Il Canzoniere (Bandello)/Alcuni Fragmenti delle Rime/CCI - Come potrò mai dire
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CCI.
Lontano — in Francia — e omai, per sempre, dalla Mencia, afferma che la sua non è più vita, ma vera morte dell’animo se pur il corpo sopravvive. E sul concetto — e sulle parole di «vita» e di «morte» che gli ritornano frequenti sotto la penna — compone quest’ultima sua Ballata in lode, e in rimpianto, della Mencia mantovana.
Come potrò mai dire
Ch’io viva, e vita questo viver sia
S’è senza vita ognor la vita mia?1
Il vivo raggio, che dagli occhi viene
5Della mia Donna, Amore,
L’esca porgeva al lasso viver mio:
Onde tal forza ne prendeva il core,
Che fra l’acerbe pene
Mi dava d’ogni strazio sempre oblio,
10E sol intento er’io
Al dolce sfavillar di quella pia
Vista, che ’n terra un Paradiso cria.
Ben mi potea chiamar contento e vivo
Allor ch’a lei presente
15Gustava in que’ bei lumi ogni dolcezza;
Or che mia sorte me ne tiene assente,
Nè veggio il lume divo
Questa mia vita il viver più non prezza.
Nè vita è pur, che mezza,
20Anzi già tutta è morta. Ahi sorte ria!
Di me senz’il favor di quel che fia?
Quand’io lasciai sul Mencio quella vaga
Luce amorosa, allora
Lasciai la vita innanzi alla mia vita.
25Quivi da me lontana ella dimora
Sol di quel lume vaga
Ov’ogni grazia il ciel tien sempre unita.
Ivi quel ben s’addita,
Che fa ch’un uom senz’alma in vita stia
30E paia vivo come già solìa.
I’ non son vivo, Amor, nè mai potrei
Viver lontan da quella,
Che come vuol il cor, or m’apre, or serra2.
Così mi diede il ciel, e la mia stella
35Il dì, che mi rendei
A lei del Mencio in la famosa terra.
Quivi mia pace, e guerra
Tempra mai sempre, e me da me disvìa
Per cui se stesso il cor disprezza e oblìa.
40Onde non so se morto, o vivo sono
Da poi che ’l mio conforto,
Come mia stella vuol, abbandonai.
E se di vita il segno in viso porto,
Vien così raro dono
45Da’ begli occhi più chiar, che ’l sol assai;
Chè fanno ancor que’ rai
Con la virtù di lor pietà natìa
Spirar la vita in me, com’era pria.
Ahi! strana vita, che pur morta spiri,
50Ond’io tal provo strazio,
Che giunto son di Stige3 sulla riva:
Quanto di fiumi, mari e monti spazio
Da que’ soavi giri
Mi tien diviso, e posso dir ch’i viva?
55In tutto l’alma schiva
Meco restar a farmi compagnia,
Nè trova a darmi aìta più la via.
Così mi veggio, Amor, già giunto a tale
Ch’io vivo non vivendo
60E d’uomo sono un’ombra sol, e un segno.
E pur mi meraviglio morto essendo.
Che ’l pianto in me sì sale
Qual era allor ch’entrai dentro il tuo regno.
Però per fermo i’ tegno
65Morendo non morir, e tuttavia
Per fuggir morte il cor morir disia.
Note
- ↑ Vv. 2-3. Ch’io viva e vita, viver, senza vita, la mia vita, il vivo raggio ecc., continuando l’analisi per tutto il componimento si vede come il poeta ripeta e insista con giochi di parole, fino alla sazietà, sul suo concetto.
- ↑ V. 33. Il cor, or m’apre, or serra, è il petrarchesco: «E i cor ch’indura e serra», Canz., CXXVIII, v. 12.
- ↑ V. 51. Stige, la trista palude; cfr. Dante, Inf., VII, v. 106 sgg.