Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Paul Morand
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Non conosco i suoi versi ma da qualche campione che me ne venne tra mano oso indurre che essi non aggiungano nulla d’essenziale alla conoscenza della sua opera. La secchezza della notazione, la scarnificante facoltà osservativa e il genere di pathos che li animano sono qualità che ritroviamo, meglio adoperate e finalizzate, nel movimento veloce della sua prosa narrativa in cui la sua arte ci si mostra d’acchito come provocata da un lirismo che non raggiunge il canto per un congenito bisogno di documentazioni; mentre possiede nella sprezzatura sintattica e nella eterogeneità delle immagini uno strumento espressivo molto aderente alle speciose avventure che egli ci narra. Più che ad altre sue opere mi riferisco a Fermé la Nuit ed a Ouvert la Nuit che son raccolte di novelle — o saggi di vita vissuta — nelle quali il Morand, col tono di uno che è alquanto parte in causa, ci descrive un’umanità di lusso ed amorale senza farci per nulla l’impressione del dandy da caffè concerto come qualche nostro autore alla moda che bazzica personaggi della stessa specie. Questo, oltre le differenze di mentalità ed educazione che intercorrono tra il Morand e quei che non nominiamo, dimostra quanto il senso psicologico del Nostro sia acuto. I tipi ch’egli studia hanno in sè tali elementi di particolarissima profondità che vien voglia di pensarli colti nel vero. Uomini e donne — non esclusi Lewis e Irène che danno il titolo al suo ultimo romanzo — essi appaiono quasi tutti degli sradicati sottoposti a una bizzarra e nevrastenica fatalità; degli snobs vittime della loro cosciente od inconscia eccentricità e dei malati di una raffinatezza che non ha più nulla da imparare circa il vivere edonistico.
Petronio, componendo oggi, più d’uno ne eleggerebbe per il film di un modernissimo Satyricon. Piace a noi, generalizzando, considerarli come i frutti di quella cultura mondana francese, o viennese o berlinese, che è la sola, nella vita comune, positivamente internazionale. Qualcuno, sedotto a ciò da somiglianze puramente esteriori, avvicinava la maniera morandiana a quella di Jean Giraudoux a cui il Nostro non è veramente affine che nel suo lato ironico e nella modernità del vocabolario. Osserva giustamente il Thibaudet a questo proposito che mentre il Giraudoux è piuttosto un collezionista che si compiace di raccogliere immagini, Paul Morand, più sanguinario e cacciatore nato, si parte invece proprio per selvaggina; ed ha minore importanza se il carniere strada facendo gli si ricolmi di merletti come a quello. Tale definizione concorda nella sua parte venatoria con quanto noi diciamo circa i personaggi delle «Nuits», ma la troviamo, nel punto che riguarda lo stile, ancora fuori di mira. Più che nei metodi di uno stilista paziente — il che può essere suggerito dalla parola merletti — pare a noi che, tanto la sua posizione di osservatore partecipe ma disincantato dalla fretta del viaggiare, quanto la materia disambientata che egli adopera, conducono il Morand a lavorare la propria espressione in una guisa pressochè giornalistica e che la sua arte — non si stabilisce con ciò nessun demerito — ci giunga per molti aspetti compagna a quel reportage di grande lena, fatto d’intelligenti notazioni e riferimenti di cui, anche in Italia, ci stan venendo da un certo tempo ottimi saggi. Ma in «Lewis et Irène» Paul Morand si è voluto inoltrare a battere una tenuta più tradizionalmente solita e ordinata: e ci ha portato un romanzo imperfettamente maturo in cui risaltano le medesime qualità delle Nuits, talvolta usate fuori posto, accanto a gravi difetti di costruzione. Sorella in certi lati del suo carattere a Remedios, ad Aino e ad altre morandiane creature, Irène pretende di legarsi per tutti gli altri alle più perspicue qualità della propria razza che è l’ebraica: e il romanzo è forse imperniato sul contrasto che nasce tra questa sua peculiarità e quella di Lewis che, non ben determinato, sta fra il deraciné piuttosto scialbo, l’egoista e il sensuale. Reagendo entrambi incerti o gratuitamente alle situazioni combinate, spesso dal di fuori, e senza una palese necessità, e non essendo lo svolgersi dei loro stati d’animo armonizzato con sufficiente evidenza, ci sembra insomma che in questo suo tentativo il Morand non sia completamente riuscito al proprio intento; intento che d’altronde egli non si pose ben chiaramente, ove non sia proprio quello di inaugurare il genere «romanzo finanziario». Ciò non crediamo, anche se al suo apparire questo romanzo venne salutato in Francia in questo modo e benché il suo sfondo e il suo Deux ex machina voglia essere il commercio di danaro, limitato ad amar dell'affare per l'affare in Lewis ed assunto quasi ad eticità in Irène. Per creare, qualunque materiale è buono e, criticamente, se codeste catalogazioni servissero a qualche cosa, osserveremmo semmai e checchè si opponga che il romanzo finanziario esisteva di già. Ma il considerare l'opera d'arte da punti di vista troppo estrinsechi a noi non giova né conviene e ci contentiamo perciò di salutare in «Lewis et Irène» un'intenzione del Morand di sacrificare la parte più aggressiva della sua arte a un desiderio di maggior contenuto psicologico e ad una narrazione più riposata. Conati che cominciano ad incontrare la propria realizzazione in una novella (Les amis nouveaux, Nouvelle Revue Française N. 130 in cui il Morand, riprendendo a narrarci le sue «Nuits» con un tono più pacato, ci si rivela sempre più barometrico e sottile. Vastità d'attenzione e rarefazione d'appunti lo legano per importanza, nella moderna letteratura narrativa francese ed europea al suo collega in meteorologia intima Drieux Rochelle che ci presenza, oltre molte differenze di forma, un contenuto più freudiano e relativista.
Adriano Grande.