Il Baretti - Anno V, n. 1/In Germania: prigionieri o lupi di steppa

In Germania: prigionieri o lupi di steppa

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In Germania: prigionieri

o lupi di steppa

Vi sono libri specifici di un’epoca e di un paese — non universali nè per arte nè per contenuto, ma appunto «individui»: di tali libri è ricca la Germania d’oggi dopo la guerra e la rivoluzione, la Germania invasa dalla psicanalisi e dalla nacktkultur (la cultura dei nudi), presa dalla necessità della confessione autobiografica, dell’indagine biografica, oltre ogni precetto ogni convenzione ogni costume. E’ uscito da pochi mesi un grosso volume «siam prigionieri» (1) che è un romanzo, un’autobiografia, una sensazione. E si parla dell’autore come di una «stella» del parnaso contemporaneo, discusso e pronto a ricevere qualcuno dei grandi premi che ogni anno quassù vengon disputati nel regno delle lettere. O. M. Graf è figlio di contadini bavaresi e questa autobiografia, che egli tiene a dichiarare schietta dalla prima parola all’ultima, scritta a tappe dal 1914 a ’26 ha tutta la brutale rozzezza di una razza a cui non fanno impaccio tradizione e freno e cultura; e insieme la freddezza cinica e intellettuale che se rivela un dolore, è quello della sterilità. Cio nonostante, anz’appunto per questo contiene o rappresenta un mondo: il mondo che ha ucciso il sentimento per poter liberarsi con più acume agli uomini o che finirà probabilmente col più supinamente e irreligiosamente prosternarli al dio, al dio contadino e tiranno, al dio pauroso e cieco di cui neppur la natura ha ragione.

Una famiglia già nelle sue radici dissolta: una madre, animale da fatica, dolente e stupita: «legar loro una pietra al collo e ammazzarli cuccioli, come si fa coi gatti, i figli, bisognerebbe», un fratello tiranno, — educazione da caserma — una fuga generale degli altri verso oglio la perdizione il lavoro il martirio — il mondo. Ed ecco lui, Oskar Graf in prima persona, che si chiamerà poi Maria per distinguere le sue articolesse giornalistiche da quelle di un omonimo, fornaio e disoccupato, imbroglione e imbrogliato, soldato e riarmato, marito e letterato, notar le cose più atroci del suo tempo e di sé, senza muover palpebra, colla immobilità stessa dei suo compaesani in costume, che non hanno negli occhi neppur lo stupore. C’è una frase, in una novella dello stesso autore, che dà la chiave di questa sua maniera: «Dove ci son tenebre, tutto succede sempre eroicamente, comicamente, in modo scabroso e banale, tragico e comico a un tempo; e dove la vita è in funzione, ci son sempre le tenebre». Tenebre, soffocazione, nubi nubi nubi sulla terra folta di abeti, noi corpi gravi di carne, e ci si stupisce alla fine di trovar una soluzione che ci pare sopraggiunta in ritardo, che ci par detta ma non sentita: «Quel che di eterno, che Dio colpisce tanto perchè tanto lo ama, è rimasto profondamente nel nostro sangue e ci precede luminoso come una luce di grazia...». E chi l’avrebbe detto? Si, chi l’avrebbe detto con quella mancanza assoluta di amore che domina insieme la vita dell’uomo o il suo libro, con quella sbracata naturalezza con cui ogni brutalità, ogni miseria, ogni abbiezione vengon messe a fuoco senza, o ci sembra, un residuo di malinconia, un tremore, un velame? Va bene, egli non ha sopportato la guerra, si è ribellato; va bene, egli ha patito la fame e si è rotto di fatica nelle nottate, fornaio; va bene, egli ha partecipato alla rivoluzione; va bene, egli è riuscito a fare il letterato. Ecco il punto: il letterato: non il poeta o non l’uomo. E se questo è il punto d’arrivo, sterile è la sua ribellione come sterile il suo documentato patire: che non è, appunto, passione. Preciso in ogni particolare è tutta questa relazione degli avvenimenti monachesi dell’autunno 1918 e dei sintomi precorritori durante tutta la guerra; e nulla è più sincero di questa abilmente ma non artisticamente elaborata storia di uno e di tanti dannati: la categoria appunto dei dannati moderni, a cui l’amore è stato ucciso in germe dalla vita che li ha colti «a cuore impreparato» e a mente, oh come confusa! La vita. Una determinata sconvolgente corrosiva forma di vita: durezza e sangue, imbroglio e vigliaccheria, odio e aridità e, in ogni sua più deforme forma, la follia abbietta e la morte insultata: quell’atroce cantina dov’eran gettati ammassati i morti della rivoluzione «che tutta la città pareva sentir di cadavere».

Ed ecco che passare da questa ad un’altra sofferenza è sollievo, per quanto più vicina essa ci sia e quindi più tormentosa. La sofferenza del poeta, dell’uomo poeta romantico nella società, nel tempo di oggi. Herman Hesse ha cinquantanni ed ha dietro di sè una luminosa delicatissima opera poetica. Cominciò per necessità lirica a ribellarsi alla scuola, fu preso prima dalla necessità di «comprendere e interpretare» la bellezza e la sofferenza della muta vita della natura, poi dallo stupore di esser fra gli uomini come «uno dell’altro mondo», poi dallo sgomento che «l"amore può essere vano» corretto solo dal conforto dei rinunciatari: l’arte; e la guerra lo portò alla condanna degli ideali presenti, alla fuga dal mondo che per un momento cercò di correggere con motivi di saggezza cinese, consoni al suo temperamento capace di rassegnazione, bisognoso di grazia. Ed ecco ora contemporaneo al «siam prigionieri» del tanto più giovane collega (il Graf è nato nel ’94), ma come altro per respiro e poesia e capacità di dolore e profondità di analisi — sincerità — , l’ultimo «ululato» di sofferenza o di accusa: «Il lupo di steppa» (2). Che il poeta e un poeta: quello dalle due anime nel suo petto, la lupesca e l’umana, quella che ulula e che sente. «Molti artisti son fatti così. Questa gente ha in sè due nature; in loro vi è qualcosa di divino e qualcosa di demoniaco, il sangue materno e il paterno, la capacità di godere e di soffrire sono in loro così ostili e confuse come il lupo e l’uomo lo erano Harry. E queste persone che han la vita tanto inquieta godono talvolta nei loro radi momenti di felicità impressioni così forti e così indicibilmente belle, la schiuma del momento sprizza talvolta così alta e luminosa su dal mare della sofferenza, che questa breve felicità risplendente tocca coi suoi raggi ed incanta anche altri. Così sorgono tutto quelle opere di arte in cui un singolo sofferente si eleva per un momento tanto sul suo proprio destino, che la sua felicità irradia come una stella e appare a tutti quelli che la vedono come qualcosa di eterno, come il loro stesso sogno di felicità». Mentre pure il compito del poeta è quello di vivere tutta la problematicità della vita umana elevata a personale tormento ed inferno». Già, il poeta romantico: lo conosciamo, direte. Ma l’originalità di questo lupo di steppa dannato alla solitudine dalla sua stessa natura (ma che colpa ne ha lui, di grazia, di essere un lupo?) per cui la consueta vita umana è un non senso, sta nella sua conoscenza di sè, nella sua pacata e profonda psicologia, nell’arte con cui egli li esamina e si riferisce — e nella inverosimile sensibilità della sua saggezza «per soli pazzi», quella saggezza che sa ogni contrasto e vive di nostalgia e di rimpianto e adopera «la magnifica invenzione di quanti trovano ostacoli alla loro missione verso le cose più grandi, dei quasi tragici, dei più intelligenti infelici, l’umorismo (la più singolare forse e geniale trovata dell’umanità)». Vi occorre altro per riconoscere in quest’opera e nel suo poeta la più caratteristica espressione del romanticismo tedesco contemporaneo? Che è poi lo stesso di cent’anni fa, solo, e ben si capisce, con più marcata ed aspra fisionomia: il lupo di steppa del 1927 chi altri è in fondo se non Bonaventura, il melanconico conoscitor di uomini adoratore di stelle, il «Guardiano notturno» del 1804? (3).

Emma Sola



(1) OSKAR MARIA GRAF: Wir sind gefangene, Drel Masken Verlag - München.

(2) ERMANN ESSE: Der Steppenwolf - Fischer Verlag - Berlin.

(3) Die Natckrachen des Bonaventura, uscite nel 1804 di autore ignoto.