Il Baretti - Anno II, n. 8/James Joyce
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JAMES JOYCE
«Con la guerra anglo-irlandese, condotta parallelamente alla guerra continentale, una prima fase del Rinascimento letterario finiva. Un’altra incominciava. A Trieste».
Così Valerio Larbaud, concludendo nella Nouvelle Revue l’ultima polemica su Joyce che mi sia venuta sott’occhio: e quel nome di Trieste avventurosamente lanciato nella letteratura irlandese è anche la ragione per cui mi arrischio a parlare di questo tanto difficile scrittore d’Irlanda. Della letteratura irlandese, no, non oserei: ma in verità, da quando ho conosciuto Joyce, non ho mai pensato di poterlo restringere nella letteratura irlandese. Avrei potuto pensarlo quando egli mi era noto soltanto di nome, come un professore di lingua inglese all’Accademia di Commercio di Trieste, per quella restrizione che si suol mettere — prima d’aver torto — alla letteratura dei professori. Ma conosciuto l’uomo, e poi lo scrittore, l’ho sempre trovato congiunto con tutto l’occidentalismo europeo, e non con le epoche dalla storia d’Irlanda. Egli stesso del resto, nel suo cosmopolitismo, non mi sembra aver dato proprio all’elemento irlandese nella letteratura un’eccessiva importanza. Il giovinetto eroe del Portrait of the artist, che è poi lui stesso, lascia volentieri altercare i compagni sui primati irlandesi, e accetta l’alterco soltanto sul primato di Newman nella prosa e di Byron nella poesia. Altra cosa è l’aver riconosciuto nell’Irlanda, e più propriamente in Dublino, il solo teatro possibile della sua rappresentazione della vita: qui v’è dell’irlandese invero, e v’é fortemente. Un uomo come lui sempre lontano dalla patria, di là partito a vent’anni, sbarcato a Pola per caso, vissuto dieci anni a Trieste, indi a Zurigo quanto fu lunga la guerra mondiale, rappresentato in un teatro di Monaco prima che riconosciuto nel suo paese natale, avrebbe potuto trasferire su questa o su quella città il suo acuto spirito di osservazione degli uomini e delle atmosfere che essi impregnano di loro: si ricondusse invece con ogni opera d’arte, all’Irlanda, quasi riconoscendola indivisibile dalle sue impressioni prime, più fresche, più midollari, più vicine alle radici della vita, e in essa ricondensando quanto gli era venuto dalla sua esperienza universale. In questo senso fortemente biologico, e non in senso letterario, egli è rimasto irlandese.
In senso letterario egli è oggi Ulysses, vale a dire il viaggiatore che ha saputo tutti gli approdi. Ma di questo più tardi. Il fatto è elle mentre egli insegnava la lingua inglese a tutta una generazione di triestini (tanto che temeva di non più trovare chi avesse bisogno d’impararla), scriveva a Trieste la maggior parte dei suoi libri pubblicati finora, avendo sempre nel pensiero e negli occhi Dublino. A Trieste furono scritte le novelle Dubliners, a Trieste il Portrait of the artist as a young man, e qui ancora, tornato Joyce dopo la guerra, un grosso fascio di capitoli d’Ulysses; soltanto il dramma Exiles, se ben ricordo, fu scritto a Zurigo: tuttavia nulla di triestino in tanta opera letteraria, compiuta nella città dove la giovinezza dell’artista si era maturata per ben dieci anni: tranne qualche sboccato gergo del dialetto di Trieste gettato nel caleidoscopico poliglottismo d’Ulysses. La realtà viva era per Joyce rimasta lontana. L’uomo a cui piace ogni luogo di questo mondo dove si trovi bene, cioè che gli lasci un respiro di libertà, aveva conservato la sua indipendenza dal sovrapporsi delle vicissitudini esterne. E non già rifuggisse dall’accostamento spirituale coi luoghi che l’ospitavano. Trieste gli era oltremodo simpatica. Amava gli italiani e il vino italiano. Leggeva fedelmente le cronache drammatiche di Giovanni Pozza sul Corriere della sera e le lodava di molto acume. Ma conservava il senso di distacco del benevolo osservatore straniero, che escludeva ogni assimilazione, Era l’uomo abituato a stare in una nazione senza disdire la sua stanza all’albergo, per quanto ci stesse dieci anni. Perfino quel fenomeno letterario nostrano, il futurismo, che eccitò in lui un interesse più vivo per il tono radicale dei propositi e la taglienza del tratto, non credo violasse in alcun modo la sua indipendenza agnostica, decisa a non lasciarsi infautare.
E dico non credo, perchè se ho conosciuto Joyce, non l’ho conosciuto molto. La prima volta che ho avuto da fare con lui, è stato per avermi egli desiderato consigliere di lingua in alcuni articoli, che scriveva per il Piccolo della Sera, in italiano. Non ci trovammo discordi che sopra una parola sola: ma aveva ragione lui, e me ne persuase. Scriveva un italiano non molto articolato, ma che non faceva torto al suo ingegno e non intimidiva la sua originalità. Ora, poiché la sua felice natura gli diede modo di impossessarsi così di diciotto lingue, dal greco antico al moderno e dall’arabo al danese, si capisce che la vita delle nazioni dovesse essere vita d’albergo per il suo cervello. Lanciato sopra un’orbita d’universalità, doveva pure avere un centro di riferimenti individuali: Essa stava in mezzo all’Oceano, ma con una straordinaria consistenza di terraferma. Ivi si potevano depositare e saggiare sul vivo degli uomini le esperienze raccolte nel giro del mondo.
Chiesi un giorno a un inglese, quando Joyce era ancora soltanto l’autore del Portrait of the artist, che cosa i suoi connazionali specialmente ammirassero in quel bellissimo libro. Egli mi rispose senza esitazione: — La prosa. E’ nuovo per noi trovare chi scriva senza affettazione con tanta musicalità, con periodi così plastici e di così melodiosa cadenza. — Qualità d’artista insomma; del «giovane artista» che James Joyce affermava e voleva in sè. L’uomo a cui mi ero rivolto non apparteneva alla specie dei critici; incarnava l’intelligenza nella media cultura normale. Non dunque elementi di scandalo per ragioni di sensualità, o per qualche prima sbottata d’immoralismo beffardo o di turpiloquio (rare nella cristallina giovinezza del libro), o per il dibattito del problema religioso, che ha sempre su la mente nordica un’arrabbiata possanza; non dunque elementi di commozione per la squisita sensibilità e la sottile fragranza di tante di quelle note autobiografiche; sì nei lettori inglesi il senso dell’artista operante con un nuovo ed arcano magistero di musica. Joyce è infatti un grande amatore della musica, e sopra ogni cosa predilige il canto corale chiesastico. Lo ricordo intonante a sera i temi liturgici, dopo aver vuotato il fiasco di Chianti bianco (dev’esser bianco) nella casa del suo amico toscano Alessandro Francini-Bruni, che divise molte vicende della sua vita e fu il primo a scrivere di lui in Italia. Questa passione per la musica sacra gliela ha messa in cuore la scuola cattolica frequentata fin dall’infanzia, e pur essa tiene ancora il romanziere a sè legato. Non per essa soltanto. Anche per lo spirito disquisitivo, teologico, lo tiene legato; e per la curiosità di ciò che è peccaminoso scoprire nella vita dei sensi; e per la coscienza che nell’esplorazione realistica dell’animo umano è un alcunché di ribelle: onde la esasperata e desiata voluttà dell’abbandonarvisi. James Joyce ha fatto nel Portrait la più bella descrizione dell’inferno che esista nei tempi moderni; ma non è ben certo che egli non creda all’inferno. Non importa che la suggestione cattolica sia sorpassata nello svolgimento mentale, e che il prevalere dell’artista secondo il rito di natura di Melchissedec sia il nucleo dell’autobiografia giovanile: quella suggestione è stata un giorno padrona dell’uomo nel profondo dell’incubatrice gesuitica, ed ha lasciato in lui incancellabili impronte, la si ritrova come reagente su le sensazioni e come disciplina del raziocinio; la si ritrova quando meno si aspetta; la si ritrova anche nella baldoria del vagabondaggio spirituale d’Ulysses.
Fra quanti libri strani possiede la letteratura moderna, è Ulysses il libro più strano in cui io mi sia mai imbattuto. Dal caos dell’uomo odierno trae un monumento. Monumentale è la sua mole, e nessun libro più di esso è vicino a un poema. Lo spirito beffardo e mefistofelico di Joyce, a un ingenuo lettore che gli chiedeva perchè lo avesse intitolato Ulysses, rispondeva, (così mi fu narrato): «È’ questo un metodo di lavoro». Pare una mistificazione feroce; e in fondo non è. Quel libro dall’irregolarità trionfante, che può parere perfino informe, in verità è tessuto con un rigore di metodo del quale i moderni hanno perduto la pazienza e perfino il desiderio. Se è così vicino ad un poema, ciò accade perchè realmente esso ricalca i passi di un poema, del più bello e più grande di tutti i poemi, l’Odissea. Ricalca con l’andatura invertita della parodia; si appoggia al poema omerico, canto per canto, ma per amplificarlo nell’atmosfera parodiante fino a proporzioni enormi, introducendovi come strumenti analitici tutte le forze di conoscimento che sono in possesso della mente umana di questa età. Esso mira come l’Odissea, alla totale esperienza dell’uomo, se pur sotto un ostinato riverbero ironico. L’Ulisse classico aveva a quella prova bisogno dell’ampio mare, con i continenti e le isole; all’Ulisse moderno basta una grande città. L’Ulisse classico errava per dieci anni, di avventura in avventura, il moderno riassume in un giorno solo tutta la prova: ora per ora: ogni ora un canto. Giacché il moderno ha di ogni minuto molte più cose da dire che non l’antico; la tastiera della sua sensibilità è più ricca di suoni, e l’enciclopedia del suo sapere è più ricca di volumi. Descrivere le ore di un giorno vissuto nel secolo ventesimo significa scrivere un volume di mille pagine. Joyce lo ha fatto. Vi sono ore di risveglio fisico, ore socievoli, ore intellettuali, ore sensuali, ore musicali, ore contemplative, ore dello stomaco ed ore del basso ventre, ore dell’ebrezza, ore della folle fantasia, ore della stanchezza, ore lubriche, ore mareggianti di sogni liquidi, sui quali naviga senza timone il cervello decomposto del sonno. Sono ore variate e immense, chi noti tutto. L’uomo non cessa di credersi saggio, perchè esse variano e tumultuano. Ognuno ha il suo canto. Ed ognuna ha il suo stile.
La scomposizione sperimentale (questo demone dell’arte moderna) investe difatti anche quella che pareva la prerogativa inviolabile dell’opera d’arte: l’unità stilistica. Il poema assume deliberatamente, in ogni canto, altri ritmi di stile: gli arcaici e gli ultramoderni, gli accademici e i futuristi, i lirici e i drammatici, i biblici e i popolareschi; infine anche i caotici, senza interpunzioni, senza periodi, senza legamento, quando vuole ritrarre un cervello femminile monologante nel sonno. La vita è un vario concerto; non si può istituire l’unità di registro nel mondo della molteplicità. La creazione artistica non ha i doveri di una filosofia, anche se assorbe frammenti di filosofie nella sua rappresentazione. Il problema della forma, appunto perchè disintegrato continuamente risolvendolo caso per caso, è presente continuamente. Vale a dire il problema essenziale dell’arte. Joyce è un artista. The portrait of the artist. La sua rappresentazione del mondo è quella d’un artista. Gli atomi di vita che egli coglie nel suo pellegrinaggio, che egli drammatizza nell’azione incessante degli stimoli nervosi in contrasto, ricevono la forma sensibile della sua imaginazione, ma eccitano questa traendola nella loro indisciplinata fatalità. L’artista crea sè stesso operando. Il ciclo del mondo é il suo ciclo intimo: è un’evocazione turbinosa dalla vasta profondità della sua memoria per possedere l’intero presente. Tutto scorre. Ma nulla sarebbe di questo tutto, se non fosse detto nella forma del linguaggio umano che più ne è compenetrata, che meglio comunica vitalmente con esso.
Da ciò la straordinaria sfaccettatura dello stile multiplo di Joyce nell’Ulysses. Tutto il possesso mentale dell’artista gli è elemento di creazione. Come le scienze fisiche e le speculative, la teologia e la biologia, le arti e le letterature, le intuizioni psicologiche e i raziocini matematici, concorrono in tutti i modi, per azione diretta o per imagine, alla sua evidenza rappresentativa, così la ricchezza glottologica che egli ha accumulato in sè gli fornisce la lingua di cui ha bisogno, più ricca di espressioni e di colori. La lode che gli fecero i critici unanimi fu quella di aver esteso in maniera mai pensata il dominio della lingua inglese. Ma egli ha varcato anche questa. Ha introdotto in essa frammenti vividi d’altre lingue, d’altri dialetti, modi incisivi, locuzioni, tessere scintillanti, dalle tante lingue, dalle tante letterature, dalle parlate stesse popolari, che il suo poliglottismo s’è assimilato. Ha preso la vita dove fosse. L’unità linguistica subisce lo stesso trattamento dall’unità stilistica: l’autore non deve farsi pregiudizi; il mosaico non deve rinunciare ad alcuna possibilità di ravvivarsi, l’orchestrazione ad alcuna ricchezza di timbri; enciclopedismo e cosmopolitismo hanno tavolozze ed orchestre più copiose che l’ascetico purismo letterario di razza. Il protagonista del libro è un ebreo, espatriato, curioso e bramoso, mite cittadino fra i dublinesi e cittadino dell’orbe. Stefano Dedalus, il giovine artefice del Portrait, non domina più qui in prima persona, ma rimira nell’individuo infinitamente composito lo spettacolo della creazione incessante. Dio, che nelle ultime battute del Portrait egli ha invocato a fargli vedere il mondo, lo sbalordisce con la versatilità del mondo in azione.
Accanto a questo panoramico Ulysses, dalle proporzioni gigantesche, sembrano minori non solo di dimensioni, ma d’animo, le altre opere precedenti che pure a Joyce hanno dato la fama: le novelle Dubliners, il Portrait of the artist, il dramma Exiles. Esse sono un poco Tanhëuser e Lohengrin dinanzi alla Tetralogia: contengono tutti gli elementi che poi precipiteranno l’uno nell’altro ed efferveranno nella completa espansione. La loro definitività diventa da assoluta relativa allorché Ulysses matura. La sottigliezza psicologica delle novelle e la loro indagine tormentata nei caratteri della razza, il lirismo intelligente del Portrait, la impostazione problematica ibseniana di Exiles, pervengono ugualmente nella loro esplorazione della vita ad una zona d’intollerabile turbamento, che potrebbe risolversi in un grido d’angoscia o in un fremito di profonda pietà. Sembra che l’autore debba far forza su se stesso per non squilibrarsi dalla serenità limpida nella quale si spazia. E’ la serenità estetica, l’apollineo cielo dal quale l’artista s’immerge nel mondo che vive, e guarda in sè stesso quando in lui é ancora la paziente innocenza del mondo. Questo apollineo cielo ha comunque, per l’uomo del nordico occidente, una lucidità più fredda, una più tagliente trasparenza, che non sia quella della voluttuosa contemplazione estetica nostra. Il perfetto impassibile equilibrio vi diverrebbe avidità a lungo andare. Deve risolversi. Si risolve nell’Ulysses, non nel grido d’angoscia o nel fremito di pietà, ma nel senso del sarcasmo e dell’ironico compatimento. Dentro al caos della vita s’insinua uno spirito bizzarro che ride. Fosforeggiava a tratti, nelle prime opere, malizioso, petulante, acrobatico, tosto represso dall’incantamento su di un volo di rondini o su di una musica d’organo. Nella grande Tragicommedia d’Ulysses esso si sprigiona tutto, divenuto organico, pullulante ed irrefrenato, e decide che la commedia prevalga, e sia condotta da un demonio.
Silvio Benco.