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-stallina giovinezza del libro), o per il dibattito del problema religioso, che ha sempre su la mente nordica un’arrabbiata possanza; non dunque elementi di commozione per la squisita sensibilità e la sottile fragranza di tante di quelle note autobiografiche; sì nei lettori inglesi il senso dell’artista operante con un nuovo ed arcano magistero di musica. Joyce è infatti un grande amatore della musica, e sopra ogni cosa predilige il canto corale chiesastico. Lo ricordo intonante a sera i temi liturgici, dopo aver vuotato il fiasco di Chianti bianco (dev’esser bianco) nella casa del suo amico toscano Alessandro Francini-Bruni, che divise molte vicende della sua vita e fu il primo a scrivere di lui in Italia. Questa passione per la musica sacra gliela ha messa in cuore la scuola cattolica frequentata fin dall’infanzia, e pur essa tiene ancora il romanziere a sè legato. Non per essa soltanto. Anche per lo spirito disquisitivo, teologico, lo tiene legato; e per la curiosità di ciò che è peccaminoso scoprire nella vita dei sensi; e per la coscienza che nell’esplorazione realistica dell’animo umano è un alcunché di ribelle: onde la esasperata e desiata voluttà dell’abbandonarvisi. James Joyce ha fatto nel Portrait la più bella descrizione dell’inferno che esista nei tempi moderni; ma non è ben certo che egli non creda all’inferno. Non importa che la suggestione cattolica sia sorpassata nello svolgimento mentale, e che il prevalere dell’artista secondo il rito di natura di Melchissedec sia il nucleo dell’autobiografia giovanile: quella suggestione è stata un giorno padrona dell’uomo nel profondo dell’incubatrice gesuitica, ed ha lasciato in lui incancellabili impronte, la si ritrova come reagente su le sensazioni e come disciplina del raziocinio; la si ritrova quando meno si aspetta; la si ritrova anche nella baldoria del vagabondaggio spirituale d’Ulysses.

Fra quanti libri strani possiede la letteratura moderna, è Ulysses il libro più strano in cui io mi sia mai imbattuto. Dal caos dell’uomo odierno trae un monumento. Monumentale è la sua mole, e nessun libro più di esso è vicino a un poema. Lo spirito beffardo e mefistofelico di Joyce, a un ingenuo lettore che gli chiedeva perchè lo avesse intitolato Ulysses, rispondeva, (così mi fu narrato): «È’ questo un metodo di lavoro». Pare una mistificazione feroce; e in fondo non è. Quel libro dall’irregolarità trionfante, che può parere perfino informe, in verità è tessuto con un rigore di metodo del quale i moderni hanno perduto la pazienza e perfino il desiderio. Se è così vicino ad un poema, ciò accade perchè realmente esso ricalca i passi di un poema, del più bello e più grande di tutti i poemi, l’Odissea. Ricalca con l’andatura invertita della parodia; si appoggia al poema omerico, canto per canto, ma per amplificarlo nell’atmosfera parodiante fino a proporzioni enormi, introducendovi come strumenti analitici tutte le forze di conoscimento che sono in possesso della mente umana di questa età. Esso mira come l’Odissea, alla totale esperienza dell’uomo, se pur sotto un ostinato riverbero ironico. L’Ulisse classico aveva a quella prova bisogno dell’ampio mare, con i continenti e le isole; all’Ulisse moderno basta una grande città. L’Ulisse classico errava per dieci anni, di avventura in avventura, il moderno riassume in un giorno solo tutta la prova: ora per ora: ogni ora un canto. Giacché il moderno ha di ogni minuto molte più cose da dire che non l’antico; la tastiera della sua sensibilità è più ricca di suoni, e l’enciclopedia del suo sapere è più ricca di volumi. Descrivere le ore di un giorno vissuto nel secolo ventesimo significa scrivere un volume di mille pagine. Joyce lo ha fatto. Vi sono ore di risveglio fisico, ore socievoli, ore intellettuali, ore sensuali, ore musicali, ore contemplative, ore dello stomaco ed ore del basso ventre, ore dell’ebrezza, ore della folle fantasia, ore della stanchezza, ore lubriche, ore mareggianti di sogni liquidi, sui quali naviga senza timone il cervello decomposto del sonno. Sono ore variate e immense, chi noti tutto. L’uomo non cessa di credersi saggio, perchè esse variano e tumultuano. Ognuno ha il suo canto. Ed ognuna ha il suo stile.

La scomposizione sperimentale (questo demone dell’arte moderna) investe difatti anche quella che pareva la prerogativa inviolabile dell’opera d’arte: l’unità stilistica. Il poema assume deliberatamente, in ogni canto, altri ritmi di stile: gli arcaici e gli ultramoderni, gli accademici e i futuristi, i lirici e i drammatici, i biblici e i popolareschi; infine anche i caotici, senza interpunzioni, senza periodi, senza legamento, quando vuole ritrarre un cervello femminile monologante nel sonno. La vita è un vario concerto; non si può istituire l’unità di registro nel mondo della molteplicità. La creazione artistica non ha i doveri di una filosofia, anche se assorbe frammenti di filosofie nella sua rappresentazione. Il problema della forma, appunto perchè disintegrato continuamente risolvendolo caso per caso, è presente continuamente. Vale a dire il problema essenziale dell’arte. Joyce è un artista. The portrait of the artist. La sua rappresentazione del mondo è quella d’un artista. Gli atomi di vita che egli coglie nel suo pellegrinaggio, che egli drammatizza nell’azione incessante degli stimoli nervosi in contrasto, ricevono la forma sensibile della sua imaginazione, ma eccitano questa traendola nella loro indisciplinata fatalità. L’artista crea sè stesso operando. Il ciclo del mondo é il suo ciclo intimo: è un’evocazione turbinosa dalla vasta profondità della sua memoria per possedere l’intero presente. Tutto scorre. Ma nulla sarebbe di questo tutto, se non fosse detto nella forma del linguaggio umano che più ne è compenetrata, che meglio comunica vitalmente con esso.

Da ciò la straordinaria sfaccettatura dello stile multiplo di Joyce nell’Ulysses. Tutto il possesso mentale dell’artista gli è elemento di creazione. Come le scienze fisiche e le speculative, la teologia e la biologia, le arti e le letterature, le intuizioni psicologiche e i raziocini matematici, concorrono in tutti i modi, per azione diretta o per imagine, alla sua evidenza rappresentativa, così la ricchezza glottologica che egli ha accumulato in sè gli fornisce la lingua di cui ha bisogno, più ricca di espressioni e di colori. La lode che gli fecero i critici unanimi fu quella di aver esteso in maniera mai pensata il dominio della lingua inglese. Ma egli ha varcato anche questa. Ha introdotto in essa frammenti vividi d’altre lingue, d’altri dialetti, modi incisivi, locuzioni, tessere scintillanti, dalle tante lingue, dalle tante letterature, dalle parlate stesse popolari, che il suo poliglottismo s’è assimilato. Ha preso la vita dove fosse. L’unità linguistica subisce lo stesso trattamento dall’unità stilistica: l’autore non deve farsi pregiudizi; il mosaico non deve rinunciare ad alcuna possibilità di ravvivarsi, l’orchestrazione ad alcuna ricchezza di timbri; enciclopedismo e cosmopolitismo hanno tavolozze ed orchestre più copiose che l’ascetico purismo letterario di razza. Il protagonista del libro è un ebreo, espatriato, curioso e bramoso, mite cittadino fra i dublinesi e cittadino dell’orbe. Stefano Dedalus, il giovine artefice del Portrait, non domina più qui in prima persona, ma rimira nell’individuo infinitamente composito lo spettacolo della creazione incessante. Dio, che nelle ultime battute del Portrait egli ha invocato a fargli vedere il mondo, lo sbalordisce con la versatilità del mondo in azione.

Accanto a questo panoramico Ulysses, dalle proporzioni gigantesche, sembrano minori non solo di dimensioni, ma d’animo, le altre opere precedenti che pure a Joyce hanno dato la fama: le novelle Dubliners, il Portrait of the artist, il dramma Exiles. Esse sono un poco Tanhëuser e Lohengrin dinanzi alla Tetralogia: contengono tutti gli elementi che poi precipiteranno l’uno nell’altro ed efferveranno nella completa espansione. La loro definitività diventa da assoluta relativa allorché Ulysses matura. La sottigliezza psicologica delle novelle e la loro indagine tormentata nei caratteri della razza, il lirismo intelligente del Portrait, la impostazione problematica ibseniana di Exiles, pervengono ugualmente nella loro esplorazione della vita ad una zona d’intollerabile turbamento, che potrebbe risolversi in un grido d’angoscia o in un fremito di profonda pietà. Sembra che l’autore debba far forza su se stesso per non squilibrarsi dalla serenità limpida nella quale si spazia. E’ la serenità estetica, l’apollineo cielo dal quale l’artista s’immerge nel mondo che vive, e guarda in sè stesso quando in lui é ancora la paziente innocenza del mondo. Questo apollineo cielo ha comunque, per l’uomo del nordico occidente, una lucidità più fredda, una più tagliente trasparenza, che non sia quella della voluttuosa contemplazione estetica nostra. Il perfetto impassibile equilibrio vi diverrebbe avidità a lungo andare. Deve risolversi. Si risolve nell’Ulysses, non nel grido d’angoscia o nel fremito di pietà, ma nel senso del sarcasmo e dell’ironico compatimento. Dentro al caos della vita s’insinua uno spirito bizzarro che ride. Fosforeggiava a tratti, nelle prime opere, malizioso, petulante, acrobatico, tosto represso dall’incantamento su di un volo di rondini o su di una musica d’organo. Nella grande Tragicommedia d’Ulysses esso si sprigiona tutto, divenuto organico, pullulante ed irrefrenato, e decide che la commedia prevalga, e sia condotta da un demonio.

Silvio Benco.


PIERO GOBETTI - Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60

Novità:

ANIANTE

Vita di Bellini

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Una vita concepita al modo classico con grandi risorse di narratore e gusto d’arte.

Parole intorno a Rivière

Senza una ragione logica e per un periodo di tempo abbastanza lungo il mio scaffale di romanzi francesi ha ospitato l’Aimée di Rivière accanto al Dominique di Fromentin.

In omaggio alla verità dirò che l’intruso era Fromentin. Probabilmente, un giorno, avendo ripreso il suo volume per riscorrere qualche pagina, l’avevo poi rimesso a posto, senza volermi scomodare, là dove tra gli autori a portata della mia mano — quelli il cui nome principia colla lettera erre, — s’offriva un accoglievole spazio. Ma rimanendo poi serrati l’un contro l’altro, allo stesso modo che le bugne dei palazzi murati a secco si cementano tra di loro, i due volumi hanno finito col cimentarsi nel mio spirito e alla mia insaputa, e col trovarsi una simiglianza, non intrinseca, ma soggetta ai diversi casi che un dopo l’altro mi avevano indotto a scoprirli. E in realtà la mia scoperta di Dominique, vecchia di qualche anno, s’apparenta alla mia giovine scoperta di Aimée. Allo stesso modo ch’io vivevo persuaso di conoscere Eugène Fromentin attraverso la sua pittura e i suoi Maitre d’autrefois, sino a illudermi d’avere assimilato Dominique attraverso l’oscuro e pur comodo processo della tradizione, che immette di padre in figlio, per via di sangue, il senso essenziale delle passate civiltà, altrettanto Rivière m’era familiare per quel suo facile e vago nome nome che ornava la copertina della Nouvelle Revue Française al pari d’una sigla preziosa.

Chiedo scusa al benevole lettore se nell’immagine che mi s’era formata spontaneamente e che sta ora per uscirmi dalla penna avvelenata da tutti i dubbi dell’autocritica, si può risentire un pallido accento proustiano; tuttavia non è meno vero che alle nostre generazioni, avide di classicismo ma non dimentiche d’esser cresciute tra le due aure opposte e dolci del romanticismo e dell’impressionismo la parola rivière può affezionarci come la pietra che vorremmo legare nell’oro immaginario del nostro anello.

Costretti a una casa e a una biblioteca tiranniche che ci vietano di correre il mondo e d’obliarci in mezzo a un autentico paesaggio cinese, chi di noi non sogna la casa portatile e tuttavia piena dei ricordi infantili e delle immagini prenatali, e l’inesistente libro dei libri, il famoso livre de chevet, possedendo il quale si può salpare serenamente alla scoperta dell’ignoto, o meglio ancora la pietra preziosa e fatata nella cui luce consista ogni somma di sapienza, fatta per calmare tutte le seti quasi terrene, e le più sottili nostalgie dello spirito?

La primaverile apparizione di Madame Arnoux, di tra le pagine del capolavoro flaubertiano, si sposa, ne! ricordo che un po' la trasfigura, a un’immagine rivierasca, col suo cappello di paglia e con la sua bellezza inafferrabile, intrisa com’è, nel rapido passaggio, di sole e d’acqua, di gioia leggera e di rameggianti vegetazioni. Che importa se talvolta la rilettura d una pagina, al cui ricordo noi ci sentiamo trasportare in una regione che si ricrea sempre ugualmente materiata di colore e di musica, ci vorrebbe inchiodare alle più strette conseguenze della sua descrizione, e se non esistono dove noi le rammentiamo le umide frasche tremanti in un pannello amoroso d’acqua e di cielo? Quando un gigante dell’Ottocento francese, come Gustave Flaubert, un artista che si può definire un costruttore per eccellenza, traspira l’incanto medesimo delle pitture d’Auguste Renoir e divenendo un ponte tra il romanticismo e l’impressionismo colora e rende vibranti le proprie architetture di luce impressionista, dimostrando che l’impressionismo segnò, almeno in potenza, il punto più ardente, e commosso, e grande dell’arte francese? A questa rivelazione che l’anima francese fece a sè stessa attraverso Manet, Renoir e Cézanne, anche l’Italia dovrà una schietta gratitudine se, ammirando l’arrivo della sorella latina, e sapendone le ragioni intime, che trascendono ogni e qualsiasi pratica pitturale poiché appartengono allo spirito, si sveglierà cercando di rimontare dall’antica e tuttavia fresca radice della propria tradizione sino a esprimere la sua rinnovata anima moderna. Oggi non ci sia discaro d’offrire una festa d’amore alla Francia, e ci sia concesso di consacrarla in questa sorta di rito commemorativo svolto dinanzi all’arabesco cordiale racchiuso nelle sillabe di Jacques Rivière.

***

Ora Jacques Rivière è scomparso.

Egli ci lascia un preludio di romanziere (Aimée), uno di saggista (Etudes), uno di scrittore da cui non vuol dissociarsi l’uomo vivente nell’umanità, preoccupato di problemi civili e sociali (L’Allemand).

Tre preludi di un’opera probabilmente lontana, poiché Rivière non aveva nessuna caratteristica della precocità.

Albert Thibaudet, in una frettolosa nota scritta all’indomani della sua morte, diceva: « Le vrai monument de Jacques Rivière c’est la place vide qu’il laisse ».

E i tre preludi che egli ci lascia sono la sua levigata pietra tombale, la base sostanziosa del suo monumento d’aria.

Prima di Rivière era scomparso in Francia il precocissimo autore del Diable au corps e del Bal du Comte d’Orgel.

Pubblicando nella N. R. F. la seconda opera di Raymond Radiguet, Rivière, che del miracoloso giovinetto era del resto un ammiratore sincero, s’era chiesto verso quali sviluppi e quali conseguimenti potevano considerarsi naturalmente incamminati i suoi due romanzi. Domanda puramente teorica, dappoiché la morte di un artista ha sempre chiuso e saldato un ciclo, che può dapprima dolere alla giuntura, come una ferita, ma finisce poi col fondersi completamente, e poiché l’energia che occorre a creare un’opera d’arte, sia che appartenga a uno di quegli spiriti temprati d’attenzione e di ragionamento che avanzano in apparenza per graduali conseguenze di altrettanti naturali premesse, sia che si riscontri in creatori caratteristicamente impulsivi, è sempre d’una qualità miracolosa. Ma se la critica di ciò che non potè essere fatto rischia, attraverso le sue necessarie e gratuite supposizioni, di creare il fantasma di un’opera che non poteva essere, dimorando in questo suo sconfinamento, nel più puro teorismo, essa può rifrangersi sull’opera effettivamente esistente aiutandola a illuminarsi e a durare.

E mentre, guardando oltre il Bal du Comte d’Orgel noi ci sentiamo come investire dal vento di un vuoto e largo orizzonte, uscendo dalla descritta e concreta città di Aimée vediamo che una prospettiva di costruzioni fantastiche la continua, di costruzioni, dico, che si concretano a mano a mano che noi con la fantasia c’inoltriamo ad abitarle.

Come tutti i precoci, Radiguet ci aveva anticipato, magari in miniatura, l’opera della maturità. E la miniatura, in senso generico, del precoce, non ha la brevità o la discrezione delle miniature pittoriche.

Il termine si sottintende nel caso nostro un’accezione tutta morale, che davvero un tal genere di miniature, e in particolare l’ultima opera di Radiguet, hanno tutto l’èmpito orgoglioso e glorioso della giovinezza.

Aimée di Rivière, descrivendo il caso di un giovine timido e sensibile, innamorato della moglie e delle donne, e in cui l’immagine della moglie si vela a un tratto pur senza scomparire, ma così da vagamente indurlo nel cerchio di un altro amore che si dissolverà poi, senz’essere stato consumato, in una atmosfera di sogno, è invece, come si è detto, un saggio, un preludio.

Il fatto a cui Jacques Rivière s’è ispirato non poteva comprendere tutta la vita d’un uomo ma doveva riflettere, necessariamente un’« educazione sentimentale ».

Al suo cospetto i romanzi di Radiguet appaiono romanzi d’azione. Ed ecco Rivière confondersi quasi affettuosamente accanto alle pagine di Dominique e specialmente alle prime, dove le fucilate dei giorni di caccia detonano entro gli stupefatti giorni dell’estate, e dalle quali esala, come un’onda lenta di profumo, il senso di certe domeniche rurali.

Ma in Rivière il dramma umano è più sciolto ed essenziale. Le figure non si disegnano e non si sfumano su nessun paesaggio fronzuto, e nemmeno sopr’uno di quei cieli golosi che le appassionano e le suggon, e ne fanno parte di loro stessi. Le figure di Jacques Rivière fioriscono alla luce di nitidi interni ed è ammirevole come in un segno solo, realistico e leggero, i profili esprimano non solo la loro intima grazia, ma anche il riflesso del particolare amore nelle possibilità del quale un altro li concepisce e li scorge.

«Elle était assise à la même table que moi, et lisait; son profil se dessinait à contre-jour...».

Tale l’apparizione di Marta, la donna che doveva diventare la sposa di François, innamorandolo dapprima, senza ch’egli se ne renda conto, per quella sua aria d’ineffabile castità.

Infatti: «Rien dans ce profil ne me menaçait...».

Mentre prima: «chaque femme que je suivais si seulement elle avait pu se doter de la tempête qu’elle traînait dans son sillage?.

Abbiamo parlato, a proposito dell’opera di Rivière, d’un’immaginaria città, con un’aspirazione largamente simbolica chè, se di città si può discorrere a proposito di Rivière, non si pensa davvero a un fittame di popolo o di costruzioni. Scorrendo Aimée" ci troviamo in un ben esiguo e calmo dominio, dove possiamo ricordare in pace la fama di questo autore, quella che ci aveva già raggiunto quando ancora dovevamo scoprire la sostanza dell’opera sua e fantasticavamo sulle sillabe del suo nome.

Siamo legati alla meraviglia delle cose ch’egli ci descrive, e a quella loro intrinseca immaturità, che però, in sè stessa, non è meno riposata e perfetta.

C’era, in Rivière, un ragionatore assiduo e conclusivo, un temperamento d’uomo ordinato, senz’affanni scomposti, religiosamente fiducioso che l’avvenire sarebbe bastato al concretamento del suo sogno d’arte. In questa sua fiducia — e il suo romanzo lo dimostra — Rivière ebbe ragione, e il suo passato suppone un avvenire palese e presente, seppure non se ne abbiano materiali testimonianze.

Rivière era un artista a maturazione lenta, ma era, poiché aveva avuto tuttavia il tempo di affermare i principali caratteri della sua personalità in isviluppo, e la morte, strappandolo, non può fare ch’egli non sia stato.

Egli è, dunque, completamente, in un preludio che assume veste e calore di opera completa, senza perdere la sua lirica caratteristica di precedere a qualche cosa, talché la fantasmica città che si concreta ogni qual volta uno spirito fornito di senso critico si ponga a considerare i riflessi proiettati da Aimée, è vera, inseparabile dal suo breve volume.

Raffaello Franchi.


PIERO GOBETTI - Editore

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GIOVANNI VACCARELLA

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È il più recente saggio complessivo sul Poliziano visto alla luce della nuova critica. Il Vaccarella è uno dei nostri giovani critici più profondi.