Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Valery Larbaud
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Valery Larbaud
Non sono molto lontani i giorni in cui leggendo Larbaud non potevano esimerci dal rivolgergli in tono di dubbio consenso verso di A. O. Barnabooth al proprio padre: «Tout ça mon vieux Valerio c'est très joli...» Très joli, certo, ma... non ci era facile, sulle prime, liberare la nostra ammirazione da un inamabile peso di riserve. Dal fondo di un suo bel ritratto di Paul-Emile Bécat, Valerio ci ammoniva tuttavia di non fermarci alle sue più floride apparenze e di cercare la sua giustificazione più in là. Questo secondo piano doveva esistere di certo. L’uomo che nel diario di Barnabooth aveva posta in bocca di Stefano talune semplici parole («Adieu, je vais recevoir à genoux l’Empereur d’Orient») e che aveva saputo darci mirabili pagine introduttive al mistico poeta Conventry Patmore, credeva opportuno, nel resto dell'opera sua, non parlarci più di Dio. Lo scrittore che più doveva a Philippe, e non solo in certe mosse esteriori, era poi il più lontano da Philippe; il suo mondo pareva il treno di lusso, la sua psicologia confondeva ormai quella delle famigerate anime con cinquantamila franchi di rendita, e le relegava in un mondo miserabile e anacronistico.
Contraddizioni più o meno apparenti che non ci toglievano il gusto della sua arte irrequieta. Non sarebbe breve, e tornerebbe inutile, un conto degli influssi che hanno toccato Larbaud. Fu assicurato che nella lista andrebbero compresi, messi daccanto e tutti sorpresi d’esserci, Montaigne e Walt Whitman, Choderlos de Laclos e Walter Savage Landor, fino a James Joyce, dal Larbaud riconosciuto pubblicamente quale «the only begetter» della forma (il monologo interiore) da lui accettata nel suo racconto: «Amants, heureux amants». Altri si rifece al Ginevrino ed ai grandi viaggiatori, da Gobineau ai recentissimi: si videro comparire elenchi e genealogie.
Per ciò che riguarda Joyce noi confessiamo di non esser, per ora, fra i quattro o cinque italiani che hanno affrontata la mole imponente e favolosa di Ulysses; e ci sarebbe impossibile stabilire quanto il Larbaud debba in realtà allo scrittore irlandese. Ma diremmo, confortati da buoni indizi, che la parentela sia ancora estrinseca, e che attraverso la selva delle annotazioni che salgono dalle zone sotterranee del suo essere (come dire più «anima», ormai?) in Larbaud si faccia strada una sostanza ben francese e definita, il mondo ringiovanito di Boucher e di Fragonard più che quello dei perigliosi poeti dell’introspezione.
Sulla formula di «scrittore libertino» parrebbe adunque possibile un primo accordo circa il mondo del nostro autore; nè la definizione mancherebbe di verità qualora fosse rafforzata con la dichiarazione più opportuna dei suoi rari e personali meriti di artista. Al disopra degl’influssi che ha sentito Valery Larbaud esiste davvero, come pochi. Diremmo anzi che è uno dei segreti più suoi, questo di saper trarre partito, organizzandole, da una molteplicità di esperienze culturali che svierebbero artisti meno provetti. Larbaud accetta pretesti e avventure, sa risolvere in sè gli urti più scabrosi. Sotto il suo polo l’aria più burrascosa si fa clemente e neutrale. Artisti portati a seguire la via, ma di lui meno ispirati, non poterono, anche da noi, salvarsi da pericolosi inconvenienti.
Ancora una volta il fondo di un artista si dimostra irriducibile alla sua maniera: «les dieux s’en vont» e le figure di Rose Louirdin, di Dolly, di Rachel Frutiger, di Eliana, restano; restano Queenie e il suo stupefacente fidanzato; rimangono Juga e Romana: lievi come son nella vita le creature che le somigliano, e di coteste, di certo, più perfette.
E rimangono indimenticabili visioni di paesi e di interni: Chelsea e Montpellier, Napoli e San Marino. Pochi scrittori hanno saputo rendere del pari l'ora e la temperie: il fiotto della vita esteriore ed insieme quello dell'animo disperso e un poco troublé, come si conviene al figlio di una letteratura ch'è passata per Verlaine. Restano i «prezzi» di pittura, le sete che frusciano e l'allocciolio sul muro dei riflessi del sole sull'acqua corrente, che filtrano dalle cortine abbassate; restano infine, oltre i quadri di cavalletto, i pastelli appena segnati: come il pastorello, figlio insieme di La Fontaine e Watteau, intento a spiare con occhi cupidi le belle straniere giunte.
Così da «Fermina Marquez», a «Barnabooth» e ai «Barbarygmes», più su fino ai ricordi di collegio di «Enfantines» e alla più recente raccolta: «Amants, hereux amants», è tutto un fiorire di imagini leggiadre. Ma il diario di A. O. Barnabooth — più che i suoi versi, alquanto superflui — ci sta dinanzi e ci dice chiaramente che la figura di Larbaud non ci esaurisce con la moda ricetta che la sua stessa tradizione ci ha offerta facilmente. Una sfumatura, in realtà qualcosa di decisivo, n'è rimasta fuori. Larbaud infine non s'intende se non si accetta, poco o molto, il mito che illumina l'opera sua: il mito dell'uomo Europeo. Questa la realtà che sostiene ogni sua pagina e le dà risonanza. Ed è ben certo che il nostro dichiarato formalismo non mai volle disconoscere che la frase scritta vale per quella inespressa, che il libro che appare non è che una via d'accesso al libro che non si scrive. A Larbaud bisogna mandar buona questa mistica dell'intelligenza, questa vigile coscienza di incarnare l'uomo rinunzia alle forme, s'anche le ami a una a una nella vita; l'uomo che disfattosi da ogni canone per essere più spoglio e inafferrabile, accetta la sua battaglia contro le facce del futuro; un autarca senza imperativi, uno stoico senza consolazioni. Sforzo di realizzare, in fondo, senza schemi la propria realtà più fondamentalmente umana: tanto nel tempo da essere ormai tutta fuori del tempo.
Qui potrà il moralista intervenire e dir bestiale questa nuova manifestazione dell' homo sapiens che pare avere ucciso in sè anche la più rudimentale teleologia. Noi non lo seguiremo troppo, a questo proposito, nella sua depressione. Poiché il fatto che Larbaud ci si mostra coerente nelle sue prove, e ricco di non so che certezza che lo salva sempre dai disastri che parrebbero inerenti al suo assunto, è tal garanzia da renderci palese che qualche Cosa dev'esserci in lui che va oltre l'intenzionale e si concreta in verità d'arte e di vita. Il suo Barnabooth non ci è possibile considerarlo solo come una «variazione sul tema Des Esseints»; altra novità di presupposti e di atteggiamenti è in lui. Larbaud aggiunge qualcosa al patrimonio di tutti, il nichilista, vecchia scoperta, crea.
La sua ricerca differisce da quella di Gide, che pare risolvere o almeno confondere, antitesi etiche in un giuoco di immoralismo che si sforza di realizzare evidenze puntuali, via via dissipate.
Le sue inclinazioni vanno a forme più riposate dell'intelligenza; come a dire ad una raffinatezza, ad una selezione che toccano ormai l'ordine fisico. Morand, che ha parecchie affinità con lui, ma riesce assai più volontario e sforzato, ha detto:
«Il a tout ce qu'a raté Stendhal avec son sale caractère, et qu'il a réussi».
Pare questo, per ora, il punto d’arrivo di quella sua appassionata dedizione alle cose cui già s’è accennato, e della quale ognuno rammenterà, in Barnabooth, uno dei più chiari accenni: — «Mais vient l’hiver de l’Europe Centrale! le froid immense et pleni de dignité. C’est alors que je retrouve mon Allemagne, comme une épouse aimable et comme un foyer chaud. La vie devient décente et propre, avec des occupations sérieuses; c’est le temps des études philologiques, aves les cigarettes et les baisers. Et le soir, sur la glace bleue les étangs, on patine jusque à la nuit dans les jardins royaux, tandis qu’au loin les lumières de la ville mouillent le ciel entre les branchages couverts de neige. A travers les haute glaces de mon wagon-salon, j’ai vu venir et s’éloigner toutes les petites villes. Et j’aurais voulu passer ma vie dans chacune d’elles, humblement; allant tous les dimanches à la chapelle; prenant part aux fêtes locales; fréquentant la noblesse du pays. Au loin les grandes destinéss feraient leur tapage inutile».
Messo in chiaro questo sfondo della figura di Larbaud, un utile discorso sarebbe da cominciare per definire l’arte di lui nei risultati sicuri e nei punti più deboli. Lo spazio esiguo di cui disponiamo ci permette soltanto un fugace rilievo; ed è questo che il Larbaud, ben certo di possedersi, trascura talvolta nelle sue composizioni, non pure l’ordinaria ficelle, ma anche quel tanto di coerenza tecnica che gioverebbe a dare un risalto più solido ai suoi scritti. Dalla prima alla seconda parte del Diario di Barnabooth e di «Beauté mon beau souci...» il salto è forse troppo forte; e l’aver trascurato trapassi e giustificazioni minaccia gravemente l’unità dell'insieme. Ma non oseremmo davvero affermare che da questi pericoli il centro più vitale dello scrittore esca compromesso: abbiamo dinanzi, e non è a dire quanto decisivi, i risultati di «Enfantines» e del racconto di mezzo di «Amants, heureux amants».
Ci è possibile ancor meno di intrattenerci sul Larbaud anglicisant: traduttore del Coleridge, di W. Savage Landor, ed ora di Samuel Butler. Sempre più chiara emergerebbe da quest’esame la figura che di lui abbiamo voluto disegnare in pochi tocchi.
Sarà palese che sotto gli agréments del clavicembalista ci è parso di sentir vibrare una eco ben altrimenti profonda; ma forse molti suoi lettori continueranno a vederne soltanto il volto che sorride. A codesti, anziché contraddirli, noi vorremmo venire in aiuto; e propor loro, per finire, qualche altra parola sul padre di Barnabooth. È ancora di Morand:
«Ce que j’admire le plus, c’est celle somme prodigieuse de travail, de passion, et de violence pour arriver à ce joyau reconstitué: un homme simplc, qui sourit».
Eugenio Montale.