Le novelle della nonna/Il Cero umano
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- Il Cero umano
L’assenza della Regina da Farneta era durata due mesi interi. Il professor Luigi e la signora Maria erano già partiti quand’ella tornò in famiglia; il vino del podere e quello fatto con le uve comprate da Carlo Buoni, avevano già bollito prima che la signora Durini permettesse alla buona vecchia di scender da Camaldoli. La Regina aveva saputo rendersi così utile alla signora, insegnandole a trar partito da tante cose, le aveva messo così bene in ordine la biancheria, da farle desiderare di tenersela sempre vicina. Ed anche la Regina s’era trovata contenta dell’accoglienza avuta, e contentissima poi di aver conosciuto bene Carlo e di averlo veduto così affezionato all’Annina e così serio per la sua età. Il giovane, prima che ella partisse, l’aveva pregata di un favore: egli desiderava che la conclusione del matrimonio fosse affrettata e che le nozze si celebrassero a carnevale. Non osava dirlo a Maso, che pur vedeva di continuo, perché temeva di sentirsi dar dell’impaziente; ma più conosceva l’Annina e più bramava di farla presto sua, e condurla a Firenze in una casetta, che le avrebbe preparata. La Regina tornò dunque a Farneta con una missione abbastanza grave, che non avrebbe accettata se non si fosse trattato di appagare un desiderio di Carlo. Conosceva il figliuolo, e sapeva che ritornava mal volentieri sopra una risoluzione presa; ma Carlo l’aveva pregata con tanta dolce insistenza, chiamandola «nonna cara», che ella non aveva saputo negargli la promessa di fare un tentativo con Maso. La Regina era tornata una domenica mattina d’ottobre, e potete figurarvi se Gigino e gli altri nipoti le avessero fatto festa. Ella se li era baciati, come se non li avesse veduti da anni, e aveva detto loro che nella cesta ci aveva tanti regalini. Questo annunzio, naturalmente, aveva fatto attaccare tutti i nipotini alla sottana della nonna, e siccome il vetturino che aveva accompagnata Regina aveva posato la cesta in cucina, essi guardavano ora la Regina, ora quella cesta misteriosa, che celava tante sorprese. La Regina, un po’ stanca, un po’ infreddolita, s’era posta nel canto del fuoco, e la Carola, intanto che le rivolgeva tante domande sull’Annina, le preparava il caffè per riscaldarla. Allorché la buona vecchia si fu alquanto riavuta, leggendo in viso ai bimbi l’impazienza, aprì la famosa cesta, e a chi dette cioccolatini inviati dalla moglie dell’ispettore, a chi balocchi, a chi oggetti di vestiario. La signora non aveva dimenticato nessuno, e Gigino aveva avuto tutto ciò che occorre per fare il giardiniere, cioè un minuscolo annaffiatoio, pala, vanga, rastrello, e con tutta quella roba fra le braccia corse nell’orto a lavorare. Allorché le donne di casa ebbero saputo per filo e per segno quello che faceva l’Annina, i regali che aveva ricevuto da Carlo e dal futuro suocero, informarono la vecchia delle faccende della famiglia. Il vino, fatto da Maso per conto di Carlo, era riuscito una meraviglia, e speravano di venderlo a un prezzo molto elevato. Questa notizia consolò la buona vecchia, e nel dopopranzo di quel lieto giorno, seduta sotto la cappa del camino, narrò ai figli e ai nipotini una bella novella.
- C’era una volta, - ella disse, - in questo nostro bel Casentino, un uomo perverso, di nome Bardo. Si diceva che avesse fatto morir di crepacuore la moglie, e invece di pensare ai due figli, che la poveretta gli aveva lasciati, li mandava a chieder l’elemosina in campagna. Questi bimbi movevano a compassione tutti, tanto erano laceri e scarni, e non vi era massaia che negasse loro di scaldarsi intorno al fuoco e che non avesse un po’ di minestra o un pezzo di pane per sfamarli. Una donna, specialmente, una certa Fortunata, persona assai ricca e anziana, li aveva presi a benvolere, vedendoli così disgraziati, e ogni tanto dava loro uno scialle vecchio o un mantello usato per coprirsi; e i due bimbi, non sapendo come ricompensarla della sua bontà, le recavano funghi e lamponi che coglievano nei boschi. La sera, quando Nando e la Lisa tornavano alla capanna isolata del babbo, questi voleva sapere per filo e per segno dov’erano stati e come avevano trovato da mangiare. Così venne a conoscere che la Fortunata li proteggeva, e una mattina, prima che i figliuoli uscissero, disse loro: - Stasera non tornate; fatevi mettere a dormire dalla Fortunata in cucina; caso mai io venissi a passar di lì, busserò; allora apritemi e torneremo a casa insieme. Badiamo veh! siate muti; non voglio ciarle! Questa raccomandazione era inutile, perché i due bimbi, avviliti dalla miseria, non aprivano mai bocca. Essi girarono tutto il giorno, e, venuta la sera, capitarono sull’aia della Fortunata mentr’ella mandava a dormir le galline. - Piccini, buona sera, - disse la buona donna vedendoli. - Vi ho serbato una bella fetta di pattona per uno; entrate e pigliatevela; è nella madia. I bimbi entrarono in cucina e ritornarono fuori con la pattona in mano, senza però accostarsela alla bocca. - Che avete oggi? non vi tormenta la fame, bimbi? buon segno! chi non mangia ha ben mangiato. - Fortunata, - disse la Lisa, che era la maggiore, senza alzar gli occhi, - ci potreste dar da dormire stanotte? Mentre la piccina rivolgeva questa domanda alla loro benefattrice, sentiva un tremito in tutta la persona, una smania, quasi un rimorso; e Nando, intanto, la tirava per la sottana per indurla a stare zitta. La risposta della Fortunata non si fece aspettare. - Volentieri, bambini, se vi adattate a stare in cucina. Stasera appunto non tornano né il capoccia né i figliuoli grandi, perché sono andati alla fiera a Dicomano, e io dovrei dormire sola con i piccini. Ma perché avete bisogno di chiedermi da dormire? Che forse quel malanno di Bardo vi ha cacciati di casa? I bimbi chinarono la testa; non volevano dire una bugia e neppure volevano disubbidire al babbo, che aveva imposto loro di tacere. La Fortunata interpretò il loro silenzio come una conferma delle proprie supposizioni, e disse fra i denti: - Che padre, guarda lì! Non ha altro che due bimbi e li caccia come cani! Intanto la Lisa si offriva di aiutare la massaia nelle faccende, e Nando la pregava di comandargli qualche cosa. - Vedo che vi volete guadagnare l’alloggio, - disse la Fortunata. - Ebbene, Nando, tira su l’acqua dal pozzo ed empimi il trogolo dei maiali; e tu, Lisa, va’ a fare un po’ d’erba per le bestie. I bimbi andarono volenterosi ad accudire alle faccende, e la massaia preparò da cena. Intanto diceva fra sé: - Almeno per una sera queste creature anderanno a letto con un po’ di cena ammodo sullo stomaco. Poveri piccini! Se non avessi cinque figli, glieli leverei io a quel birbante, che non si sa come campi e non vuole intender di lavorare. E la buona donna, invece di far quella sera la minestra soltanto, staccò alcuni rocchi di salsicce, sbatté una dozzina d’uova, e quando i bimbi tornarono, trovarono la zuppa calda e una bella frittata con le salsicce. La Fortunata li fece sedere a tavola insieme con i figli, e dopo avere sparecchiato tirò il paletto; ma prima di salire in camera disse ai suoi piccoli ospiti: - Adesso sdraiatevi sulle panche accanto al fuoco e dormite in pace. Ma Nando e Lisa non poterono prender sonno. - Senti, - diceva la bambina al fratello, - perché mai il babbo ci ha mandati qui stanotte? - E perché ci ha detto di aprirgli, se bussa? - domandava l’altro. - Io ho paura. - Di che hai paura? - chiedeva la Lisa turbata sempre più, sentendo che anche il fratello divideva i suoi timori. - Che voglia fare un tiro e che, una volta in casa... - Noi non dobbiamo aiutarlo a fare del male alla Fortunata, che è tanto buona con noi. - No davvero; non gli apriremo, - disse risolutamente il bambino. Presa che essi ebbero questa risoluzione, invece di star coricati sulle panche si sederono uno accanto all’altra, tenendosi stretti per farsi reciprocamente coraggio, e attesero. A ogni lieve rumore che udivano, facevano uno scossone; ma alla lunga la stanchezza li vinse e si addormentarono. Verso la mezzanotte, Bardo, insieme con due figuri suoi amici, si accostò alla porta della casa di Fortunata. Prima di bussare però chiese sottovoce a uno dei compagni: - Li hai proprio veduti qui, stasera, i miei figliuoli? - Altro! - rispose l’interrogato. - Prima li ho visti a cena, e poi ero qui accanto, nascosto, quando la massaia ha messo il chiavistello all’uscio. - Il capoccia e i suoi figliuoli maggiori li ho veduti io sulla via di Dicomano, dunque si può fare liberamente il tiro, - aggiunse Bardo. - In casa ci sono i quattrini che la Fortunata ha riscossi ieri dall’eredità dello zio prete, e noi, quando saremo entrati, ce li faremo dare con le buone o con le cattive. Dopo aver detto questo, si accostò all’uscio, e bussò leggermente con le nocche; nessuna risposta. - Si saranno addormentati quei due fannulloni! - disse. E bussò di nuovo. - Ora mi faccio sentire! - esclamò. E accostando la bocca al buco della chiave, si mise a chiamare: - Nando!... Lisa!... Nessuna risposta. - Ah! non vogliono aprire? - disse. - Ora apriranno! E accostate alcune fascine e della paglia alla porta, batté l’acciarino e appiccò il fuoco. La paglia si accese, le fascine crepitarono e ad un tratto si alzò un gran chiarore; ma la casa rimaneva chiusa, silenziosa, come se dentro non vi fosse nessuno. Intanto le fiamme salivano fino al tetto, strisciavano sulle imposte delle finestre, che ardevano pure, e circondavano la casa da ogni lato. I due compagni di Bardo fuggivano spaventati, ma egli, invece, alimentava l’incendio con nuove fascine, preso da una furia bestiale di distruzione. Se non poteva impossessarsi dei quattrini ai quali aveva già fatto la bocca, e che dovevano servirgli a fuggire da quel luogo, dove si presentavano poche occasioni di fare un buon tiro, dove era inviso a tutti e segnato a dito come un malfattore, quei quattrini non doveva goderli nessuno. E sempre metteva fascine, bracciate di paglia, e l’incendio cresceva. A un tratto sentì spalancare una imposta al primo ed ultimo piano, e vide la Fortunata affacciarsi chiedendo aiuto. Bardo, in quel momento, ebbe paura e fuggì, ma le fiamme pareva che lo perseguitassero; gli s’erano attaccate al vestito, l’avvolgevano tutto ed egli soffriva atroci spasimi. Le grida della Fortunata furono udite da alcuni coloni vicini. Essi, nonostante che la casa fosse avvolta dalle fiamme, appoggiarono scale alla finestra e la discesero insieme ai suoi bimbi. Allorché ella fu in salvo, si rammentò che giù in cucina c’erano Nando e la Lisa, e tanto pregò, tanto supplicò i suoi salvatori, che questi, abbattuta facilmente la porta, penetrarono nella cucina. I due piccini parevano addormentati ancora, stretti l’uno all’altra. Con grande fatica i contadini li portarono fuori, ma per quanto cercassero di rianimarli non vi riuscirono. Intanto la casa era caduta con gran fracasso e la povera Fortunata, piangente in mezzo ai suoi piccini, guardava ora i due piccoli cadaveri, ora le macerie fumanti, come inebetita dal dolore. Ma torniamo a Bardo. Egli fuggiva come il vento e, giunto all’Arno, vi si gettò, credendo di spegnere le fiamme che lo circondavano; ma, invece, anche nell’acqua ardeva sempre e soffriva atroci spasimi. Cercò di trascinarsi sulla riva e costì rimase, come piantato in terra. A poco a poco perdé ogni effigie umana, le sue carni si disfecero come cera e le fiamme, che avevano ridotto il suo corpo come un lungo e grosso cero, si spensero; ma sul suo capo continuò ad ardere una fiammella che gli dava dolori atroci, come se gli consumasse l’ultimo resto di vita. Allora corse all’infuriata, senza accorgersi che tornava verso la casa cui aveva appiccato il fuoco. Ma allorché fu a poca distanza, vide l’aia abbandonata, le macerie fumanti, e i cadaveri dei suoi bimbi, stretti l’uno all’altro. In quel momento Bardo capì il suo misfatto e soffrì più per il rimorso che per le bruciature delle carni. Egli sentì che il suo corpo, ridotto come un cero di carne fumante, prendeva radici nel suolo. Volle di nuovo fuggire da quel luogo, ma non poté, e dopo poco, i pietosi contadini, preceduti dal prete e dalla bara, andando a prendere i cadaveri di Nando e di Lisa, lo videro piantato in terra, ardente nella sommità e gocciolante lacrime di cera, che erano le lacrime della sua anima desolata. Il sacerdote e i pii uomini che lo seguivano, si accòrsero che quel cero umano era il corpo di Bardo e non tardarono a capire che egli era l’autore dell’incendio. Nonostante ebbero pietà dei suoi patimenti; il prete lo asperse di acqua santa e i contadini pregarono affinché fosse liberato da quel supplizio atroce. Ma Bardo rimase piantato in terra. Durante la notte egli mandava una fiamma viva e continui lamenti, e durante il giorno una luce assai più mite e copiose lacrime. La Fortunata e il marito non ebbero coraggio di riedificare la casa. Dopo avere tolte le macerie e ricuperati i denari che vi erano rimasti sotterrati, essi si costruirono, lontano da quel luogo, un’altra casa, e lì eressero una cappella, detta del Perdono, alla quale affluiva la gente da ogni parte del Casentino per pregare riposo a Bardo ed anche per vedere quel prodigio di cero umano. Ma le preghiere di tutta quella gente non ottenevano nulla; Bardo continuava a patire l’atroce supplizio. Allora un giorno, fra tanta folla di gente, comparve una donna pallidissima e scarna, con i capelli scendenti sulle spalle, i piedi scalzi e una pesante croce di legno sulle spalle. Ella, invece di andare alla cappella del Perdono, s’inginocchiò dinanzi al cero ardente, e, piantata in terra la croce, si mise a pregare e vi rimase tutta la notte. La folla, allorché fu sopraggiunta la sera, si allontanò da quel luogo; peraltro, alcune persone, fra le più curiose, vi rimasero, e a un certo punto videro scendere dal Cielo due angioletti, i quali si posero ai fianchi della donna pregante e unirono le loro orazioni a quelle di lei. Alcuni fra i presenti pretesero di riconoscere in quei due angioletti i figli di Bardo, morti nella casa incendiata. Però, prima che l’alba imbiancasse la campagna, gli angioletti erano rivolati in Cielo, lasciando la donna, la quale, senza alzarsi mai, continuava a pregare. La gente, commossa, le portava cibo e acqua per ristorarsi; ma ella, con un gesto umile della mano, ricusava tutto, e rimaneva inginocchiata senza voler rompere il digiuno che pareva si fosse imposta, senza toglier neppur un istante lo sguardo di sul cero ardente. L’unico sollievo che costei si concedesse, consisteva nell’aprir la bocca ogni tanto durante la notte e all’alba per ricevere la carezza del vento fresco. A forza di pregare, la sua voce si era fatta rauca, e dopo tre giorni non le usciva dalla gola altro che un suono inarticolato. La folla non si moveva più dalla cappella del Perdono, per vedere la donna e accertarsi che non mangiava né dormiva mai, e per attendere la discesa degli angioli dal Cielo. La quarta notte, i due angioletti, invece di collocarsi accanto alla donna genuflessa, andarono ai fianchi del cero umano e con le loro manine rosee lo afferrarono là dove stava conficcato nella terra e da quella lo divelsero. Il cero gemé più forte del solito, ma essi, senza badare a quei gemiti, lo portarono, volando per l’aria, su alla cappella degli angioli della Verna, collocandolo dinanzi all’altare. Intanto la donna s’era alzata e, caricandosi sulle spalle la pesante croce, si avviava su per l’aspro monte, inciampando ogni momento e rialzandosi con fatica. Quando ella fu giunta alla Verna, stramazzò e cadde senza potersi rialzare. I frati, vedendo gli angioli, il cero umano e quella donna caduta sotto la croce, immaginarono che stesse per compiersi un miracolo e mossero in processione verso la chiesina. Ma gli angioli erano già volati via e il cero rimaneva dritto, senza alcun sostegno, dinanzi all’altare. Allora la donna fu sollevata di sotto la croce, ed ella fece cenno che desiderava di esser portata dinanzi all’altare insieme con la croce. I frati si misero a pregare, ed ella, non potendo più articolare nessuna parola, pregava con lo sguardo supplice, rivolto sull’immagine di san Francesco, dipinta sull’altare, e su quella della Madonna. A un tratto si vide il Santo muovere le labbra e si udì una voce dolcissima domandare: - Bardo, sei pentito? - San Francesco beato, - rispose il cero spargendo lacrime abbondanti, - è tanto il mio pentimento che ringrazio il Signore del supplizio che mi ha imposto, e lo supplico di prolungarlo, se questo può lavarmi dall’orribile peccato. Il Santo sorrise di beatitudine e allora la donna, che pareva morta, si riebbe e, alzatasi, si avvicinò al cero e lo abbracciò. In quel momento si aprì la vôlta della chiesina e scesero da quella i due angioli, i quali, con le loro manine, unsero di un balsamo celeste tutto il cero. La fiammella si spense e Bardo riprese effigie umana. Quindi gli angioli, cantando, sollevarono sotto le ascelle la povera donna e insieme con essa volarono al Cielo. Nel medesimo tempo la vôlta della chiesina si richiudeva, e san Francesco faceva udire di nuovo la sua dolce voce: - Bardo, tu sei perdonato. Le preghiere dei tuoi figli, convertiti in angioli di Dio, e le suppliche di tua moglie, la quale, per salvarti, aveva rinunziato alla gloria del Cielo, hanno operato il miracolo. Ora ritorna fra gli uomini e cerca, col buon esempio, di cancellare la memoria del tuo peccato. Bardo si alzò e uscì dal convento. Egli, invece di fuggire i luoghi ove era conosciuto, andò per primo alla casa della Fortunata. La buona donna, nel vederlo, si mise a gridare dalla paura; il marito prese un forcone per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma Bardo non si mosse e disse: - Colpitemi, uccidetemi pure, io non temo né i patimenti né la morte. Vi ho fatto un gran danno e voglio cercare di rimediarlo. Lavorerò per voi come un cane e non avrete servo più devoto di me. E da quel giorno lavorò i campi del capoccia, fece l’erba per le bestie, badò che nessuno gli rubasse l’uva e non chiese mai nulla, cibandosi di radici e d’erbe. Il capoccia avrebbe voluto mandarlo via con la forza, ma la Fortunata, impietosita da quel pentimento, lo lasciava lavorare e gli avrebbe dato qualcosa di meglio da mangiare e un ricovero per la notte. Bardo, però, ricusava il cibo come ricusava l’alloggio, e passava le nottate sulla nuda terra, sotto la vôlta del cielo. Per anni e anni egli servì così la famiglia della Fortunata. Dopo un certo tempo, anche il capoccia si abituò a lui e cessò dal vilipenderlo e dal maltrattarlo, accettando l’opera di Bardo con piacere, vedendo che l’infelice, profondamente pentito, vegliava di continuo sulla casa sua e sui suoi. Un giorno, la figlia minore della Fortunata e del capoccia era andata a guardare le pecore sul monte. Bardo, che non aveva nulla da fare, la seguì. Dopo aver lungamente camminato per trovare una piaggia erbosa, perché l’autunno era inoltrato, la ragazzina si fermò sopra un ripiano, a fianco di una selva di abeti, e, sedutasi sopra un sasso, lasciò le pecore pascere a loro piacere. Bardo s’era posto dietro un masso e intrecciava un canestro di vimini, senza perder d’occhio la ragazzina, la quale, stanca per la lunga corsa, reclinò il capo sul petto e si addormentò profondamente. Di lì a poco, un lupo sbucò fuori dal bosco, seguìto da una lupa. Ristette un momento, poi, assalito alle spalle il cane della pastorella, gli ficcò i denti nella carne, mentre la lupa si avvicinava alla ragazzina dormente. Le pecore s’erano date a fuga precipitosa vedendo i loro nemici. Bardo, veloce come il lampo, uscì dal suo nascondiglio e, afferrato un sasso, lo lanciò contro la lupa famelica senza colpirla. Quindi, vedendo che essa stava per azzannare la mano della ragazzina, fece un lancio e si mise fra la dormente e la belva. Questa, infuriata, gli saltò addosso sbranandogli le carni. Il poveretto, non curante del dolore, urlava: - Salvati! Salvati! La ragazzina si destò e, sentendo l’avvertimento, diedesi a fuga precipitosa. Appena vide un albero vi si arrampicò sopra come uno scoiattolo. Bardo, che era rimasto alle prese con la lupa, mentre il cane lottava col lupo, cessò di difendersi appena vide in salvo la figlia della Fortunata e fu orribilmente sbranato. Le due belve, allorché furono sazie, tornarono nel bosco, e la ragazzina, vedendo passato il pericolo, scese dall’albero, riunì le sue pecore e tornò a casa tremante e spaventata, narrando il tragico fatto. La Fortunata, che aveva perdonato da un pezzo a Bardo, non volle che il corpo di lui rimanesse insepolto, e tanto disse e tanto fece che indusse il marito e alcuni altri uomini ad andarlo a prendere, insieme con un prete. Il cadavere, orribilmente mutilato, fu portato al camposanto, e gli venne data onorevole sepoltura. Quello che sia avvenuto di Bardo nel mondo di là, non lo so davvero; so che in casa della Fortunata nessuno malediva la sua memoria, anzi, parlavano di lui con riconoscenza, e la buona donna non sapeva darsi pace che egli fosse morto per salvare la figlia di lei. Ogni giorno la buona famiglia di contadini recitava preci per il riposo dell’anima di Bardo, e la ragazzina specialmente gli serbava un grato ricordo di lui.
- Ora la novella è finita, - disse la Regina, - e presto non potrò più raccontarvene. - Perché, nonna? - domandarono i bimbi. - Perché tutte quelle che sapevo le ho già dette, meno una, la più bella, che vi narrerò domenica prossima. Io non sarei capace di cavarmele dal cervello. Tutte quelle che ora ho raccontate, mi erano state dette più di una volta, e perciò le sapevo quasi a mente; ma ora non ne so più e non saprei inventarne altre. Dunque, per l’inverno prossimo, per le lunghe veglie settimanali, dovremo ricorrere a qualche altro passatempo. - Purché sia divertente! - esclamarono i bimbi. - Il solo divertimento non basta, - replicò la Regina. - Fin d’ora dovete assuefarvi a cercare nelle cose più il lato utile che quello divertente; dovete pensare che la missione dell’uomo è molto seria, e bisogna prepararvisi fino da piccoli con la riflessione. Chi cerca nella vita solo il divertimento, va avanti poco bene, ve lo assicuro io. Maso confermò le osservazioni della vecchia, e disse ai figli e ai nipoti che, durante le veglie dell’inverno, avrebbero ascoltato la lettura di buoni libri, fatta da Cecco alla famiglia riunita. - Tu ci leggerai Le mie prigioni di Silvio Pellico, - disse Vezzosa, la quale ricordava con tenerezza l’episodio che si riferiva a quel libro e che era il primo forse della catena dolcissima del loro affetto. - Leggerò tutto quello che mi chiederete, - rispose Cecco, - ma credo che sarà difficile che in essi troviate maggior diletto e maggior utile che nelle novelle della nonna. Ella, in mezzo a narrazioni fantastiche, vi ha insegnato tante cose; ogni novella racchiudeva esempi di fortezza di carattere, di virtù e di rassegnazione nelle sventure, e con tatto squisito ella sceglieva quelle più adattate al presente stato dell’animo nostro... Mamma, - aggiunse volgendosi verso di lei, - voi non sapete quanto bene ci avete fatto nei momenti di scoraggiamento e di dolore. La vecchia non rispondeva, e grossi lacrimoni le scendevano lungo le guance e le bagnavano il viso. Anche Vezzosa, che s’era fatta pallida e sofferente in quegli ultimi tempi, piangeva. Ogni piccola commozione la turbava, e pareva che attendesse trepidante la nascita del bambino, della cui venuta non si parlava nemmen più, ora che il matrimonio dell’Annina occupava tutti quelli di casa. - Maso, - disse la Regina riportando il pensiero a Camaldoli, - aspetta che siano tutti a letto; ho da parlarti. - Mamma, - rispose il capoccia turbandosi, - forse che quel che dovete dirmi è cosa che la famiglia non possa sentire, è cosa che faccia vergogna? - No, Maso; ma certe cose si dicono meglio a quattr’occhi; sai bene che io non sono buona a chiedere. Dopo questa dichiarazione, le donne portarono a letto i figliuoli. I fratelli andarono a fumare sull’aia, e quando la vecchia e il capoccia furono soli, questi disse: - Ora, mamma, parlate? - Parlate! - ripeté la Regina. - Ti assicuro che ricomincerei fin da principio tutte le novelle, piuttosto che dirti quello che devo; e se non l’avessi promesso, tacerei. - Mamma, mi spaventate! - Non c’è motivo. Ebbene, sappi dunque che Carlo, conoscendo sempre meglio l’Annina, vorrebbe sposarla prima del termine fissato per il loro matrimonio. Egli deve tornare subito a Firenze, e d’inverno sarà per lui molto difficile di assentarsi per venirla a vedere. Io ti consiglierei di appagare il suo desiderio. Un anno è lungo a passare. - Son tutte belle parole quelle che dite, mamma, - rispose il capoccia interrompendola, - ma il matrimonio è una cosa seria e non bisogna contrarlo altro che dopo averci pensato bene. Mi pare che Carlo abbia il difetto di tutti i giovani e degli uomini d’oggigiorno: l’impazienza e la fretta. Vi ricordate che, prima di sposare la Carola, andai a veglia da lei tre anni, e quando il mio suocero, buon’anima, mi metteva con le spalle al muro per farmela sposare presto e dare intanto la via a una delle sue quattro figliuole, io gli rispondevo che al matrimonio, come a tutte le risoluzioni gravi che si prendono nella vita, bisognava pensarci prima, per non pentirsi poi. Vedete che a tardare me ne son trovato bene, e quando ho sposato la Carola, sapevo che virtù e che difetti aveva, e per questo siamo andati sempre d’accordo. - Tu hai ragione, ma la Carola potevi vederla quando volevi, perché le nostre case erano a poca distanza e la sera andavi sempre da lei; ma Carlo sta a Firenze, l’Annina a Camaldoli, e in capo a un anno essi si conosceranno quanto ora e non più di certo. In quest’anno, se Carlo avrà moglie, farà maggiore economia, e così potrà ricondurre più presto l’Annina in Casentino e incominciar quella vita di proprietario ch’è il suo sogno. Non ti pare che, in vista di queste considerazioni, tu potresti cedere e non ostinarti a restar fedele ai principî di quel che è detto è detto? Nella vita sopravvengono spesso tanti avvenimenti, che ci costringono a derogare dalle risoluzione prese, e questo prepotente affetto di Carlo per l’Annina è cosa da esser presa in considerazione. Rifletti, e poi dimmi che cosa debbo fare scrivere da Vezzosa a Carlo. Il capoccia rifletté qualche tempo e poi disse: - Io non lo capisco quest’affetto che non può aspettare un anno, come se un anno fosse la vita di un uomo. Ma se voi credete che l’Annina sia seria abbastanza per maritarsi e che Carlo sia capace di tenerla bene e dimostrarle affezione, derogherò volentieri dal mio principio per compiacervi; ma badiamo poi che voi, mamma, non dobbiate pentirvi della vostra bontà, ed io della mia condiscendenza. - Spero che Iddio mi risparmi questo dolore, - disse la vecchia sorridendo, - e finché sarò in vita aiuterò la giovane coppia con i miei consigli, e, dopo morta, con le mie preghiere. - E batti! - esclamò Maso che non voleva sentir parlar di malinconie. - Quando la finirete di parlar di cose tristi? Regina non rispose, ma sorrise affettuosamente al figliuolo per la concessione fattale.