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E’ certo che il fenomeno Bronnen si riconnette direttamente col sensazionalismo torbido e cupido dell’immediato dopo guerra. Come tenaci impurità che non vogliono precipitare in fondo al liquido che intorbidano, rimangono sospesi, nella psicologia di molti, istinti ed impulsi che, lungi dall’essere fornite di umanità nuova, ci richiamano invece l’uomo della selva, di vichiana memoria.

Da una tale convulsione psichica affiora una coscienza che tradisce in ogni sua manifestazione un fondo di irrequietudine o di instabilità, tanto più vive quanto più forte e il contrasto tra le esigenze spirituali dei tempi nuovi e la reviviscenza d’istinti primitivi, determinata da quella forza di imbarbarimento (Verwilderungskraft) che è la guerra.

In arte una tale irrequietudine può dare l’anelito a espressioni nuove che liberino quel contrasto, vero nodo gordiano, ove s’attorcono, in attesa della soluzione, mille problemi di natura politica, etica ed estetica (onde in alcuni nobili spiriti un sincero travaglio di ricerca, ed una ahimè spesso vana volontà di forme nuove; chè la gravida nube di un tal periodico «Sturm und Drang» passa lampeggiando e tuonando sopra di essi, ma forse si dilegua senza risolversi); oppure solletica, nei profittatori o negli incapaci congeniti, la ignobile smania di porsi nella scia della guerra, per raccogliere le impurità che essa ha lasciato e trafficarle. Di qui quella crassa eppur tronfia «Gesmacklosigkeit» che ci ammannisce in nauseabonde polpette il «brutale» e il «sensuale».

Vero è che tali polpette in Germania per lo più sono indorate in un intingolo di misticismo e trascendentalismo; che non c’è scrittore tedesco che non ami metafisicare sui propri intrugi, mescolandoli ai problemi universali. E beati sono, quando compiacenti filosofi teorizzano le ragioni della loro presunta arte e acuti a «Forscher» ne esibiscono le impeccabili formule critiche.

Quel che è successo ad Arnolt Bronnen. Il suo mondo doveva necessariamente chiudersi entro i limiti di un’arte realistica. Ma allora dove l’alone metafisico, il brivido del mistero, l’ombracolo del simbolo, le abissali introspezioni o le paurose esplorazioni dell’incosciente? Ed ecco venirgli incontro, in buon punto, la psicanalisi del Freud colla sua suggestiva teoria dell’Edipo integrale, e l’espressionismo coi suoi roboanti paroloni: spirito, estasi, visione, superamento, eternità, Dio. La tentazione era forte. Il Bronnen, rinunziando alle sue immediate intuizioni di quel mondo carico di rozzi istinti e saturo di bestialità, che doveva rappresentare, si diede anche lui a fare dell’arte metafisica. Eppure il suo temperamento di decadente... primitivo aveva trovato nell’immediato dopo guerra il terreno propizio per svilupparsi. Ma bisognava uscir subito dall'equivoco.

Ammesso che certi torbidi istinti dominino il mondo per una necessità di male irrimediabile e irredimibile, è forza che tutto si risolva in una fosca «Weltanschauung» immanentistica, senza possibilità di sbocchi trascendentali. Una tale cosmogonia sfocia necessariamente nel vicolo cieco dell’«ananche» o del «fatum», ed in forza dell'apriorismo da cui è governata, restringe, anzichè allargare, il campo umano esplorabile. Chè il cosidetto mondo dell’incosciente di codeste cosidette concezioni avanguardiste si riduce in ultima analisi ad uno psicologismo meccanico ed arbitrario.

Ma tant’è: questi scrittori, per l’orgoglio di ergersi sopra un piano superiore, manovrano in terreno «espressionistico» dove è, per definizione, norma l’abnorme, reale l’irreale, logico l’illogico, o con ciò solo si pongono fuori di ogni critica. In realtà, però, essi non sconfinano dal naturalismo, verismo o impressionismo che dir si voglia. Si rinnova per essi, a distanza di più che un secolo, l’illusione e l’equivoco di Federico Schlegel. Anche F. Schlegel aveva proclamato nel 1797, all’indomani di un periodo burrascoso e rivoluzionario, la legittimità anzi la necessità per l’arte di volgere la sua attenzione a quella ch’egli chiamava, mutuando un’espressione da Diderot «Die Empfindung des Fleisches». «Ogni romanzo perfetto dev’essere osceno, deve dare l’assoluto nella voluttà e nella sensualità». Compito dell’artista era quello di circondare di un alone mistico la «Wollust» e di soffiare un alito di tragedia per entro alla «Verwirrung» dei sensi. Era venuto, come diceva lo Schlegel in «Lucinda», il tempo, «in cui l’intima essenza della divinità poteva essere rivelata ed esposta, tutti i misteri dovevano essere svelati ed ogni timore cessare», e bisognava perciò «impugnare le armi e gettarsi in mezzo al tumulto guerresco delle passioni per difendere l'amore e la verità».

Tale concezione poteva esser tanto suggestiva, da trovare il suo avvocato nientemeno che in un teologo, lo Schleiermacher, che nel 1834, in una prefazione alla «Lucinda» schlegeliana, sostenne che gli impulsi erotici nella loro strapotenza rivelano e promovono la divinità stessa. Ma non c’è lustra o sofisma che possa nascondere il difetto congenito di tali concezioni. L'erotismo e l’amoralismo, anche nell’arte, trovano la loro rendenzione, solo se riguardati con occhio cristiano. Essi sono il triste retaggio di un male originario: sono, anzi, gran parte della nostra umanità: ma postulano necessariamente un bene antitetico che li superi e neghi. L’arte che li traduce realisticamente e li rappresenta senza aureole eufemistiche, che fa, come dice Gangale, «del verismo capovolto, concependo la vita, qual’è, cattiva, aspra, sorda, opaca, dovunque comunque» implicitamente fa pur sentire l’anelito e il grido di liberazione della nostra umanità fracida e desolata: De profundis clamavi ad te, domine — , e adombra nel finito l’infinito.

I così detti avanguardisti, invece, impigliati nel groviglio dei loro schemi astratti, son rimasti, spesso anche in buona fede nel cerebralismo o nel pornografismo o nel grottesco.

Il mondo del Bronnen è pieno di libidine e di istinti perversi. Egoisti, delinquenti, lussuriosi e degenerati, son mossi, automi senza volontà e coscienza, da una specie di foia permanente. Un lembo di carne nuda suscita in essi furori di «matta bestialità». L’evangelo loro è il materialismo più crasso. Dice Knödel nella «Novella di settembre»: «La vita è santa: per questo deve essere velata»; ma Huber gli risponde: «Per questo dev'essere lacerata. Per questo deve diventar visibile. Che vuol dir sacro? che vuol dire vita? Dentro di me non ho visto altro che sangue. Quando io agguanto un altro, sangue gli inietto. Valere significa, esercitar violenza! Gli uomini debbono essere violentati».

Essi ostentano il più sfacciato e volgare scetticismo. «Spirito? Ma fatemi il piacere! Col vostro spirito potete inghebbiare la bibbia ai vostri tonti montanari; ma una zuppa ch'è una zuppa io non posso cuocermela con tutto lo spirito di tutto il paese». (Die September novelle pag. 24).

In tutti è una ineffabile voluttà di spogliarsi e contemplare le proprie nudità in una specie di estasi. La sola parola nudo sembra dare l’esaltazione lirica all’autore stesso. La libidine si sprigiona dai corpi umani quasi come un fluido materiale; fermenta nell’alito degli uomini e delle cose, nell’odore dei corpi trasudati nel lezzo della impurità della terra.

Torve e lubriche immagini son quelle che il realismo decadente, alessandrino del Bronnen predilige e di fronte alle quali impallidisce qualunque «Frechleit» romantica; nauseabondi sono questi «fiori del male» che si radicano in questi strati del subcosciente, che certa arte avanguardista dice di voler arditamente esplorare perchè ivi sono i germi di una futura palingenesi.

Di qui gli assurdi pretesti mistici, le frasi magniloquenti e tutte le grottesche superstrutture simboliche che gravano sul dramma Bronneniano. E tu vedi in «Die Geburt der Iugeud» i mocciosi liceisti che, ribellatisi in nome di non so quale libertà, ai genitori e ai maestri, attuano niente po’ di meno che l’«incarnazione» del nuovo verbo, simboleggiato (anche la coreografia mistica!) nel grappolo di giovani, da cui una voce sovrumana lancia il grido «dinamicamente estatico».

«Ora io vedo Dio

Dio

Ora siamo noi Dio

Dio

noi Dio

cupido crescente dominante Dio

tutto Dio

noi Dio»;


vedi in «Vatermord» l’incestuoso parricida Walter che consumato il doppio delitto, si proclama orgogliosamente libero.


«Nessuno avanti a me, nessuno, accanto a me.

[nessuno


sopra di me,

Cielo io ti salto sopra, io volo.

.....io

io fiorisco!»

In «Anarchie in Sillian» (il dramma, con tutti i suoi difetti», più forte e caratteristico di Bronnen e l’unico in cui il protagonista non soggiaccia in fine alla prepotenza degli istinti erotici), Carrel, dopo di esersi brutalmente e cinicamente liberato dell’amante Vergan e del rivale Grand, esclama enfaticamente:

«Lussuria anarchia, inferno, io vi ho strozzato

la gola.

Il tempo della nebbia e dello smarrimento è

passato.

Ora incominciamo!

Questa mania delle frasi ad effetto, delle allegorie e dei vuoti simboli, che il Bronnon divide con molti suoi colleghi germanici, raggiunge il ridicolo in «Reparationen» dramma diviso in nove quadri. Qui il grottesco non si limita alla concezione, ma investe anche la frase. Nei punti dove l'«estasi e l’ebbrezza» debbono affiorare, lo stile futurizza e dadaizza o magari secentizza, anfanando dietro immagini strambe e accozzando parole senza senso.

«Un pensiero infernale è in me. Il mio capo si arrotola a spirale attorno ad esso, per meglio spennacchiarlo» (Rheinische Rebellen, 66).

«Dica, parli, una parola, purchè genuina, diretta: essa deve perforarmi, trapassarmi (oh, ecco applicata.... alla lettera la teoria espressionistica di Kasimir Edschmid: «la parola dev’essere una freccia»!), inchiodarmi alla parete. Ah, i tuoi occhi gettano ecatombi di cervella dinanzi a me, e il suolo inghiotte ogni cosa».

Anche la interpunzione, ben s’intende, e la disposizione degli a capo (ma guardate le grandi riforme!) sono spesso del tutto arbitrarie.

Eppure sotto a questo misto di assurdo cerebralismo e di ripugnante sensualismo e perversismo, urge una personalità. Non è facile rilevarla e determinarla, perchè Bronnen stesso cerca ogni mezzo per offuscarla. Ma è innegabile in lui una energia creativa e una potenza fantastica, che se spesso si risolve in nebulosa o peggio in fumea, fa di tanto in tanto presentire un mondo: ma un mondo, che, a dispetto di ogni pretesto metafisico, non trascende la realtà, di una banale e grottesca «Altäglieckeit» e non supera le vecchie formule del così detto naturalismo. Ma noi che di formule ci infischiamo, non rimproveriamo già questo a Bronnen ma se mai l’accusiamo di aver rinnegato proprio il suo temperamento. Ampliare la realtà non vuol dire sfuggirla, escogitando degli schemi arbitrari. La rappresentazione realistica del mondo, quando non sia meccanica ma nasca da un profondo bisogno lirico, non esclude la «suggestione» il presentimento di quell’ «irrazionale», che questi signori cercano invece in un gioco cerebrale. Tant’è che Bronnen stesso, là dove si libera da tutte le pastoie extra-estetiche dell’espressionismo, e non indulge a quell’arte e a quel talento che L. Vincenti, nel suo bello studio sul teatro tedesco contemporaneo, chiama rispettivamente «dell’effetto» e di «régie», riesce quasi a creare una «Stimmung». Alcune scene p. e. del primo atto di «Katalaunische Schlacht», e parecchie battute dell’«Anarchie in Sillian» di un realismo cupo e potente, seppur ancor troppo teso o grandguignolesco, presuppongono una intuizione sicura e profonda.

In questi punti la vera personalità del Bronnen e lì lì per assommare e anche a noi dispiace — per adoperare le parole che il Byron riferiva a F. Schlegel — che egli tratto tratto «si mantenga sull’orlo di una profonda significazione, ma poi improvvisamente tramonti come il sole e si squagli a guisa dell’arcobaleno, lasciando solo una screziata confusione»

Giovanni Necco.


In Germania: prigionieri

o lupi di steppa

Vi sono libri specifici di un’epoca e di un paese — non universali nè per arte nè per contenuto, ma appunto «individui»: di tali libri è ricca la Germania d’oggi dopo la guerra e la rivoluzione, la Germania invasa dalla psicanalisi e dalla nacktkultur (la cultura dei nudi), presa dalla necessità della confessione autobiografica, dell’indagine biografica, oltre ogni precetto ogni convenzione ogni costume. E’ uscito da pochi mesi un grosso volume «siam prigionieri» (1) che è un romanzo, un’autobiografia, una sensazione. E si parla dell’autore come di una «stella» del parnaso contemporaneo, discusso e pronto a ricevere qualcuno dei grandi premi che ogni anno quassù vengon disputati nel regno delle lettere. O. M. Graf è figlio di contadini bavaresi e questa autobiografia, che egli tiene a dichiarare schietta dalla prima parola all’ultima, scritta a tappe dal 1914 a ’26 ha tutta la brutale rozzezza di una razza a cui non fanno impaccio tradizione e freno e cultura; e insieme la freddezza cinica e intellettuale che se rivela un dolore, è quello della sterilità. Cio nonostante, anz’appunto per questo contiene o rappresenta un mondo: il mondo che ha ucciso il sentimento per poter liberarsi con più acume agli uomini o che finirà probabilmente col più supinamente e irreligiosamente prosternarli al dio, al dio contadino e tiranno, al dio pauroso e cieco di cui neppur la natura ha ragione.

Una famiglia già nelle sue radici dissolta: una madre, animale da fatica, dolente e stupita: «legar loro una pietra al collo e ammazzarli cuccioli, come si fa coi gatti, i figli, bisognerebbe», un fratello tiranno, — educazione da caserma — una fuga generale degli altri verso oglio la perdizione il lavoro il martirio — il mondo. Ed ecco lui, Oskar Graf in prima persona, che si chiamerà poi Maria per distinguere le sue articolesse giornalistiche da quelle di un omonimo, fornaio e disoccupato, imbroglione e imbrogliato, soldato e riarmato, marito e letterato, notar le cose più atroci del suo tempo e di sé, senza muover palpebra, colla immobilità stessa dei suo compaesani in costume, che non hanno negli occhi neppur lo stupore. C’è una frase, in una novella dello stesso autore, che dà la chiave di questa sua maniera: «Dove ci son tenebre, tutto succede sempre eroicamente, comicamente, in modo scabroso e banale, tragico e comico a un tempo; e dove la vita è in funzione, ci son sempre le tenebre». Tenebre, soffocazione, nubi nubi nubi sulla terra folta di abeti, noi corpi gravi di carne, e ci si stupisce alla fine di trovar una soluzione che ci pare sopraggiunta in ritardo, che ci par detta ma non sentita: «Quel che di eterno, che Dio colpisce tanto perchè tanto lo ama, è rimasto profondamente nel nostro sangue e ci precede luminoso come una luce di grazia...». E chi l’avrebbe detto? Si, chi l’avrebbe detto con quella mancanza assoluta di amore che domina insieme la vita dell’uomo o il suo libro, con quella sbracata naturalezza con cui ogni brutalità, ogni miseria, ogni abbiezione vengon messe a fuoco senza, o ci sembra, un residuo di malinconia, un tremore, un velame? Va bene, egli non ha sopportato la guerra, si è ribellato; va bene, egli ha patito la fame e si è rotto di fatica nelle nottate, fornaio; va bene, egli ha partecipato alla rivoluzione; va bene, egli è riuscito a fare il letterato. Ecco il punto: il letterato: non il poeta o non l’uomo. E se questo è il punto d’arrivo, sterile è la sua ribellione come sterile il suo documentato patire: che non è, appunto, passione. Preciso in ogni particolare è tutta questa relazione degli avvenimenti monachesi dell’autunno 1918 e dei sintomi precorritori durante tutta la guerra; e nulla è più sincero di questa abilmente ma non artisticamente elaborata storia di uno e di tanti dannati: la categoria appunto dei dannati moderni, a cui l’amore è stato ucciso in germe dalla vita che li ha colti «a cuore impreparato» e a mente, oh come confusa! La vita. Una determinata sconvolgente corrosiva forma di vita: durezza e sangue, imbroglio e vigliaccheria, odio e aridità e, in ogni sua più deforme forma, la follia abbietta e la morte insultata: quell’atroce cantina dov’eran gettati ammassati i morti della rivoluzione «che tutta la città pareva sentir di cadavere».

Ed ecco che passare da questa ad un’altra sofferenza è sollievo, per quanto più vicina essa ci sia e quindi più tormentosa. La sofferenza del poeta, dell’uomo poeta romantico nella società, nel tempo di oggi. Herman Hesse ha cinquantanni ed ha dietro di sè una luminosa delicatissima opera poetica. Cominciò per necessità lirica a ribellarsi alla scuola, fu preso prima dalla necessità di «comprendere e interpretare» la bellezza e la sofferenza della muta vita della natura, poi dallo stupore di esser fra gli uomini come «uno dell’altro mondo», poi dallo sgomento che «l"amore può essere vano» corretto solo dal conforto dei rinunciatari: l’arte; e la guerra lo portò alla condanna degli ideali presenti, alla fuga dal mondo che per un momento cercò di correggere con motivi di saggezza cinese, consoni al suo temperamento capace di rassegnazione, bisognoso di grazia. Ed ecco ora contemporaneo al «siam prigionieri» del tanto più giovane collega (il Graf è nato nel ’94), ma come altro per respiro e poesia e capacità di dolore e profondità di analisi — sincerità — , l’ultimo «ululato» di sofferenza o di accusa: «Il lupo di steppa» (2). Che il poeta e un poeta: quello dalle due anime nel suo petto, la lupesca e l’umana, quella che ulula e che sente. «Molti artisti son fatti così. Questa gente ha in sè due nature; in loro vi è qualcosa di divino e qualcosa di demoniaco, il sangue materno e il paterno, la capacità di godere e di soffrire sono in loro così ostili e confuse come il lupo e l’uomo lo erano Harry. E queste persone che han la vita tanto inquieta godono talvolta nei loro radi momenti di felicità impressioni così forti e così indicibilmente belle, la schiuma del momento sprizza talvolta così alta e luminosa su dal mare della sofferenza, che questa breve felicità risplendente tocca coi suoi raggi ed incanta anche altri. Così sorgono tutto quelle opere di arte in cui un singolo sofferente si eleva per un momento tanto sul suo proprio destino, che la sua felicità irradia come una stella e appare a tutti quelli che la vedono come qualcosa di eterno, come il loro stesso sogno di felicità». Mentre pure il compito del poeta è quello di vivere tutta la problematicità della vita umana elevata a personale tormento ed inferno». Già, il poeta romantico: lo conosciamo, direte. Ma l’originalità di questo lupo di steppa dannato alla solitudine dalla sua stessa natura (ma che colpa ne ha lui, di grazia, di essere un lupo?) per cui la consueta vita umana è un non senso, sta nella sua conoscenza di sè, nella sua pacata e profonda psicologia, nell’arte con cui egli li esamina e si riferisce — e nella inverosimile sensibilità della sua saggezza «per soli pazzi», quella saggezza che sa ogni contrasto e vive di nostalgia e di rimpianto e adopera «la magnifica invenzione di quanti trovano ostacoli alla loro missione verso le cose più grandi, dei quasi tragici, dei più intelligenti infelici, l’umorismo (la più singolare forse e geniale trovata dell’umanità)». Vi occorre altro per riconoscere in quest’opera e nel suo poeta la più caratteristica espressione del romanticismo tedesco contemporaneo? Che è poi lo stesso di cent’anni fa, solo, e ben si capisce, con più marcata ed aspra fisionomia: il lupo di steppa del 1927 chi altri è in fondo se non Bonaventura, il melanconico conoscitor di uomini adoratore di stelle, il «Guardiano notturno» del 1804? (3).

Emma Sola



(1) OSKAR MARIA GRAF: Wir sind gefangene, Drel Masken Verlag - München.

(2) ERMANN ESSE: Der Steppenwolf - Fischer Verlag - Berlin.

(3) Die Natckrachen des Bonaventura, uscite nel 1804 di autore ignoto.


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