Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Girardoux
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Forse l’opera di Jean Giraudoux è ora, nella stima de’ suoi conterranei, un poco in ribasso. Apparsa sotto una buona stella, cara fin dal principio a Gide, ma certo nemmeno allora ostile alla comprensione dei critici più ufficiali, ha meritato una non disprezzabile risonanza. Negli anni della guerra s’è potuta valere di qualche pausa che ha saputo riempire di accenti così pacati e quasi leggiadri, da far concorrenza a quella di Paul Géraldy nel consolare il facile sentimentalismo di una nazione ferita. Ma dopo, col ritorno della Nouvelle Revue Française, e il passaggio alla notorietà di Gide, Proust, Valéry, è rimasta nell’ombra; donde non la potevano trarre, sia detto sùbito, i suoi ultimi libri.
Ma quella prima diffusione, senza che potesse aver caratteri di rapidità e di violenza, era stata assai efficace. Non che Giraudoux si possa chiamare maestro; nè, crediamo, che altri autori abbiano avuto col suo esempio un aiuto profondo. Ma il suo modo, che non ha nulla di segreto né di repulsivo alla vista, s’è facilmente inserito nella mente dei lettori anche più trascurati e sbuca fuori, in tutti i climi e a qualunque stagione, nel discorso comune con un’implicita grazia che riesce perfino a parer spontanea. La breve fantasia che serve per far quattro chiacchiere, ci vuol proprio poco a piegarla in maniera «giraudoulcicnne» — anche meno di quella tensione che ci voleva per intonarsi, parecchi anni or sono, a una «miévrerie» rostandiana; basta pigliare gusto a un giuoco di trasposizioni tra oggetti familiari e vicini, saltando gli aggettivi che li unirebbero, e sorprendere gli ascoltatori con la sostituzione dei nomi invece che con la coloritura delle imagini. C’è il caso che essi credano a una mutazione repentina di cose, a un vero giuoco di bussolotti: ma i nomi, nella mente del prestigiatore eran fra loro tutti legati.
Sé, quando Susanna dice di Claudel «toutes ces apparences.... Claudel, après les avoir meurtries en un point attachait là du moins une comparaison, qui se remplissait aussitôt, par je ne sais quelle loi des vases comunicants, de sang, ou de sève, de résine, de liquides premiers». Giraudoux vuol segnare una sua propria «ars poetica», questa rimane nel paradiso delle intenzioni. Nella materia in cui egli lavora non ci sono ammaccature perchè non c’è corpo: è una fragilità che si rompe fra le dita. In una visuale senza spessore, senza piani, senza urti non è da pensare un’esigenza di continuità, e nemmeno di durata. Non gli appaiono, non lo dominano le cose, ma i loro segni, le parole, adatti al commercio e alla misura; e si sa che questi sono fungibili. Perciò l’unità del suo, come si suol dire, mondo è proibita e legittimata dal suo linguaggio; e dunque compresa fra termini assai ampi, dove, senza un po’ di rigore e di povertà volontaria, ci si può perdere ch’è un piacere. Un puro letterato non ha mai, d’altronde, nè altra mira nè altri strumenti; chi s’è educato sulle parole, le prediligerà sempre, e per ogni contatto se ne farà uno schermo. La novità di Giraudoux sarebbe quindi d’essere il letterato dei tempi moderni.
Moderni, non so preciso quello che voglia dire. E’, per forza, il letterato della sua vita, la quale però non s’identifica con la nostra: poiché noi non siamo funzionari diplomatici, nè studenti in un «Lycée» parigino, nè professori ventenni a giro per il mondo; poiché sopra tutto non siamo francesi. In lui s’è impresso uno stampo là, nell’«école du sublime» (come facile! che fiorito cammino, che placida temperatura. Sull’Olimpo ci si va in carrozza), gli s’è istillata traverso l’adolescenza studiosa una pace, che gl’indora il ricordo infantile e il luminoso centro della sua terra, dove nacque. Non lui si lamenterà che la carne è triste quando si son letti i libri, nè parlerà del «bagaglio» degli studi. Agile è la memoria; pronta e precisa quanto i muscoli nelle gare sportive. Il primo della scolaresca, non cade dubbio, è lui: non se ne vorrà più scordare, come d’un diritto acquisito. La scuola è il tirocinio della vita: ma per lo scolaro modello, e nostalgico, la vita è un’appendice, un ampliamento, uno sfruttamento della scuola. La storia letteraria, ma anche le nozioni degli altri manuali, gli son sempre presenti; le sue variopinte scienze naturali gli fioriscono un’isola giù nel Pacifico, la sua controllata geografia lo crea quasi improvviso psicologo dei popoli. Davvero, io non so di uno scrittore più «classico».
E’ noto che, presso i francesi, classico è una specie di sinonimo di francese. Per una strana fobia della modernità, per un disagio assai romantico della vita corrente, essi sono tratti però a esiliare il significato di quella parola a tempi antichi, a un ideale fisso che è per loro come una aurea fermata della storia. Sarebbe assurdo che noi stranieri si accettasse questa misura; liberi da esigenze pratiche, e vogliosi soltanto di conoscenza, noi si ha bisogno di vedere un volto vicino, e mobile; non ci è apparso mai tanto gentile, quanto nell’accurata truccatura di questo autore.
Sarebbe però falso credere che egli metta il suo impegno a essere rappresentativo; mediante le diverse figure fissando la stessa mira e segnando una medesima linea, si dica debole o pigro, patetico o indifferente, Giacomo è pur sempre egoista; tanto candidamente che non ha da imporre la propria volontà sugli altri e sulle cose, poiché non si accorge nemmeno che si possa esser tratti a toccarle o a capirle con violenza. Sono intorno a lui, come le liquide fantasie del suo mattino. Gli sfondi hanno sempre un che di augurale, le persone sembrano, nei gesti, propiziatrici: come se l’intelligenza a tutti che le si accostano facesse l’obbligo d’un dono. La chiarezza, per tutto diffusa, è senza presentimento; i ricordi, che sono i motivi e l’unico patrimonio d’ogni creatura, le si librano intorno esigui, con una loro trama sottile, per cui non l’interessa nè il sole nè il calore. La somiglianza delle persone con il paesaggio, il loro gusto elementare e parco, la leggerezza delle mosse, è la continua riprova d’una premeditata armonia, che non sarà certo nella terra e nei costumi di Francia, ma nell’estremo artifizio della sua civiltà.
L’universalità anodina e vacua che dovrebbe contrassegnare uno scrittore come lui avvitato sulle parole e sulle loro relazioni, logiche e armoniche, («l’univers était couvert pour lui plus que pour tout autre d’une croûte verbale qui lui cachait les gouffres du chaos...») gli è vinta da una predilezione assai attenta per certi stati mentali, che son come gli ultimi frutti d’un clima sapiente. C’è al punto culminante e indiscutibile d’ogni tradizione, per chi vi è immerso, quasi una nuova nascita; un istintivo approppriarsi di beni ormai levigati, che hanno in sè riassorbito e annullato per fino la memoria delle fatiche durate per loro. Dell’innocenza, intesa in un senso vicino alla caricatura, ma che non ha bisogno di maschere nè di scuse perchè la circonda nel costume di tutti tanta gentile aspettativa, Giraudoux è il poeta, ironico a mezzo, per metà preso nella dolcezza del suo giuoco. Se «Simon le Pathétique» ancora la pone, come un bene quotidiano e passeggero, nel centro di Parigi, e pronta a piegarsi nel finale incerto, melanconico; la isola invece Susanna che, piena di civetteria, sa predisporsi un così onorato e tempestivo naufragio; e la vorrà espandere in quel mondo sconosciuto, al cospetto delle cose elementari e divine, a gara con l’assurdo. Ma per quanto imagini, anche là nell’oceano tropicale, e anzi con imprevisto vigore, appena un po’ meglio fissata sotto la luce, gli si apre la Francia.
«Car heureux qui devine le mot esquimau qui veut dire Glace, le mot anglais qui veut dire Marmelade, le mot français qui veut dire Honneur». Noi scopriamo in questa esaltazione una sfida, e magari una volontà di strafare che denota un’insincera sicurezza; gli si volge poi in sapore troppo involontariamente amaro quando si metta a trattar le cose degli altri (per quanto può entrare nel suo tono, un vero e proprio odio verso l’America, che ha voluto per di più canzonare col titolo di «Amica»; e i complimenti speciali a noi, bisogna segnarli: «tu me défendras des ruffians à Venise, des faquins à Verone; tu me protégeras des tranvieri dans les tramways, des controllori dans le train. Voici que je ne serai plus désormais dans la vie, à Naples en face des camorristi, à Rome en face des teppisti...»). Una cieca tendenza del suo gusto lo ha indotto a situare all'estero parecchie scene che, nella sua opera, pesano maledettamente, dove si direbbe che abbia voluto imitare il suo tanto diverso compagno Morand; i moti convulsi, le morti vere e una stupida morte finta, vedi «Siegfried et le Limousin» e l'appendice: «Visite chez le Prince». Il bell'ordine della sua terra non sopporterebbe tali brutture.
In essa i risvegli: «le soleil rayonnait sur le pays à idées claires» e le acque; i lucidi canali, le strade maravigliose dagli alti oppi simmetrici. In essa il lungo costume di vita civile che ha fissato per ogni funzione una figura d'uomo e una diversa dignità. Si dimentichi il peso della vita catalogata e ufficiale e l'ombra meschina in cui tanti esseri faticano a vivere, cercando d'adoperare le passioni, orgoglio, invidia, ira, amore, in un cerchio piccino dove uno sguardo appena intinto di scetticismo creerebbe la libertà. Per un credulo dilettante quel è Giraudoux non sussistono aspirazioni: di quel mondo si fida, gli sembra un organismo perfetto. Siccome le sue intenzioni sono artisticamente pure, non si può negargli ascolto; nè si può dissimulare la simpatia a che la persuasiva bontà del suo mestiere c'induce.
Privo di potenza lirica e, diciamo pure, di libertà nelle sue creazioni, egli rivela in ogni sua pagina l'assidua e diligente sua natura; così placato e così uguale, evoca una lunga storia nel suo momento più denso; quando la facoltà d'astrarre e di distinguere s'è fatta impulso spontaneo. Chi volesse un esempio della sua regola, bisognerebbe per forza rimandarlo al racconto di Susanna che è, ridotta ad un punto sperduto e a una abbandonata persona, come un modello di città e di società espressa dalla natura. La fanciulla, segregata dalle prove umane e da ogni confronto, è veramente un placido Iddio che, col suo sguardo appena, dimostra l'impossibilità del disordine e dell'istinto bruto. E i ricorrenti rumori, le fastose ma benigne arborescenze, i serti smaglianti delle piume, che cosa sono se non un commento, una decorazione sagace? Come in un minuto smalto limosino, ivi è l'eco, e la lode, del suo cuore.
Umberto Morra di Lavriano.