Il Circolo Pickwick/Capitolo 10
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Vi sono a Londra parecchie vecchie locande, destinate un tempo ad essere quartier generale di famose diligenze, quando le diligenze compivano i loro viaggi con maggior gravità e solennità che non facciano adesso; ma oggi queste locande hanno degenerato e servono soltanto alle vetture campagnuole, che vi riparano e vi affittano i posti. Il lettore cercherebbe invano uno di questi antichi alberghi fra le Croci d’oro e le Bocche d’oro e i Tori d’oro che ergono le fronti maestose nelle strade della Londra nuova. Se vuol capitare in uno di quei stambugi di altri tempi, deve volgere i passi ai più oscuri quartieri della città; e là in qualche angolo remoto ne troverà parecchi, ritti ancora, con una specie di bieca ostinazione, fra le moderne innovazioni che gli stringono da tutti i lati.
Nel Borough, specialmente, rimangono in piedi una mezza dozzina di queste locande, che non hanno mutato di aspetto: e sono sfuggite nel tempo stesso alla rabbia delle rimodernazioni e alla rapacità della speculazione privata. Sono strani fabbricati, vasti, intricati, barocchi, con gallerie e corridoi e scale così ampie ed antiquate da fornir materia a cento storie di spiriti, posto che fossimo mai ridotti alla disgraziata necessità d’inventarne, e che il mondo divenisse così decrepito da esaurire le innumerevoli e veridiche leggende relative al vecchio Ponte di Londra e alle sue adiacenze dal lato di Surrey.
Appunto nel cortile di una di queste locande — che era nientemeno la locanda del Cervo Bianco — il giorno appresso agli eventi testè narrati e di buon mattino, un uomo era tutto intento a scrostare il fango da un paio di stivali. Portava una sottoveste a righe, con maniche nere di bambagina e bottoni di vetro celeste: calzoni di panno ed uosa; un fazzoletto scarlatto avvolto con molta negligenza intorno al collo e sul capo un vecchio cappello bianco ammaccato da una parte. Aveva davanti due file di stivali, una pulita e l’altra sporca, e ad ogni aggiunzione ch’ei faceva alla prima, sostava un momento dal lavoro e ne contemplava gli effetti con manifesta soddisfazione.
Il cortile non presentava alcun segno di quella rumorosa attività che è propria di quei grandi alberghi dove riparano le diligenze. Due o tre vetture caricate di una montagna di merci alta quanto il secondo piano di una casa se la dormivano sotto un’ampia tettoia che pigliava tutt’un lato del cortile; mentre un’altra, che dovea probabilmente incominciare quella mattina stessa il suo giro, stava allo scoperto. Una doppia fila di corsie con vecchie ringhiere occupava due lati dell’area, e una doppia fila corrispondente di campanelli, riparati da un piccolo tetto di lavagna, pendevano sulla porta che menava al caffè o al banco. Due o tre biroccini e calessi erano al coperto sotto varie tettoie; e le pedate pesanti di un cavallo di fatica, o il rumore di una catena in fondo al cortile, annunziavano a chi voleva saperlo che la stalla trovavasi appunto verso quella parte. Quando avremo aggiunto che alcuni ragazzi in giacca e camiciotto dormivano lunghi e distesi sopra balle di lana e valigie e altri articoli sparsi qua e là sopra monti di paglia, avremo descritto con quella maggiore precisione che si poteva l’aspetto generale del cortile della Locanda del Cervo Bianco, strada principale, Borough, nella mattina in questione.
Una lunga scampanellata fu seguita dall’apparizione di una svelta servotta in uno dei corridoi superiori, la quale dopo aver bussato ad una delle porte e ricevuto di dentro un ordine, chiamò forte spenzolandosi dalla ringhiera:
— Sam!
— Ohe! — rispose l’uomo dal cappello bianco.
— Gli stivali al numero ventidue.
— Domanda al tuo numero ventidue se li vuole adesso o se vuole aspettare che glieli porti.
— Via, Sam, non mi fate lo scimunito, — disse la ragazza vezzeggiandosi; — il signore ha bisogno subito dei suoi stivali.
— Brava lei! brava davvero! Dammene due soldi del tuo subito, — disse il lustrascarpe. — Guarda qui un po’ a questi stivali — undici paia di stivali ed una scarpa del numero sei con la gamba di legno. Gli undici gli ho da consegnare alle otto e mezzo e la scarpa alle nove. Chi è il numero ventidue che ha da scavalcare tutti gli altri? No, no, giro regolare, come diceva mastro Impicca quando ne impiccava una decina. Mi dispiace di farvi aspettare, caro signore, ma son da voi subito.
E così dicendo l’uomo dal cappello bianco si diè con maggiore attività a lustrare uno stivalone a tromba.
Si udì una seconda e più forte scampanellata; e la vecchia locandiera del Cervo Bianco apparve tutta affaccendata dalla ringhiera opposta.
— Sam! — gridò la locandiera, — dov’è quel fannullone, quel buonannulla... Sam, dico! Oh, eccolo lì! Perchè non rispondete?
— Non è creanza rispondere se prima non avete finito di parlare, — rimbeccò Sam di mala grazia.
— To’, lustrate subito queste scarpe pel numero diciassette, e portatele nel salottino particolare n. 5 primo piano.
E la locandiera tirò nel cortile un paio di stivaletti da donna, e si tolse di lì in gran fretta.
— N.° 5, — disse Sam, raccattando le scarpe; e cavato di tasca un pezzo di gesso ci fece sotto le suola un ricordo della loro destinazione. — Scarpe di signora e salottino particolare! scommetto che la non è mica venuta nel biroccino.
— È venuta stamani presto, — gridò la servotta che stava ancora appoggiata alla ringhiera, — con un signore in un carrozzino, ed è a lui che servono gli stivali, è meglio che vi sbrighiate, e questo è tutto, ecco.
— E perchè non dirmelo prima! — esclamò Sam indignato, pigliando gli stivali in questione da una delle due file. — Lo avevo pigliato per uno dei soliti stivali a tre pence. Salottino particolare! e una signora anche! Se gli ha un briciolo del signore, ci buscherò uno scellino al giorno, all’infuori delle commissioni.
Stimolato da questa riflessione consolante, il signor Samuele si diè a strofinare così cordialmente, che in pochi minuti stivali e scarpe, con una lucidezza che avrebbe fatto rodere dall’invidia l’amabile signor Warren (perchè al Cervo Bianco usavano il grasso lucido di Day e Martin), erano davanti alla porta del numero 5.
— Entrate, — disse una voce maschile in risposta alla discreta bussata di Sam.
Sam fece il migliore dei suoi inchini e si trovò in presenza di un signore e di una signora seduti a colazione. Avendo poi depositato, uno per piede gli stivali del signore, e gli stivaletti della signora allo stesso modo, si tirò indietro verso la porta.
— Giovinotto! — disse il signore.
— Signore! — rispose Sam richiudendo la porta e rimanendo con la mano sul saliscendi.
— Sapete.... come si chiama... Doctors’ Commons?
— Sissignore.
— Dov’è?
— Paul’s Church-yard, signore; un’arcata bassa, un libraio da una parte, dall’altra un albergo e due uomini nel mezzo che fanno i sensali di licenze.
— Sensali di licenze! — esclamò il signore.
— Sensali di licenze, — rispose Sam. — Due così, in grembiule bianco; si toccano il cappello quando entrate. "La licenza, signore volete una licenza?" Curiosi loro e i loro principali. Una specie di procuratori, capite; non c’è mica da sbagliare.
— E che fanno insomma? — domandò il signore.
— Che fanno! Ve la fanno, eh! E il bello non è questo, perchè poi vi ficcano in capo di quella roba che non sta nè in cielo nè in terra e che i poveri signori non ci hanno pensato nemmeno per sogno. Mio padre, signore, era cocchiere. Era vedovo, era, e tanto grasso, benedetto lui, ch’era buono a tutto; grasso da sbalordire. Gli muore la moglie e gli lascia quattrocento sterline. Si mette la via fra le gambe e giù ai Commons, per veder l’avvocato e pigliarsi il fatto suo. Un damerino, signore: stivali a tromba, mazzolino all’occhiello, cappello a staio, scialle verde, un vero signore. Passa l’arcata, pensando com’ha da impiegare il suo danaro. Gli viene avanti il sensale e si tocca il cappello. — Licenza, signore, licenza? — Che cosa? dice mio padre. — Licenza, signore, dice lui. — Che licenza? dice mio padre. — Licenza di matrimonio, dice lui. — Voglio crepare, dice mio padre, se ci ho mai pensato. — Credo che ve ne bisogni una, signore, dice lui. — Mio padre si ferma e pensa un tantino. — No, dice, son troppo vecchio, perbacco, e poi anche son troppo grasso. — Niente, niente, signore, dice il sensale. — Come niente? dice mio padre. — Niente, dice lui; Lunedì passato abbiamo maritato un signore ch’era due volte a voi. — Davvero, eh? dice mio padre. — Sicuro, dice il sensale, voi siete un bambino a petto a lui; di qua, signore, di qua! — E sissignore, ecco mio padre che gli va dietro, come uno scimiotto ammaestrato dietro all’organino, ed entrano in uno stanzino d’ufficio, dove c’era un coso seduto fra un monte di fogliacci sudici e scatole di stagno per dare ad intendere che avesse un gran da fare. — Prego, sedete, che vi fo intanto il certificato, dice l’avvocato. — Grazie, signore, dice mio padre, e si mise a sedere e guardò attorno a bocca aperta e con tanto d’occhi ai nomi scritti sulle scatole. — Come vi chiamate? dice l’avvocato. — Tony Weller, dice mio padre. — Parrocchia? dice l’avvocato. — Alla bella selvaggia, dice mio padre; perchè a quella locanda avea tirato, e non sapeva nulla di parrocchie. — E il nome della signora? dice l’avvocato. — Mio padre si sentì come una mazzata sul capo. — Magari lo sapessi, dice. — Non lo sapete! dice l’avvocato. — Ne so quanto voi, dice mio padre; non ce lo possiamo ficcar dopo, il nome? Impossibile! dice l’avvocato. — E va bene, dice mio padre, dopo averci pensato su un momento, mettete signora Clarke. — Clarke che cosa? dice l’avvocato con la penna nel calamaio. — Susanna Clarke, all’insegna del Marchese di Gramby, Dorking, dice mio padre; scommetto che la mi sposa, se la domando; non le ho mai detto nulla, ma mi piglia sicuro. — La licenza fu staccata, e lei se lo pigliò, e figuratevi che se lo tiene anche adesso; ed io, povero diavolo, delle quattrocento lire non ne ho mai visto nemmeno mezza. Scusate, signore, ma quando mi metto a parlare di questo affaraccio, corro corro come un biroccino nuovo con l’unto nelle ruote.
E ciò detto, Sam stette un momento per vedere se s’aveva più bisogno di lui, ed uscì dalla camera.
— Le nove e mezzo — questa è l’ora — andiamo, — disse il signore, che non abbiamo bisogno di presentare come signor Jingle.
— È l’ora.... per che cosa? — domandò la zia ragazza, facendo la vezzosa.
— La licenza, angelo adorato — avvertir la chiesa — chiamarvi mia domani, — disse il signor Jingle stringendole forte la mano.
— La licenza! — esclamò Rachele arrossendo.
— La licenza, sì, — ripetette il signor Jingle.
In fretta corro per la licenza
E più che in fretta ritornerò,
— Come correte! — disse Rachele.
— Correre, — meno d’una lumaca — le ore, i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, quando saremo uniti, quelli correranno — voleranno — freccia — elettrico — vapore — forza di mille cavalli.
— Non potremmo.... non potremmo sposare prima di domani mattina? — domandò Rachele.
— Impossibile — non può essere — bisogna avvertir la chiesa — lasciare oggi il permesso — domani la cerimonia.
— Ho tanta paura che mio fratello non ci abbia da scoprire!
— Scoprire — ohibò — troppo scosso dal capitombolo — d’altra parte — somma precauzione — lasciata la carrozza di posta — un tratto a piedi — preso un carrozzino — tirato al Borough — l’ultimo posto del mondo da venirci a cercare — ah, ah! bella idea — splendida — sicuro.
— Non vi trattenete a lungo, — disse teneramente la zia ragazza, mentre il signor Jingle si calcava in capo il cappello ammaccato.
— A lungo lontano da voi? Sirena crudele! — e il signor Jingle si accostò giocondamente a Rachele, le impresse un casto bacio sulle labbra e uscì leggiero e saltellante dalla camera.
— Che caro uomo! — disse Rachele, quando la porta gli si chiuse alle spalle.
— Che tipo di zitellona! — disse il signor Jingle, attraversando il corridoio.
Egli è troppo penoso riflettere sulla perfidia della nostra specie; epperò noi non seguiremo il filo delle meditazioni del signor Jingle, mentre ei si dirigeva ai Doctors’ Commons. Ci basterà dire che, sfuggendo alle insidie dei draghi in grembiuli bianchi che guardano l’ingresso di quella incantata regione, egli arrivò sano e salvo all’ufficio del vicario generale, e procacciatasi una graziosa epistola in pergamena dell’arcivescovo di Canterbury ai suoi "fedeli ed amati Alfredo Jingle e Rachele Wardle, salute e benedizione", si pose accuratamente in tasca, il mistico documento e se ne tornò trionfante al Borough.
Non era ancora arrivato al Cervo Bianco quando due signori grassi e uno magro entrarono nel cortile e guardarono attorno in cerca di qualche persona del luogo a cui rivolgere delle domande. Il signor Samuele Weller si trovava appunto occupato a lustrare un paio di stivali, proprietà personale di un fattore, che si stava ristorando con due o tre libbre di manzo rifreddo ed uno o due boccali di birra, dopo le fatiche del mercato; e fu proprio verso di lui che il signore magro si avanzò.
— Brav’uomo, — disse.
— Gli è uno di quelli che gli piacciono i consulti gratis, — pensò Sam, — se no non si sarebbe innamorato di me alla bella prima. — Ma disse solo: — Che c’è?
— Brav’uomo, — disse il signore magro con una tosserella conciliativa, — avete molti passeggieri? Molto da fare, non è così?
Sam sbirciò con la coda dell’occhio l’interrogatore. Era un ometto secco ed allampanato, dal viso bruno e spremuto e con due occhietti neri che luccicavano e ammiccavano dalle due parti del naso sottile e scrutatore, come se con questo membro della faccia giocassero continuamente a rimpiatterelli. Era tutto vestito di nero, con stivali lucidi come gli occhi, cravattina bianca, camicia pulita e gala allo sparato. Una catena d’oro con sigilli gli pendeva dal taschino. Portava in mano i suoi guanti neri; e mentre parlava, cacciava i polsi sotto lo falde del soprabito col fare di un uomo che è abituato a porre delle questioni legali.
— Molto da fare, non è così? — disse l’ometto.
— Eh, non c’è male, — rispose Sam, — non si fallisce e non si fa fortuna. Mangiamo la carne di montone senza capperi, e c’infischiamo delle radici quando si può aver un pezzo di manzo.
— Ah, — disse l’ometto, — siete un burlone, eh?
— Mio fratello più grande andava soggetto a questa malattia, — rispose Sam; — può anche essere attaccaticcia ed io e lui si dormiva insieme nello stesso letto.
— È una curiosa casa questa vostra, un po’ antiquata, — disse l’ometto guardando intorno.
— Se ci aveste avvisati con una parolina che venivate voi, l’avremmo un po’ restaurata, — rispose l’imperturbabile Sam.
L’ometto curioso sembrò alquanto smontato da queste risposte, ed una breve consultazione ebbe luogo fra lui e i due compagni grassi. Dopo di che, l’ometto prese un pizzico di tabacco da una sua scatola d’argento, e si disponeva a riappiccare la conversazione, quando uno dei suoi compagni, il quale oltre allo spirare benevolenza da tutta la persona, possedeva un par d’occhiali ed un paio di uosa nere, s’interpose:
— In sostanza, — disse, — il fatto è questo che il mio amico qui (additando l’altro signore grasso), vi darà mezza ghinea, se risponderete ad una o due...
— Prego, prego, caro signore, prego, — disse l’ometto, — permettete, caro signore, la prima regola da osservare in questi casi è questa: se affidate la cosa nelle mani di un uomo della professione, non dovete punto punto immischiarvi nella condotta di essa; dovete riporre in lui piena fiducia. Perdonate, signor... — e volgendosi all’altro signore grasso, disse: — Ho dimenticato il nome del vostro amico.
— Pickwick, — rispose il signor Wardle, poichè era proprio lui.
— Ah, Pickwick... sicuro.... perdonate, signor Pickwick, mio caro signore, io sarò lietissimo di ricevere da voi ogni sorta di consigli, come amicus curiae, ma mi dovete riconoscere la sconvenienza della vostra intrusione nel caso presente con un tale argomento ad captandum, come è l’offerta d’una mezza ghinea. Prego, signore, prego, — e l’ometto annasò una argomentativa presa di tabacco con un’aria molto grave e profonda.
— Io volevo soltanto, — disse il signor Pickwick — portare questo disgraziato affare ad una sollecita conclusione.
— Benissimo, benissimo, — disse l’ometto.
— Ed a tale intento, — continuò il signor Pickwick, — ho adoperato un argomento che la mia esperienza degli uomini mi ha insegnato essere in tutti i casi il più efficace.
— Già, già, — disse l’ometto, — ottimamente; ma avreste dovuto suggerirlo a me. Io son certo, mio caro signore, che voi non potete ignorare fino a che punto si debba aver fiducia in un uomo d’affari. Se mai una qualunque autorità è necessaria su questo punto, permettete, signore, che io vi richiami alla mente il ben noto caso di Barnwell, e....
— Lasciatemi in pace Giorgio Branwell, — interruppe Sam che se n’era stato tutto attonito ad ascoltare il breve colloquio, — tutti sanno che sorta di caso fu il suo, benchè il mio parere è stato sempre che la giovane se la meritava più di lui una buona strozzatina. Del resto, questo non leva e non mette. Voi mi volete fare accettare mezza ghinea. Benissimo, non dico di no; posso parlare meglio di così, signore? (Il signor Pickwick sorrise). Sicchè non si tratta che di sapere che diavolo volete da me, come disse l’uomo quando vide lo spirito.
— Vorremmo sapere.... — disse il signor Wardle.
— Prego, caro signore, prego, — interruppe l’ometto.
Il signor Wardle scrollò le spalle e ammutolì.
— Vorremmo sapere, — disse l’ometto solennemente, — e facciamo a voi la domanda per non destar dentro sospetti, vorremmo sapere chi ci avete in casa in questo momento.
— Chi ci abbiamo in casa! — esclamò Sam, pel quale i passeggieri erano sempre rappresentati da quello speciale articolo di vestiario che cadeva sotto la sua immediata giurisdizione. — Ci abbiamo una gamba di legno al numero sei, ci abbiamo un paio di prussiani al tredici, ci abbiamo due paia di scarpe nel quartiere negozianti, ci abbiamo questi stivali a tromba al pianterreno, e altri cinque come questi al caffè.
— Niente altro? — domandò l’ometto.
— Un momento! — esclamò Sam ricordandosi ad un tratto. — Sì; ci abbiamo un paio di Wellington più vecchi che nuovi ed un paio di stivaletti da signora, al numero cinque.
— Come sono questi stivaletti? — domandò subito Wardle; il quale, insieme col signor Pickwick, non si raccapezzava in udire quella strana enumerazione di passeggieri.
— Roba di provincia, — rispose Sam.
— C’è il nome del calzolaio?
— Brown.
— Di dove?
— Muggleton.
— Sono dessi! — gridò Wardle. — Per tutti i diavoli, gli abbiamo trovati.
— Piano! — fece Sam. — I due Wellington sono andati ai Doctors’ Commons.
— No, — disse l’ometto.
— Sì, per una licenza.
— Siamo in tempo; — esclamò Wardle. — Indicateci la camera; non c’è un minuto da perdere.
— Prego, caro signore, prego, — disse l’ometto; — prudenza, prudenza.
Poi, cavando di tasca una borsa di seta rossa, ne estrasse una ghinea e guardò fisso Sam.
Sam fece una smorfia piena di espressione.
— Introduceteci subito nella camera senza annunziarci, — disse l’ometto — e la moneta è vostra.
Sam gettò in un angolo gli stivali del fattore, e si avviò per un oscuro corridoio e su per una larga scala. In fondo ad un altro corridoio si fermò e stese una mano.
— Ecco, — bisbigliò l’avvocato, ponendogli in mano la moneta promessa.
Sam si avanzò di qualche passo, seguito dai due amici e dal loro consultore legale e si fermò davanti una porta.
— È questa la camera? — domandò piano l’avvocato.
Sam accennò di sì col capo.
Il vecchio Wardle diè una spinta all’uscio e tutti e tre entrarono nella camera, nel punto stesso che Jingle presentava l’ottenuta licenza alla zia ragazza.
La zia ragazza mandò uno strido, e gettandosi sopra una sedia, si nascose la faccia fra le mani. Il signor Jingle si cacciò subito la licenza in tasca, e gli ingrati visitatori si avanzarono nel mezzo della camera.
— Voi.... voi siete un bel furfante, eh? — gridò Wardle soffocato dall’ira.
— Prego, caro signore, — disse l’ometto, posando il cappello sulla tavola. — Prego, prego, riflettete. Scandalum magnatum, diffamazione, azione per danni e interessi. Calmatevi, mio caro signore, prego...
— Come avete ardito portar via mia sorella da casa mia? — domandò il vecchio.
— Bravo, così, — disse l’ometto, — questo potete domandarlo. Come avete ardito, signore? eh, signore?
— Chi diavolo siete voi? — domandò il signor Jingle in tono così fiero che l’ometto indietreggiò di uno o due passi.
— Chi è, canaglia che siete, chi è? — interruppe Wardle. — È il mio avvocato, il signor Perker. Perker, io lo voglio far processare, arrestare, io.... io.... lo rovinerò, per l’anima mia! E voi, — proseguì il signor Wardle volgendosi di botto alla sorella, — voi, Rachele, in un’età che dovreste essere ragionevole, che avete inteso di fare scappando con un vagabondo, disonorando la vostra famiglia, e rovinandovi voi stessa? Su, mettetevi il cappello, e venite via. Fate venire una vettura, a voi, subito, e portate il conto di questa signora, avete inteso? avete inteso?
— Subito, signore, — rispose Sam, il quale avea risposto alla violenta scampanellata di Wardle con una celerità, che sarebbe sembrata maravigliosa a chiunque non avesse saputo che, durante tutto il colloquio, egli era stato con l’occhio al buco della toppa.
— Mettetevi il cappello, — ripetette Wardle.
— Non vi movete, — disse Jingle. — E voi, signore, uscite — niente da fare qui — la signora è libera di fare quel che le aggrada — più di ventun anno.
— Più di ventuno! — esclamò Wardle con disprezzo. Dite più di quarantuno!
— Non è vero, — gridò la zia ragazza, nella quale l’indignazione la vinceva sul proposito di venir meno.
— Sì ch’è vero, — rispose Wardle, — ne avete cinquanta tra poco.
Qui Rachele gettò un grido e perdette i sensi.
— Un bicchier d’acqua, — ordinò alla locandiera il sensibile signor Pickwick.
— Ma che bicchiere! — gridò il furibondo Wardle. — Portatene una tinozza e versategliela addosso; le farà del bene e se lo merita davvero.
— Uh, che bruto! — esclamò la buona locandiera. E poi con tante esclamazioni ed esortazioni, come: "Povera piccina! — via via, non è nulla — bevetene un sorso — farà bene — non vi buttate giù a questo modo — amore mio! ecc." la locandiera, assistita da una sua donna, si diè a bagnar le tempie della zia ragazza con l’aceto, a batterle nelle mani, a titillarle il naso, a slacciarle il busto, a somministrarle tutti quei ristori che le femmine compassionevoli sogliono applicare a quelle signore che si sforzano di farsi pigliare dagli attacchi nervosi.
— La carrozza è pronta, signore, — disse Sam comparendo sotto la porta.
— Andiamo, su! — esclamò Wardle; — la porterò da me per le scale.
A questa proposizione gli isterismi raddoppiarono di intensità.
La locandiera stava per protestare violentemente contro questo modo di procedere, e avea già domandato con grande indignazione se mai il signor Wardle si credesse di essere il re della creazione, quando il signor Jingle entrò di mezzo, volgendosi a Sam.
— A voi, — disse, — chiamatemi un ufficiale di polizia.
— Un momento, un momento, — disse il piccolo Perker. — Riflettete, signore, riflettete prima.
— Niente riflessioni, — rispose Jingle, — ella è padrona di se stessa — voglio vedere chi osa portarla via. — contro la sua volontà.
— Non voglio che mi si porti via, — mormorò Rachele, — non voglio! (E qui un altro accesso terribile).
— Mio caro signore, — disse a bassa voce l’ometto, traendo in disparte il signor Wardle e il signor Pickwick; — mio caro signore, la nostra posizione è critica assai. Il caso è deplorevole; non lo nego, è deplorevolissimo. Ma davvero, mio caro signore, davvero noi non abbiamo facoltà di regolare le azioni della signora. Ve l’ho avvertito prima, mio caro signore, che non c’era altro da fare che venire ad una transazione.
Vi fu una breve pausa.
— Che specie di transazione intendereste voi? — domandò il signor Pickwick.
— Ma, dico, mio caro signore, il nostro amico qui si trova in una posizione dispiacevole, molto dispiacevole. Ci dobbiamo contentare di soffrire una piccola perdita pecuniaria.
— Qualunque perdita, — disse Wardle, — anzi che sopportare questa vergogna e che lei, per matta che sia, si renda infelice per tutta la vita.
— Credo che la cosa si possa aggiustare, — riprese l’ometto. — Signor Jingle, volete un momento venir con noi nella camera appresso?
Il signor Jingle consentì, e il quartetto passò nell’altra camera ch’era vuota.
— Adesso, signore, — disse l’ometto chiudendo bene la porta, — non ci sarebbe modo di aggiustare questa faccenda?... venite un momentino di qua, prego.... vicino a questa finestra dove si può star soli.... così, signore, così, prego, prego, sedete. Dunque, mio caro signore, tra noi due, noi sappiamo benissimo, mio caro signore, che voi siete scappato con questa signora per amore dei suoi quattrini. Prego, prego, non vi accigliate; dico, tra noi, a quattr’occhi, questo lo sappiamo. Siamo tutti e due uomini di mondo, e sappiamo egregiamente che i nostri due amici qui.... non lo sono, eh?
Il viso del signor Jingle s’andò via via rischiarando; e parve anzi, per un leggiero tremolio della palpebra, che il suo occhio sinistro ammiccasse.
— Benissimo, benissimo, — proseguì l’ometto, osservando l’impressione prodotta. — Ora il fatto è che, meno qualche centinaio, la signora ha poco o niente fino a morte della madre.... una bella vecchia, mio caro signore.
— Vecchia, — disse il signor Jingle, laconicamente ma con enfasi.
— Sicuro, non dico di no, — rispose l’avvocato con un po’ di tosse. — Avete ragione, mio caro signore, è piuttosto vecchia. Viene però da una vecchia famiglia, mio caro signore; vecchia in tutti i sensi della parola. Il fondatore di questa famiglia venne a Kent, quando Giulio Cesare invase la Brettagna; un solo membro della famiglia, da quell’epoca, non ha toccato gli ottantacinque anni, perchè fu decapitato da un Enrico. La vecchia signora non ha ancora settantatre anni, mio caro signore.
L’ometto tacque ed annasò una presa di tabacco.
— Ebbene? — fece il signor Jingle.
— Ebbene, mio caro signore.... non prendete tabacco? ah! tanto meglio.... abitudine dispendiosa.... ebbene, mio caro signore, voi siete un bel giovane, uomo di mondo, capace di spingervi, avendo alle mani un capitale, eh?
— Ebbene? — ripetette il signor Jingle.
— Mi capite?
— Non perfettamente.
— Non vi pare.... badate, caro signore, è un’ipotesi che fo io.... non vi pare che cinquanta sterline e la libertà sarebbero assai meglio che la signorina Wardle e l’aspettativa?
— Poco, meno della metà! — disse il signor Jingle alzandosi.
— Prego, caro signore, prego, — riprese il piccolo avvocato trattenendolo per un bottone. — Una cifra rotonda; un uomo della vostra fatta la triplica in meno di niente; si può fare un monte di cose con cinquanta sterline, mio caro signore.
— Se ne fanno di più con centocinquanta, — rispose freddamente il signor Jingle.
— Ebbene, mio caro signore, non perdiamo tempo per un’inezia; siano.... siano settanta.
— Poco, — disse il signor Jingle.
— Non andate via, mio caro signore, prego, prego, senza, fretta. Ottanta, via; vi scrivo subito un ordine.
— Poco, — disse il signor Jingle.
— Ebbene, mio caro signore, ebbene, — disse l’ometto trattenendolo sempre, — ditemi voi a un dipresso la vostra idea.
— Affare dispendioso, — disse il signor Jingle. — Danaro sborsato — posta, nove sterline; licenza, tre — e fa dodici — compenso, cento — e fa cento e dodici — onore offeso e perdita della signora.
— Sta bene, sta bene, mio caro signore, — disse l’ometto con un’occhiata d’intelligenza, — Lasciamoli lì i due ultimi articoli. Sono dunque centododici.... facciamo cento, via.
— Venti, — disse Jingle.
— Via, via, vi scrivo subito l’ordine a vista, — disse l’ometto, sedendosi al tavolino.
— Lo farò pagabile per doman l’altro, — disse l’ometto, con un’occhiata al signor Wardle; — e intanto abbiamo il tempo di portar via la signora.
Il signor Wardle consentì con un cenno del capo.
— Cento, — disse l’ometto.
— Venti, — disse il signor Jingle.
— Mio caro signore....
— Dategliele e facciamola finita, — interruppe Wardle.
L’ordine fu scritto e il signor Jingle lo intascò.
— Ed ora, disse Wardle alzandosi di scatto, — uscite da questa casa subito, all’istante!
— Mio caro signore....
— E badate, che nulla m’avrebbe indotto a questa transazione, nemmeno un riguardo per la mia famiglia, se non fossi persuaso che avendo un po’ di spiccioli in cotesta vostra tasca andrete più speditamente al diavolo.
— Prego, caro signore, prego!
— Chetatevi, Perker. E voi, signore, uscite!
— Subito per servirvi, — disse Jingle sfrontatamente. — Addio, Pickwick, tante cose!
Se un qualunque spassionato spettatore avesse potuto vedere l’aspetto dell’uomo illustre durante l’ultima parte di questa conversazione, sarebbe quasi stato indotto a meravigliarsi che quegli occhi roventi di sdegno non gli avessero liquefatte le lenti degli occhiali, — tanto era maestosa l’ira sua. Dilatò le narici e strinse involontariamente i pugni, udendosi da quel furfante chiamare con tanta dimestichezza. Ma anche questa volta si contenne, e non lo polverizzò.
— To’! — riprese lo sciagurato gettando la licenza ai piedi del signor Pickwick; — mutate il nome — portate a casa la signora — buona per Tuppy.
Il signor Pickwick era filosofo, ma i filosofi non sono poi che degli uomini corazzati. Lo strale lo avea colto, gli era penetrato attraverso la corazza fino in fondo al cuore. Nell’impeto dell’ira, egli tirò alla cieca il calamaio che aveva davanti, e lo seguì con la propria persona. Ma il signor Jingle era scomparso ed ei si trovò preso fra le braccia di Sam.
— Ohe! — gridò questo ameno individuo; — la mobilia è a buon prezzo al vostro paese. Questo è inchiostro che scrive da solo, questo qui, e ha già scritto sul muro il vostro nome. Lasciate andare; a che serve correre dietro una persona che a quest’ora è arrivata all’altra punta del Borough?
La mente del signor Pickwick, come quella di tutti gli uomini veramente grandi, era aperta alla persuasione. Egli era un pronto e potente ragionatore; sicchè un solo istante di riflessione bastò a convincerlo dell’inutilità del suo sdegno. Si calmò di botto, a quel modo stesso che s’era acceso, e tutto affannoso girò una benevola occhiata sui suoi amici.
Dovremo ora narrare le lamentazioni della signorina Wardle quando si vide abbandonata dall’infedele Jingle? dovremo dare un estratto della stupenda descrizione fatta dal signor Pickwick di quella scena straziante? Il suo libro di appunti, sul quale si scorgono ancora le lagrime strappategli dalla tenera pietà, ci sta aperto davanti; una parola, e noi lo passiamo subito nelle mani del tipografo. Ma no! noi siamo fermi contra la tentazione! noi non lacereremo il cuore del pubblico con l’esposizione di tanti dolori!
Il giorno appresso, lentamente e tristamente, i due amici e la signora abbandonata se ne tornarono nella pesante vettura di Muggleton. E le ombre malinconiche di una sera d’estate erano calate sulla terra, quando essi toccarono di nuovo Dingley Dell e si trovarono davanti alla casa.