Il Baretti - Anno V, n. 1/Arnolt Bronner
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E’ certo che il fenomeno Bronnen si riconnette direttamente col sensazionalismo torbido e cupido dell’immediato dopo guerra. Come tenaci impurità che non vogliono precipitare in fondo al liquido che intorbidano, rimangono sospesi, nella psicologia di molti, istinti ed impulsi che, lungi dall’essere fornite di umanità nuova, ci richiamano invece l’uomo della selva, di vichiana memoria.
Da una tale convulsione psichica affiora una coscienza che tradisce in ogni sua manifestazione un fondo di irrequietudine o di instabilità, tanto più vive quanto più forte e il contrasto tra le esigenze spirituali dei tempi nuovi e la reviviscenza d’istinti primitivi, determinata da quella forza di imbarbarimento (Verwilderungskraft) che è la guerra.
In arte una tale irrequietudine può dare l’anelito a espressioni nuove che liberino quel contrasto, vero nodo gordiano, ove s’attorcono, in attesa della soluzione, mille problemi di natura politica, etica ed estetica (onde in alcuni nobili spiriti un sincero travaglio di ricerca, ed una ahimè spesso vana volontà di forme nuove; chè la gravida nube di un tal periodico «Sturm und Drang» passa lampeggiando e tuonando sopra di essi, ma forse si dilegua senza risolversi); oppure solletica, nei profittatori o negli incapaci congeniti, la ignobile smania di porsi nella scia della guerra, per raccogliere le impurità che essa ha lasciato e trafficarle. Di qui quella crassa eppur tronfia «Gesmacklosigkeit» che ci ammannisce in nauseabonde polpette il «brutale» e il «sensuale».
Vero è che tali polpette in Germania per lo più sono indorate in un intingolo di misticismo e trascendentalismo; che non c’è scrittore tedesco che non ami metafisicare sui propri intrugi, mescolandoli ai problemi universali. E beati sono, quando compiacenti filosofi teorizzano le ragioni della loro presunta arte e acuti a «Forscher» ne esibiscono le impeccabili formule critiche.
Quel che è successo ad Arnolt Bronnen. Il suo mondo doveva necessariamente chiudersi entro i limiti di un’arte realistica. Ma allora dove l’alone metafisico, il brivido del mistero, l’ombracolo del simbolo, le abissali introspezioni o le paurose esplorazioni dell’incosciente? Ed ecco venirgli incontro, in buon punto, la psicanalisi del Freud colla sua suggestiva teoria dell’Edipo integrale, e l’espressionismo coi suoi roboanti paroloni: spirito, estasi, visione, superamento, eternità, Dio. La tentazione era forte. Il Bronnen, rinunziando alle sue immediate intuizioni di quel mondo carico di rozzi istinti e saturo di bestialità, che doveva rappresentare, si diede anche lui a fare dell’arte metafisica. Eppure il suo temperamento di decadente... primitivo aveva trovato nell’immediato dopo guerra il terreno propizio per svilupparsi. Ma bisognava uscir subito dall'equivoco.
Ammesso che certi torbidi istinti dominino il mondo per una necessità di male irrimediabile e irredimibile, è forza che tutto si risolva in una fosca «Weltanschauung» immanentistica, senza possibilità di sbocchi trascendentali. Una tale cosmogonia sfocia necessariamente nel vicolo cieco dell’«ananche» o del «fatum», ed in forza dell'apriorismo da cui è governata, restringe, anzichè allargare, il campo umano esplorabile. Chè il cosidetto mondo dell’incosciente di codeste cosidette concezioni avanguardiste si riduce in ultima analisi ad uno psicologismo meccanico ed arbitrario.
Ma tant’è: questi scrittori, per l’orgoglio di ergersi sopra un piano superiore, manovrano in terreno «espressionistico» dove è, per definizione, norma l’abnorme, reale l’irreale, logico l’illogico, o con ciò solo si pongono fuori di ogni critica. In realtà, però, essi non sconfinano dal naturalismo, verismo o impressionismo che dir si voglia. Si rinnova per essi, a distanza di più che un secolo, l’illusione e l’equivoco di Federico Schlegel. Anche F. Schlegel aveva proclamato nel 1797, all’indomani di un periodo burrascoso e rivoluzionario, la legittimità anzi la necessità per l’arte di volgere la sua attenzione a quella ch’egli chiamava, mutuando un’espressione da Diderot «Die Empfindung des Fleisches». «Ogni romanzo perfetto dev’essere osceno, deve dare l’assoluto nella voluttà e nella sensualità». Compito dell’artista era quello di circondare di un alone mistico la «Wollust» e di soffiare un alito di tragedia per entro alla «Verwirrung» dei sensi. Era venuto, come diceva lo Schlegel in «Lucinda», il tempo, «in cui l’intima essenza della divinità poteva essere rivelata ed esposta, tutti i misteri dovevano essere svelati ed ogni timore cessare», e bisognava perciò «impugnare le armi e gettarsi in mezzo al tumulto guerresco delle passioni per difendere l'amore e la verità».
Tale concezione poteva esser tanto suggestiva, da trovare il suo avvocato nientemeno che in un teologo, lo Schleiermacher, che nel 1834, in una prefazione alla «Lucinda» schlegeliana, sostenne che gli impulsi erotici nella loro strapotenza rivelano e promovono la divinità stessa. Ma non c’è lustra o sofisma che possa nascondere il difetto congenito di tali concezioni. L'erotismo e l’amoralismo, anche nell’arte, trovano la loro rendenzione, solo se riguardati con occhio cristiano. Essi sono il triste retaggio di un male originario: sono, anzi, gran parte della nostra umanità: ma postulano necessariamente un bene antitetico che li superi e neghi. L’arte che li traduce realisticamente e li rappresenta senza aureole eufemistiche, che fa, come dice Gangale, «del verismo capovolto, concependo la vita, qual’è, cattiva, aspra, sorda, opaca, dovunque comunque» implicitamente fa pur sentire l’anelito e il grido di liberazione della nostra umanità fracida e desolata: De profundis clamavi ad te, domine — , e adombra nel finito l’infinito.
I così detti avanguardisti, invece, impigliati nel groviglio dei loro schemi astratti, son rimasti, spesso anche in buona fede nel cerebralismo o nel pornografismo o nel grottesco.
Il mondo del Bronnen è pieno di libidine e di istinti perversi. Egoisti, delinquenti, lussuriosi e degenerati, son mossi, automi senza volontà e coscienza, da una specie di foia permanente. Un lembo di carne nuda suscita in essi furori di «matta bestialità». L’evangelo loro è il materialismo più crasso. Dice Knödel nella «Novella di settembre»: «La vita è santa: per questo deve essere velata»; ma Huber gli risponde: «Per questo dev'essere lacerata. Per questo deve diventar visibile. Che vuol dir sacro? che vuol dire vita? Dentro di me non ho visto altro che sangue. Quando io agguanto un altro, sangue gli inietto. Valere significa, esercitar violenza! Gli uomini debbono essere violentati».
Essi ostentano il più sfacciato e volgare scetticismo. «Spirito? Ma fatemi il piacere! Col vostro spirito potete inghebbiare la bibbia ai vostri tonti montanari; ma una zuppa ch'è una zuppa io non posso cuocermela con tutto lo spirito di tutto il paese». (Die September novelle pag. 24).
In tutti è una ineffabile voluttà di spogliarsi e contemplare le proprie nudità in una specie di estasi. La sola parola nudo sembra dare l’esaltazione lirica all’autore stesso. La libidine si sprigiona dai corpi umani quasi come un fluido materiale; fermenta nell’alito degli uomini e delle cose, nell’odore dei corpi trasudati nel lezzo della impurità della terra.
Torve e lubriche immagini son quelle che il realismo decadente, alessandrino del Bronnen predilige e di fronte alle quali impallidisce qualunque «Frechleit» romantica; nauseabondi sono questi «fiori del male» che si radicano in questi strati del subcosciente, che certa arte avanguardista dice di voler arditamente esplorare perchè ivi sono i germi di una futura palingenesi.
Di qui gli assurdi pretesti mistici, le frasi magniloquenti e tutte le grottesche superstrutture simboliche che gravano sul dramma Bronneniano. E tu vedi in «Die Geburt der Iugeud» i mocciosi liceisti che, ribellatisi in nome di non so quale libertà, ai genitori e ai maestri, attuano niente po’ di meno che l’«incarnazione» del nuovo verbo, simboleggiato (anche la coreografia mistica!) nel grappolo di giovani, da cui una voce sovrumana lancia il grido «dinamicamente estatico».
«Ora io vedo Dio
Dio
Ora siamo noi Dio
Dio
noi Dio
cupido crescente dominante Dio
tutto Dio
noi Dio»;
vedi in «Vatermord» l’incestuoso parricida Walter che consumato il doppio delitto, si proclama orgogliosamente libero.
«Nessuno avanti a me, nessuno, accanto a me.
[nessuno
sopra di me,
Cielo io ti salto sopra, io volo.
.....io
io fiorisco!»
In «Anarchie in Sillian» (il dramma, con tutti i suoi difetti», più forte e caratteristico di Bronnen e l’unico in cui il protagonista non soggiaccia in fine alla prepotenza degli istinti erotici), Carrel, dopo di esersi brutalmente e cinicamente liberato dell’amante Vergan e del rivale Grand, esclama enfaticamente:
«Lussuria anarchia, inferno, io vi ho strozzato
la gola.
Il tempo della nebbia e dello smarrimento è
passato.
Ora incominciamo!
Questa mania delle frasi ad effetto, delle allegorie e dei vuoti simboli, che il Bronnon divide con molti suoi colleghi germanici, raggiunge il ridicolo in «Reparationen» dramma diviso in nove quadri. Qui il grottesco non si limita alla concezione, ma investe anche la frase. Nei punti dove l'«estasi e l’ebbrezza» debbono affiorare, lo stile futurizza e dadaizza o magari secentizza, anfanando dietro immagini strambe e accozzando parole senza senso.
«Un pensiero infernale è in me. Il mio capo si arrotola a spirale attorno ad esso, per meglio spennacchiarlo» (Rheinische Rebellen, 66).
«Dica, parli, una parola, purchè genuina, diretta: essa deve perforarmi, trapassarmi (oh, ecco applicata.... alla lettera la teoria espressionistica di Kasimir Edschmid: «la parola dev’essere una freccia»!), inchiodarmi alla parete. Ah, i tuoi occhi gettano ecatombi di cervella dinanzi a me, e il suolo inghiotte ogni cosa».
Anche la interpunzione, ben s’intende, e la disposizione degli a capo (ma guardate le grandi riforme!) sono spesso del tutto arbitrarie.
Eppure sotto a questo misto di assurdo cerebralismo e di ripugnante sensualismo e perversismo, urge una personalità. Non è facile rilevarla e determinarla, perchè Bronnen stesso cerca ogni mezzo per offuscarla. Ma è innegabile in lui una energia creativa e una potenza fantastica, che se spesso si risolve in nebulosa o peggio in fumea, fa di tanto in tanto presentire un mondo: ma un mondo, che, a dispetto di ogni pretesto metafisico, non trascende la realtà, di una banale e grottesca «Altäglieckeit» e non supera le vecchie formule del così detto naturalismo. Ma noi che di formule ci infischiamo, non rimproveriamo già questo a Bronnen ma se mai l’accusiamo di aver rinnegato proprio il suo temperamento. Ampliare la realtà non vuol dire sfuggirla, escogitando degli schemi arbitrari. La rappresentazione realistica del mondo, quando non sia meccanica ma nasca da un profondo bisogno lirico, non esclude la «suggestione» il presentimento di quell’ «irrazionale», che questi signori cercano invece in un gioco cerebrale. Tant’è che Bronnen stesso, là dove si libera da tutte le pastoie extra-estetiche dell’espressionismo, e non indulge a quell’arte e a quel talento che L. Vincenti, nel suo bello studio sul teatro tedesco contemporaneo, chiama rispettivamente «dell’effetto» e di «régie», riesce quasi a creare una «Stimmung». Alcune scene p. e. del primo atto di «Katalaunische Schlacht», e parecchie battute dell’«Anarchie in Sillian» di un realismo cupo e potente, seppur ancor troppo teso o grandguignolesco, presuppongono una intuizione sicura e profonda.
In questi punti la vera personalità del Bronnen e lì lì per assommare e anche a noi dispiace — per adoperare le parole che il Byron riferiva a F. Schlegel — che egli tratto tratto «si mantenga sull’orlo di una profonda significazione, ma poi improvvisamente tramonti come il sole e si squagli a guisa dell’arcobaleno, lasciando solo una screziata confusione»
Giovanni Necco.