una lepre spaurita rasentava il terreno con la rapidità delle ombre proiettate dalle leggiere nuvolette che sopra un bel paesaggio soleggiato passano come un soffio fugace dell’estate.

— Se qui, — disse il signor Pickwick, guardandosi intorno, — se qui venissero tutti coloro cui stringe una cura simile a quella del nostro amico, io credo che il loro primo attaccamento a questo mondo tornerebbe ben presto.

— Così credo anch’io, — disse il signor Winkle.

— E veramente, — aggiunse il signor Pickwick, dopo che in mezz’ora di cammino furono giunti al villaggio, — veramente questa è per un misantropo la più bella e desiderabile dimora ch’io abbia mai conosciuto.

In questa opinione convennero anche i signori Winkle e Snodgrass; ed essendo stati diretti al Fiasco di cuoio, comoda e pulita osteria di villaggio, i tre viaggiatori entrarono e presero subito contezza di un signore che rispondeva al nome di Tupman.

— Fate entrare i signori nel salotto, Tom, — disse l’ostessa.

Un bel pezzo di giovanotto campagnolo aprì una porta all’estremità del corridoio, e i tre amici entrarono in una camera lunga e bassa fornita di un gran numero di seggiole dalle spalliere alte e dai cuscini di pelle, di foggie fantastiche, ed ornata con una grande varietà di vecchi ritratti e stampe colorate. In fondo alla camera si vedeva una tavola, coperta da una bianca tovaglia, con sopra polli arrosto, prosciutto, birra, e simili; e alla tavola sedeva il signor Tupman, che somigliava il meno possibile ad un uomo che avesse preso dal mondo il suo commiato definitivo.

Vedendo entrare gli amici, il signor Tupman posò il coltello e la forchetta, e con aria lugubre andò loro incontro.

— Non mi aspettavo di vedervi qui, — disse poi stringendo la mano al signor Pickwick. È stato un gentile pensiero il vostro.

— Ah! — sospirò il signor Pickwick, mettendosi a sedere e asciugandosi il sudore dalla fronte. — Terminate il vostro desinare e venite fuori a far quattro passi con me. Bramo parlarvi da solo a solo.

Il signor Tupman obbedì; e il signor Pickwick, dopo che si fu rinfrescato con una buona bevuta di birra, aspettò l’amico suo. Il desinare fu subito terminato, ed essi uscirono insieme.

Per una mezz’ora furono veduti andar su e giù pei viali del camposanto, durante la quale il signor Pickwick si studiò di combattere il bieco proposito del suo compagno. Sarebbe inutile riferire qui le sue argomentazioni; perchè quale lingua umana potrebbe dar loro quell’energia e quella efficacia che vi sapeva infondere il grande oratore? Sia che il signor Tupman fosse già stanco del suo isolamento, sia che non potesse proprio resistere all’eloquente appello che gli veniva fatto, certo è che non vi resistette.

— Poco gl’importava, — disse, — dove avrebbe trascinato il resto dei suoi giorni; e poichè il suo amico teneva tanto alla sua umile compagnia, egli consentiva di buon grado a dividerne le avventure.

Il signor Pickwick sorrise. Si strinsero la mano, e tornarono indietro per raggiungere i compagni.

Fu a questo punto che il signor Pickwick fece quella scoperta immortale, che ha formato sempre l’orgoglio ed il vanto dei suoi amici non che l’invidia di tutti gli antiquari di questa e delle altri parti del mondo. Aveano oltrepassata la porta dell’osteria e fatti pochi passi verso il villaggio, prima di ricordarsi il posto preciso di quella. Nel tornar che fecero indietro, l’occhio del signor Pickwick cadde sopra una piccola pietra rotta, a metà sepolta nel terreno, di faccia alla porta di una capanna. Si fermò.

— È strano! — disse il signor Pickwick.

— Che cosa è strano? — domandò il signor Tupman, guardando a tutti gli oggetti che gli stavano intorno, meno che all’oggetto in questione. — Per amor del cielo, di che si tratta?

Era quest’ultima una esclamazione d’irrefrenabile stupore, motivato dal vedere il signor Pickwick, nel suo entusiasmo di scopritore, cadere in ginocchio davanti alla piccola pietra e darsi a spolverarla col proprio fazzoletto da naso.

— Qui c’è un’iscrizione, — disse il signor Pickwick.

— Possibile! — esclamò il signor Tupman.

— Discerno appena, — continuò il signor Pickwick strofinando a tutt’uomo e figgendo gli occhi attraverso le lenti, — discerno una croce, ed un B. e poi una T. Questo è importantissimo, — continuò il signor Pickwick, sorgendo in piedi. — Dev’essere qualche antica iscrizione, anteriore forse di molti anni alla fondazione degli ospizi di beneficenza qui. Non dobbiamo perderla.

Picchiò alla porta della capanna. Un contadino venne ad aprire.

— Sapete in che modo questa pietra si trova qui? — domandò il benevolo signor Pickwick.

— No davvero, — rispose quegli garbatamente. — Stava qui prima assai che venissimo al mondo io od alcun altro, di qua.

Il signor Pickwick volse al suo compagno un’occhiata trionfale.

— Voi.... voi... non ci tenete molto, credo? —disse poi tremando d’ansietà. — Non avreste mica difficoltà di venderla?

— Ah! ma chi è che se la comprerebbe? — domandò il contadino, con una certa espressione nel viso che probabilmente gli doveva parere piena di astuzia.

— Ve ne do subito dieci scellini, — disse il signor Pickwick, — se me la togliete di là.

Si può agevolmente figurarsi lo stupore di tutto il villaggio, quando, scastrata con un sol colpo di vanga la piccola pietra, il signor Pickwick se la trasportò a gran fatica e con le proprie mani fino all’osteria, e dopo averla accuratamente lavata, la depose sulla tavola.

L’esultanza e la gioia dei pickwickiani non ebbero limiti, quando a furia di pazienza e di attività, di lavare e di grattare, i loro sforzi furono coronati dal successo. La pietra era ineguale e rotta, e le lettere contorte ed irregolari, ma si poteva chiaramente decifrare il seguente frammento d’iscrizione:

BILST

VM

PSCIF

RAS

VA

Gli occhi del signor Pickwick raggiarono di gioia nel contemplare e quasi nel covare con lo sguardo il tesoro che aveva scoperto. Avea raggiunto uno dei più alti fini della sua ambizione. In una contea nota per l’abbondanza di ruderi antichissimi; in un villaggio nel quale esistevano ancora delle memorie di un remoto passato, egli — presidente del Circolo Pickwick — avea scoperto una strana e curiosa iscrizione di incontrastabile antichità, che era sfuggita all’osservazione di molti eruditi che lo avevano preceduto. Poteva appena prestar fede all’evidenza dei propri sensi.

— Questo fatto, — egli disse, — questo fatto mi decide. Domani stesso torniamo in città.

— Domani! — esclamarono ad una voce gli ammirati seguaci.

— Domani, — ripetette il signor Pickwick. — Questo tesoro deve subito esser depositato dove possa essere pienamente studiato ed interpretato con esattezza. Un’altra ragione mi persuade a questo passo. Fra qualche giorno deve aver luogo una elezione ad Eatanswill, nella quale il signor Perker, un signore che ho conosciuto in questi giorni, è agente di uno dei due candidati. Vedremo da vicino e minutamente esamineremo una scena così interessante per ogni inglese.

— Sì, sì! — risposero tre voci piene di ardore.

Il signor Pickwick si guardò intorno. L’attaccamento e il fervore dei suoi seguaci gli accendevano dentro la fiamma dell’entusiasmo. Egli era il loro duce e sentiva di esserlo.

— Solennizziamo, — disse, — questo incontro avventuroso con un bicchiere fraterno.

Questa proposta, come la precedente, fu accolta da unanimi applausi. E dopo avere con le proprie mani deposto la preziosa pietra in una scatola di legno comprata a posta all’ostessa, il signor Pickwick si pose in un seggiolone a capo tavola; e tutta la sera fu dedicata all’allegria e alla conversazione.

Erano passate le undici — ora avanzata pel piccolo villaggio di Cobham — quando il signor Pickwick si ritirò nella sua camera da letto. Aprì la persiana e, posando la candela sulla tavola, si sprofondò in una serie di meditazioni sui molteplici eventi dei due giorni precedenti.

L’ora ed il luogo favorivano il meditare, e il signor Pickwick ne fu destato dall’orologio della chiesa che batteva mezzanotte. Il primo tocco della campana gli suonò solennemente all’orecchio, ma battuto che fu l’ultimo, il silenzio notturno gli sembrò insopportabile; gli pareva quasi di aver perduto un compagno. Si sentiva eccitato e nervoso; sicchè, spogliatosi in fretta e messa la candela nel camino, si pose a letto.

Ognuno di noi ha sperimentato quello stato di malessere nel quale una sensazione di stanchezza corporea lotta invano contro l’insonnio. Appunto in tale stato trovavasi il signor Pickwick: si voltò sopra questo e sopra quel fianco, serrò forte gli occhi come per costringer se stesso a dormire. Ma tutto fu inutile. Sia per l’insolito movimento che s’era dato, sia pel caldo, sia pel ponce, sia pel cambiamento di letto o per qualunque altra cagione, i suoi pensieri ricorrevano con una ingrata ostinazione agli strani dipinti ch’erano da basso e alle vecchie storie cui aveano dato origine nel corso della serata. Dopo una mezz’ora d’inutile travaglio, ei venne nella dispiacevole conclusione che non c’era verso di dormire; sicchè si levò e si vestì in parte. Qualunque cosa era preferibile allo starsene disteso in letto fantasticando di ogni sorta di orrori. Guardò fuori della finestra — era buio pesto. Girò per la camera — c’era il vuoto e la solitudine.

Aveva fatto pochi giri dalla porta alla finestra e dalla finestra alla porta, quando ad un tratto si risovvenne del manoscritto consegnatogli dall’ecclesiastico. Era una felice idea. O il manoscritto lo avrebbe distratto o gli avrebbe conciliato il sonno. Lo cavò dunque dalla tasca del soprabito, e tratto che ebbe un tavolino accanto al letto, smoccolò la candela, si mise gli occhiali e si apparecchiò a leggere. Il carattere era strano assai e la carta era sudicia e tutta sgorbi. Il titolo del racconto lo fece anche trasalire; ed ei non potette fare a meno di girare un’occhiata sospettosa per tutta la camera. Riflettendo però sull’assurdità di abbandonarsi a siffatti turbamenti, tornò a smoccolare la candela, e lesse quel che segue.

Manoscritto di un pazzo.

"Sì! di un pazzo! come m’avrebbe ferito al cuore questa parola tanti anni fa! come m’avrebbe empito di quell’orrore che qualche volta m’invadeva tutto, facendomi bollire e friggere il sangue nelle vene fino a che il freddo della paura mi copriva di stille l’epidermide e le ginocchia s’urtavano insieme! E nondimeno mi piace adesso quella parola. È un bel nome. Mostratemi il monarca il cui cipiglio fosse mai tanto temuto come la luce sinistra dell’occhio di un pazzo, — un monarca la cui corda e la cui mannaia siano per metà così sicure come la stretta di un pazzo. Oh, oh! gran cosa è l’esser pazzo! esser guardato come un leone selvaggio attraverso i cancelli — digrignare i denti e mugolare nella notte silenziosa ed interminabile, al suono giocondo di una grave catena — e voltolarsi e contorcersi sulla paglia inebbriato da una musica come quella. Evviva la casa dei matti! Oh, il gran bel posto!

"Mi ricordo di quei giorni quando mi pigliava la paura di esser pazzo; quando mi accadeva di destarmi trasalendo, di cadere in ginocchio, di pregare ardentemente perchè la maledizione della mia razza non mi piombasse sul capo: quando fuggivo gli spassi e l’allegria, per nascondermi in qualche angolo remoto a consumarvi le tarde ore spiando il progresso della febbre che doveva rodermi il cervello. Sapevo bene che la follia mi stava nel sangue, nel midollo delle ossa; che una generazione era passata incolume da quella peste, e che io ero il primo nel quale avrebbe rinverdito. Sapevo che così doveva essere e non altrimenti; che sempre così era stato, e sempre così sarebbe stato; e quando da un oscuro cantuccio di una camera affollata vedevo la gente bisbigliare e accennare, e volgere gli occhi dalla mia parte, sapevo bene che parlavano insieme dell’uomo fatalmente dannato alla follia; e me la svignavo in fretta per meditare e rodermi nella solitudine.

"Feci così per anni ed anni; e furono anni interminabili. Qui le notti sono lunghe qualche volta, molto lunghe; eppure son nulla a paragone di quelle notti d’allora così piene di sogni spaventosi. Solo in pensarvi mi si aggricciano le carni. Delle strane ombre dalle faccie lunghe e ghignanti si accoccolavano negli angoli della camera, o si accostavano di notte alla sponda del letto e mi si chinavano sopra e m’istillavano la follia. Mi dicevano bisbigliando, che il pavimento della vecchia casa, dove mio nonno era morto, era macchiato del suo sangue, dalle sue stesse mani versato in un accesso furioso. Ed io mi cacciavo le dita nelle orecchie, ma quelle mi strillavano forte nella testa, fino a che tutta la camera ne rintronava, che nella generazione precedente alla sua la follia era stata assopita, ma che suo nonno avea vissuto tanti anni di fila con le mani incatenate all’impiantito, per impedire che si lacerasse le carni. Dicevano il vero, ed io lo sapevo, sì, pur troppo lo sapevo. Molti anni prima avevo fatto questa scoperta, benchè si studiassero di celarmi la cosa. Ah, ah! ero troppo astuto per loro, per matto che mi credessero.

"Alla fine mi prese, e davvero fui sorpreso come mai ne avessi potuto aver paura. Potevo ora andar fra la gente, e ridere e fare il chiasso con chi mi talentava meglio. Io sapevo di esser pazzo, ma essi non ne sospettavano nemmeno. Che piacere era il mio! che voluttà, pensando come li mettevo in mezzo dopo essere stato oggetto dei loro bisbigli, dopo essere stato segnato a dito, quando non ero pazzo, quando essi temevano soltanto che un giorno avessi a divenirlo! E che risa di gioia, quando poi ero solo, e pensavo alla gelosia del mio gran segreto ed alla fretta con cui sarebbero scappati da me quei buoni amici, se avessero conosciuta la verità! Avrei quasi gridato dall’ebbrezza, quando mi trovavo a tavola a quattr’occhi con qualcuno di cotesti allegri giovanotti, che si sarebbe fatto pallido come un cencio di bucato e sarebbe fuggito più che di corsa, se avesse indovinato che il caro amico sedutogli accanto, il quale andava affilando la lama lucida e sottile del suo coltello, era un pazzo, un pazzo che aveva il potere, e quasi la voglia, di cacciargliela nel cuore. Oh, che bella vita, che allegra vita era quella!

"La fortuna mi arrise, fui ricco, mi abbandonai ad ogni sorta di piaceri che riuscivano a mille doppi graditi all’anima mia per la coscienza del mio segreto tanto ben custodito. Ereditai una proprietà. La legge, la stessa legge dagli occhi lincei, s’era ingannata ed avea posto delle migliaia di lire contrastate nelle mani di un pazzo. Dov’era dunque l’intelligenza e l’acume degli uomini sani di mente? dove la bravura dei curiali, così fecondi di eccezioni e cavilli? L’astuzia del pazzo gli aveva tutti messi dentro.

"Avevo dell’oro. E quanta corte mi si faceva! Lo spesi a profusione. E di quante mai lodi fui fatto segno! Come mi si umiliarono davanti quei tre fratelli superbi e soverchiatori! Perfino il vecchio padre canuto, che deferenza per me, che rispetto, che devota amicizia, che adorazione! Aveva una figlia il vecchio, e i tre giovani avevano una sorella; e tutti e cinque erano poveri. Io invece ero ricco, e quando sposai la ragazza, io vidi un sorriso di trionfo rischiarare le faccie dei parenti; i quali certo pensavano al loro piano così bene architettato ed al bel premio che ne avevano conseguito. E toccava a me sorridere. Ma che dico sorridere! Ridere, sghignazzare, e tirarmi i capelli, e rotolarmi per terra con urli di gioia. Non pensavano essi nemmeno alla lontana che l’avevano maritata ad un pazzo!

"Adagio. E se l’avessero saputo l’avrebbero forse salvata? La felicità di una sorella per l’oro di suo marito. La piuma leggiera che con un soffio spingo nell’aria contro la catena brillante che orna il mio corpo!

"In una sola cosa, con tutta la mia astuzia, rimasi ingannato. Se non fossi stato pazzo — poichè noi altri pazzi a dispetto della nostra penetrazione soffriamo qualche volta di una certa confusione di idee — avrei capito che la ragazza avrebbe preferito di esser composta fredda e stecchita nella bara all’esser condotta, sposa invidiata, alle mie ricche e splendide case. Avrei capito che il cuore di lei era lontano, con quel giovanetto dagli occhi neri il cui nome colsi una notte sulle labbra di lei in un sospiro affannoso; ed avrei anche capito ch’ella era stata sacrificata a me per sollevare la povertà del padre canuto e degli alteri fratelli.

"Non ricordo più adesso nè persone nè fisonomie, ma so che la fanciulla era bella. Era bella; perchè veramente nelle notti tranquille rischiarate dalla luna, quando mi desto in sussulto, e tutto è cheto dintorno, io vedo, calma ed immobile in un angolo di questa cella, una donna leggiera e languida con folti capelli neri che le cadono lungo la persona nè ondeggiano ad alcun vento della terra; e vedo occhi che mi si figgono addosso e non battono palpebra mai e non si chiudono. Silenzio! il sangue mi si agghiaccia nel cuore scrivendo queste parole — è sua quella forma: il viso è pallidissimo, le pupille son vitree; ma io la riconosco. Non si muove; non si acciglia nè ghigna come l’altre ombre che popolano questa mia cella; ma è tanto più paurosa, anche più degli spiriti che molti anni fa mi tentavano — è uscita or ora dalla sua tomba ed ha la morte stampata sul volto.

"Per circa un anno vidi quella faccia farsi più pallida; per circa un anno vidi scorrere le lagrime su quelle guance smorte, e non ne seppi mai la cagione. La trovai però alla fine. Non la poteva nascondere a lungo. Ella non mi aveva amato mai; nè già io aveva pensato che mi amasse; disprezzava la mia ricchezza, odiava lo splendore che la circondava: nè questo me lo sarei aspettato. Ne amava un altro. A questo non avevo pensato mai. Strani sentimenti mi presero, e tanti pensieri ispiratimi da un segreto potere mi turbinarono ad cervello. Io non l’odiava lei, benchè odiassi il giovanetto ch’ella ancora piangeva. Compiangevo — sì davvero — piangevo la vita sciagurata cui l’avevano dannata i parenti freddi ed egoisti. Sapevo che non avrebbe vissuto a lungo, ma il pensiero che prima di morire avrebbe forse dato la luce ad un altro essere malaugurato, destinato anch’esso a trasmettere la triste eredità della follia, questo pensiero mi determinò. E deliberai di ucciderla.

"Per molte settimane pensai al veleno, e poi all’annegamento, e poi al fuoco. Gran bello spettacolo la casa in fiamme e la moglie del pazzo dispersa in cenere! E figurarsi poi il grazioso scherzo del promettere una ricompensa vistosa a chi l’avesse salvata, e vedere qualcuno di cotesti uomini sani di mente impiccato per la gola come autore di un incendio appiccato da un altro, e tutto questo per l’astuzia di un pazzo! Ci pensai spesso, ma alla fine non ne volli far nulla. Oh! che piacere di affilare giorno per giorno il rasoio, di tentarne il taglio sottile, di figurarsi il fiotto di sangue che un sol colpo di quella lama lucente avrebbe fatto sgorgare!

"Finalmente gli spiriti di una volta, che così spesso m’erano stati intorno, mi bisbigliarono che l’ora era suonata, e mi posero nelle mani il rasoio aperto. Lo strinsi forte, mi alzai piano dal letto e mi chinai sopra mia moglie dormiente. Aveva la faccia nascosta fra le mani. Gliele scostai dolcemente ed esse le caddero inerti sul seno. Avea pianto, perchè ancora le si vedevano umide sulle guancie le traccie delle lagrime. Era calma e placida in viso; ed anzi, mentre la guardavo, un sorriso venne a rischiarare quelle sue pallide fattezze. Dolcemente le posi una mano sulla spalla. Ella trasalì — non era che un sogno passeggiero. Mi tirai indietro. Ella gettò un grido e si destò.

"Un solo atto della mano, e mai più un grido od un suono le sarebbe sfuggito dalle labbra. Mi trattenne la sorpresa. Indietreggiai. Gli occhi di lei si fissavano nei miei. Non so come fosse, ma quegli occhi mi atterrivano, m’incatenavano. Si alzò dal letto, sempre guardandomi fiso. Io tremava; mi sentivo il rasoio nelle mani, ma non potevo muovermi. Ella andò verso la porta, e quando le fu presso ritorse gli occhi da me. L’incanto era spezzato. Diedi un balzo, l’agguantai per un braccio. Ella mise uno o due stridi e stramazzò.

"Avrei potuto ucciderla senza lotta di sorta, ma la casa era già tutta in piedi. Udii il rumore dei passi su per le scale. Riposi il rasoio nella guaina, aprii la porta, e chiamai forte al soccorso.

"Vennero, la sollevarono, la posero a letto. Stette così più ore fuori dei sensi; e quando le tornarono la vita, lo sguardo e la parola, avea smarrito il senno, e delirava selvaggiamente e furiosamente.

"Si mandò pei dottori, certi grandi uomini che si facevano trascinare fino alla porta di casa mia in carrozze comode con bei cavalli e livree gallonate. Stettero per intiere settimane al capezzale del suo letto. Tennero un consulto nella camera appresso, dove parlarono insieme a voce bassa e solenne. Uno di essi, il più dotto ed illustre di tutti, mi chiamò in disparte e, avvertendomi di star preparato al peggio, mi disse — disse a me, a me, pazzo! — che mia moglie era pazza. Egli mi stava di faccia presso una finestra aperta, e mi guardava in viso e mi appoggiava una mano sul braccio. Con un semplice sforzo lo avrei buttato di sotto nella strada. Sarebbe stato un bel fatto, molto ameno; ma ci andava di mezzo il mio segreto, e non mi mossi. Qualche giorno dopo, mi dissero che avrei dovuto tenerla ben guardata, farla sorvegliare, in somma trovarle un custode. Io! proprio io! E allora fu che me andai nell’aperta campagna, dove nessuno mi poteva udire, e risi fino a che l’aria intorno echeggiò delle mie grida di gioia!

"Morì il giorno appresso. Il vecchio canuto l’accompagnò alla tomba, e gli orgogliosi fratelli sparsero una lagrima sul freddo cadavere di quella donna, i cui dolori non avevano mai scosso i loro muscoli di acciaio. Tutto questo alimentava la mia gioia, e tornando a casa, io me la rideva dietro il fazzoletto bianco che mi tenevo sulla faccia, fino a che le lagrime mi vennero agli occhi.

"Ma benchè avessi raggiunto il mio scopo uccidendola, ero disturbato ed inquieto, e sentivo bene che tra non guari il mio segreto sarebbe stato svelato. Io non poteva dissimulare la gioia selvaggia, la voluttà che m’invadeva, e che, quando ero solo a casa, mi faceva saltare e battere palma a palma, e danzare intorno intorno, e gridare esultante. Quando andavo fuori, e vedevo la folla affaccendarsi per le vie, o correre a teatro, e udivo il suono della musica, e vedevo la gente danzare, sentivo dentro tanto giubilo, che sarei piombato in mezzo a loro, e gli avrei fatti a brani, ed avrei empito l’aria di giocondi ululati. Ma digrignavo i denti e battevo i piedi a terra e mi ficcavo nelle mani, stringendo i pugni, l’unghie taglienti. Tenevo ben chiuso il segreto; e nessuno ancora sapeva che io ero pazzo.

"Mi ricordo — benchè sia questa una delle ultime cose che io ricordo: perchè ora mescolo il sogno e la realtà, ed avendo tanto da fare ed essendo qui sempre pressato, non ho proprio tempo di separar l’uno dall’altra, di tirarli da non so che strana confusione nella quale s’intricano — mi ricordo come alla fine mi lasciai sfuggire il segreto. Ah, ah! mi par di vederli ancora i loro sguardi atterriti, mi par di sentire anche adesso con quanto piacere li scagliavo lungi da me e scaraventavo le mie pugna serrate contro le loro faccie livide dallo spavento, e poi via più rapido del vento, lasciandoli gridare e schiamazzar da lontano assai. Mi sento nei muscoli la forza di un gigante quando ripenso a questo. Ecco qua — vedete come si piega sotto la mia stretta furiosa questa sbarra di ferro. La spezzerei come un giunco se non ci fossero qui queste lunghe gallerie con tante porte, che forse non mi farebbero trovar l’uscita: e se anche ne venissi a capo, so che vi son da basso delle porte di ferro serrate e sprangate. Sanno poi che pazzo intelligente sono stato io, e sono orgogliosi di tenermi qui per mostrarmi.

"Vediamo un po’; — sicuro, ero andato a spasso. Era tardi quando giunsi a casa, e trovai il più superbo dei tre superbi fratelli che mi aspettava. Affare urgente, mi disse: questo me lo ricordo bene. Io odiavo costui con tutto l’odio di un pazzo. Tante e tante volte un fiero prurito mi avea preso le mani, bramose di farlo a brani. Mi dissero che mi aspettava. Corsi di sopra. Avea da dirmi una parola. Licenziai i servi. Era tardi, e restammo soli, noi due, — per la prima volta.

"Sulle prime badai bene a tener gli occhi rivolti da lui, perchè io sapevo quel ch’egli non sognava neppure — sapevo e ne esultavo — che lo splendore della follia raggiava in essi come fuoco rovente. Sedemmo e stemmo muti qualche minuto. Egli pel primo ruppe il silenzio. Le mie dissipazioni recenti, e delle strane osservazioni fatte a così breve distanza dalla morte della sorella, erano un insulto alla memoria di lei. Mettendo insieme varie circostanze che prima, gli erano sfuggite, egli sospettava ch’io non l’avessi trattata bene. Bramava sapere se avea ragione di argomentare che io intendevo gettare un rimprovero alla memoria di lei e la disistima sulla famiglia. Questa spiegazione, diceva, era dovuta alla divisa che si onorava d’indossare.

"Quest’uomo aveva un grado nell’armata — un grado comprato col mio danaro e con l’infelicità di sua sorella. Questi era l’uomo che avea guidato il complotto a mio danno, per abbindolarmi e metter le mani nelle mie ricchezze. Questi era l’uomo che era stato strumento principale in forzare la sorella a sposarmi, ben sapendo che il cuore di lei era dato al romantico giovanetto. Dovuta! dovuta alla sua divisa! Alla livrea della sua degradazione! Gli volsi gli occhi addosso — non ne potetti fare a meno — ma non dissi una parola.

"Vidi l’improvviso cambiamento che si fece in lui sotto il mio sguardo. Era sì un uomo di coraggio, ma gli scomparve il colore dalla faccia e si tirò indietro con la seggiola: io trassi la mia più presso alla sua; e mentre io ridevo — ero tanto tanto allegro — lo vidi tremare. Mi sentii dentro sorgere la follia. Egli aveva paura di me.

"— L’avete amata molto vostra sorella quando era viva — dissi — molto.

"Egli si guardò intorno malsicuro, e vidi che stringeva con la mano la spalliera della seggiola: ma non disse nulla.

"— Siete un furfante — gli dissi — ed io vi ho conosciuto; io ho scoperto i vostri infernali disegni contro di me; io so che il suo cuore era ad altri rivolto prima che la costringeste a pigliarmi per marito. Io lo so, lo so, lo so.

"Egli balzò in piedi, brandì in alto la seggiola e mi ingiunse di non accostarmi, — perchè io badavo ad accostarmi a lui mentre parlavo.

"Più che parlare io gridavo, perchè sentivo bollirmi nelle vene passioni burrascose, e gli antichi spiriti tentatori mi susurravano di strappargli e squarciargli il cuore.

"— Maledetto! — gridai, correndogli addosso. — Io l’ho uccisa. Io son pazzo. Finiamola. Sangue, sangue, io voglio sangue.

"Con un colpo scostai la seggiola che nel suo terrore m’aveva, scagliata, e me gli strinsi alla persona; e con un sol tonfo rotolammo insieme per terra.

"Era una bella lotta quella lì, perchè egli era un uomo grande e forte che difendeva la propria vita; ed io, un pazzo robusto sitibondo del sangue di lui. Sapevo che nessuna forza, al mondo poteva esser pari alla mia, ed avevo ragione. Ragione, capite, ragione sempre, benchè pazzo! I suoi sforzi si fecero più deboli. Gli puntai un ginocchio sul petto e gli strinsi forte con ambo le mani il collo muscoloso. La faccia gli si fece paonazza; gli schizzavano gli occhi dall’orbite, e con la lingua di fuori pareva che si burlasse di me. E allora serrai più forte. La porta fu spalancata ad un tratto con gran fracasso, ed una folla si riversò dentro, gridando tutti l’un l’altro che s’afferrasse il pazzo. Non era più un segreto il mio; non dovevo più lottare che per la mia libertà. Balzai ritto in piedi prima che alcuna mano mi toccasse, mi slanciai nel fitto degli assalitori, mi aprii una via colla sola forza del braccio come se brandissi un’accetta e gli accoppai tutti. Afferrai la porta, scavalcai la balaustrata, mi trovai nella via.

"Correvo dritto e rapidissimo, nè alcuno osava arrestarmi. Mi sentivo dietro rumor di passi e corsi con più furia. Il rumore andò affievolendosi nella distanza, e finalmente si spense affatto; ma io correvo sempre a precipizio attraversando pantani e rigagnoli, muri e fossati, con un grido selvaggio che gli strani esseri che mi aleggiavano tutt’intorno ripetevano e gonfiavano fino a che l’aria ne risuonava tutta quanta. Ero trasportato sulle braccia di demoni che volavano a cavalcioni del vento e schiantavano ed abbattevano e portavano via siepi e rami e tronchi e mi volgevano e rivolgevano turbinosamente con un fragore ed una rapidità che mi stordiva, m’intronava, fino a che mi scagliarono lontano da loro con un colpo violento sbattendomi a terra. Quando mi destai, mi trovai qui — qui in questa gaia cameretta dove si affaccia di rado la luce del sole, e la luna penetra appena, con timidi raggi che servono soltanto a mostrarmi le ombre fitte che mi circondano e quella figura silenziosa nel suo solito cantuccio. Quando sto sveglio, sento a momenti strane grida e gemiti che vengono da parti remote di questo gran casamento. Che cosa siano non so; ma non vengono certo da quella pallida forma, nè essa vi bada. Poichè dalle prime ombre del crepuscolo fino alla primissima luce del giorno, sta lì immobile nel medesimo posto, prestando orecchio alla musica della mia ferrea catena e osservando i miei contorcimenti sul letto di paglia."

In fine del manoscritto si leggeva, vergata da altra mano, questa noterella:

(Lo sventurato, di cui più sopra sono riferiti i vaneggiamenti, era un triste esempio dei deplorevoli risultamenti delle forze mal dirette fin dalla giovane età, e degli eccessi prolungati al punto da non poterne più impedire le conseguenze. La dissipazione, l’orgia spensierata, la scostumatezza della prima gioventù determinarono la febbre e il delirio. Il primo effetto di questo fu la strana illusione, fondata sopra una notissima teorica medica, vivamente difesa da alcuni e combattuta da altri, che una follia ereditaria esistesse nella famiglia. Da ciò una concentrazione cupa che si sviluppò col tempo in un’insania morbida, e terminò poi in pazzia furiosa. Tutto farebbe credere che gli eventi da lui narrati, benchè falsati da una fantasia inferma, realmente accadessero. È soltanto argomento di maraviglia per coloro che conobbero i vizi e le tendenze dei primi anni dell’infelice che la furia delle passioni sottrattesi al governo della ragione non lo traesse ad atti anche più terribili.)

La candela del signor Pickwick stava appunto per spegnersi nella padellina, mentre egli finiva di leggere il manoscritto del vecchio ecclesiastico; e quando ad un tratto la fiamma si spense, senza alcun previo scoppiettìo, egli trasalì, vivamente eccitato com’era. Gettò via in fretta quei pochi vestiti che aveva indossato levandosi testè dall’incomodo letto, e volgendo attorno un’occhiata paurosa, balzò di nuovo e si cacciò fra le lenzuola e subito si addormentò profondamente.

Il sole splendeva di tutta la sua luce, quando si svegliò. La tristezza che lo aveva oppresso la sera innanzi s’era dileguata con le ombre che velavano il paesaggio, e i suoi pensieri ed i sentimenti erano adesso leggieri e giocondi come lo stesso mattino. Dopo una solida colazione, i quattro amici si avviarono alla volta di Gravesend, seguiti da un uomo che portava la pietra nella scatola. Giunsero in quella città verso l’una (il bagaglio lo aveano già spedito da Rochester a Londra), ed avendo avuto la fortuna di trovar quattro posti sull’imperiale di una diligenza, arrivarono il giorno stesso a Londra sani ed allegri.

I tre o quattro giorni che seguirono furono dedicati ai preparativi pel viaggio da fare ad Eatanswill. E poichè qualunque particolare relativo a questa impresa importantissima richiede un capitolo a parte, possiamo dedicare le ultime linee del presente ad esporre in breve la storia della scoperta archeologica.

Si rileva dunque dagli Atti del Circolo, che il signor Pickwick tenne una lettura sulla fatta scoperta in un’assemblea generale del Circolo, convocata la sera seguente al loro ritorno, ed entrò in una varietà di ingegnose e dotte disquisizioni intorno al significato dell’iscrizione. Si rileva anche che un abile artista eseguì un disegno fedelissimo di quella curiosità archeologica. Il quale, trasportato su pietra, fu presentato alla Reale Società Archeologica e ad altre dotte corporazioni; — che delle ire e delle gelosie innumerevoli furono suscitate da vivaci controversie scritte e stampate, cui il grave argomento diede motivo; — e che lo stesso signor Pickwick diè fuori un opuscolo, contenente novantasei pagine di carattere sottilissimo, e ventisette interpretazioni diverse della medesima iscrizione; — che tre vecchi scienziati cancellarono dal testamento i loro primogeniti per avere osato porre in dubbio l’antichità del frammento; — e che un fanatico cancellò se stesso dal mondo, disperando di poter mai indovinare il senso di quei caratteri misteriosi; — che il signor Pickwick fu eletto membro onorario di diciassette Società nazionali e forestiere, in compenso della fatta scoperta; che nessuna delle diciassette venne a capo di decifrarne nulla, ma che tutte e diciassette convennero essere la cosa molto straordinaria.

Il signor Blotton veramente — il cui nome sarà certo fatto segno al disprezzo imperituro di tutti coloro che coltivano il misterioso e il sublime — il signor Blotton, diciamo, con quei dubbi e quei cavilli che son propri degli spiriti volgari, si fece lecito guardar la cosa da un punto di vista non meno degradante che ridevole. Il signor Blotton, animato dalla bassa voglia di appannare lo splendore del nome immortale di Pickwick, si recò di persona a Gobham, e tornando di là volle fare al Circolo un discorso, nel quale sardonicamente osservò che egli avea veduto l’uomo che avea venduto la pietra in questione; che l’uomo sosteneva esser quella pietra molto antica, ma solennemente negava l’antichità dell’iscrizione la quale diceva averla incisa da sè a tempo perduto per volere scrivere nè più nè meno che la sua propria firma, cioè Bill Stumps, cifra sua: e che il signor Stumps, poco abituato alla composizione originale e lasciandosi guidare più dal suono delle parole che dalle strette regole dell’ortografia, aveva omesso la finale del nome e scambiato l’U per V.

Il Circolo Pickwick, come da una così illuminata Istituzione si doveva attendere, accolse questa comunicazione col meritato disprezzo, espulse lo sciagurato e presuntuoso Blotton dal seno della Società, e votò al signor Pickwick un paio di occhiali d’oro in segno di fiducia e di approvazione; al qual dono rispose graziosamente il signor Pickwick facendosi fare il ritratto e sospendendolo nell’aula magna del Circolo: — ritratto, diciamolo di passata, ch’ei non volle togliere dal suo posto, quando si fu fatto più vecchio di qualche anno.

Il signor Blotton era abbattuto ma non vinto. Scrisse anche un libello diretto alle diciassette Società scientifiche contenente una ripetizione di quanto aveva già detto, e facendo intravedere la sua opinione che le diciassette Società scientifiche sullodate erano altrettante accozzaglie di ciarlatani. Al che, destatasi naturalmente la nobile indignazione delle diciassette Società scientifiche, parecchi nuovi opuscoli vennero alla luce; le dotte Società straniere si misero in corrispondenza con le dotte Società nazionali, le dotte Società nazionali voltarono in inglese gli opuscoli delle dotte Società straniere; le dotte Società straniere voltarono gli opuscoli delle Società nazionali in ogni sorta di lingue: e così cominciò quella famosa discussione scientifica conosciuta nel mondo sotto il nome di Controversia Pickwickiana.

Ma il basso tentativo di denigrare il signor Pickwick ricadde sul capo del calunniatore. Le diciassette Società scientifiche dichiararono all’unanimità che il presuntuoso Blotton non era che un mestatore; e si diedero subito e di nuovo a scrivere trattati sopra trattati. E fino al giorno d’oggi la pietra rimane sempre monumento indecifrabile della grandezza del signor Pickwick e trofeo imperituro della piccolezza dei suoi nemici.