Il Baretti - Anno II, n. 8/Il problema romantico

Luca Pignato

L'ottocento francese: Il problema romantico ../Parole intorno a Rivière ../Rupert Brooke IncludiIntestazione 10 settembre 2021 100% Da definire

Parole intorno a Rivière Rupert Brooke

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L’ottocento francese.

Il problema romantico

Non si potrebbe intendere il profondo travaglio della poesia francese dell’Ottocento senza riporre in termini precisi il problema delle sue origini.

Se si dovesse accogliere la prospettiva d’uso che vede il romanticismo francese risolversi, dopo una torbida decadenza, nel simbolismo, affermare cioè uno sviluppo Hugo-Mallarmé, il processo della poesia francese di tutto un secolo sarebbe da giudicare un’assurda involuzione.

Conclusione che naturalmente può far comodo a tutti coloro che amano semplificare la storia e riprovare per dippiù la loro incapacità a comprendere il nostro tempo che non è saltato fuori dalle accademie e non si fa facile secondo i nostri bisogni.

Infatti è diffusa opinione che Victor Hugo, al centro della generazione del 1830, abbia impersonato e risolto il romanticismo francese.

Non si ha difficoltà a concedere che l’Hugo abbia, a suo modo, impostato e risolto un problema. ma sul significato di questo resta ancora da intenderci.

Hugo credeva di far riconoscere una nuova tavola di valori estetici, perchè affermava la massima libertà dell’artista; ma, in realtà, egli non affermava che una vaga libertà dell’arte, spezzando l’unità dell’oggetto di essa. Non si ha più un oggetto, ma due: il bello e il brutto, il grazioso e il grottesco: e l’arte diventa il contrasto di essi, la loro antitesi: soluzione che quindi coincide con l’aspetto più caratteristico dello stile dell’Hugo.

All’idoleggiamento apollineo dell’oggetto - che è l’atteggiamento classico, e l’eredità del Rinascimento — si oppone sotto l’influsso inglese (l’Hugo scrisse un significativo quanto inconcludente saggio su Shakespeare) il bello orrido. Ma il classicismo non si era esaurito in una questione di contenuto, nè aveva limitato questo, ed investiva — come espressione come ideale di misura e d’armonia — tutto l’oggetto. Il romanticismo non riesce a contrapporsi ad esso e si lega ad una catena di derivazioni (si conoscono, in quel tempo, certi nomi divenuti popolari in Italia: Ossian, Swift, Richardson, Sterne, Young ecc.), nelle quali non si trovava un segno di civiltà e di universalità che potessero diventare europee.

La rivoluzione dell’Hugo era una rivoluzione rettorica e linguistica: dietro questi limiti può essere intesa. Essa, dunque, non poteva che identificarsi con lui e agire come influsso. E in questo senso operò notevolmente.

Questa è la ragione, per cui, scoperte subito l’inconsistenza ideale del romanticismo e la menzogna delle sue affermazioni di libertà (che doveva essere affermazione di pura liricità e fu, invece, orgia di moralismo), e rivelata l’identificazione romanticismo - Hugo («le romantisme, scrisse Leconte de Lisle, è « un art de seconde main, hybride et incohérent... comédie bruyante jouée au profit d’une autolâtrie d’emprunt »), liquidato, cioè, criticamente il trucco, l’Hugo restò in piedi e il suo influsso continuò a farsi sentire anche sui suoi oppositori (è il caso di Leconte de Lisle).

Il semplicismo della sua filosofia e del suo stile era rivelato dai suoi ultimi libri in una forma autocritica. L’aneddotismo iperbolico de La légende des siècles culminava in un profetismo grossolano o si banalizzava ne L’art d’ètre grand-pére; nel Pape o nell’Ave il gioco delle antitesi, diventato concettismo, era spinto a tal punto da diventare involontariamente umoristico. L’egocentrismo dell’Hugo non è un’affermazione di soggettivismo, ma il corollario di un oggettivismo incapace di farsi epica e dissolto nell’empirismo: egoistico, dunque.

Il romanticismo francese è una degenerazione oratoria dell’illuminismo, il quale attraverso Stendhal si faceva qualità europea, ed elevava la grazia francese a finezza di spirito. La cornice romantica (cioè, pittoresca) in Stendhal non sfugge nemmeno essa a quel gusto di realismo psicologico che la scrittura sobria e precisa illumina tutto. Egli è veramente l’ultimo classico d’istinto, per il quale la realtà non sia malizia o sforzo.

Il Flaubert che vorrà ritentare l’esperimento stendhaliano, testimonierà l’impossibilità di attingere l’ideale classico come proposito. Il Flaubert non ha più cognizione concreta dell’oggettivismo dello Stendhal, pel quale il mondo non esclude lo scrittore, ma per cui anzi lo scrittore è nell’oggetto, e al centro di esso e ne è il motore.

Flaubert esclude sè dal suo mondo e si contrappone ad esso. Sono i due «bonshommes», di cui parla in una sua lettera, il lirico «épris de guelades» e il realista «qui aime à accuser le petit fait aussi puissament que le grand». E’ l’oggettivismo come stile. Non si può ripensare senza amore a questo scrittore tormentato da un tragico bisogno di disciplina, e sacrificante sè ad essa. Perchè la Correspondance vale in blocco tutta l’opera di Flaubert. Lo scrittore non è un mezzo: Flaubert si è considerato e, purtroppo, realizzato come strumento per delle rappresentazioni, la cui lucidità non esclude la miseria della banalità.

La fortuna del romanticismo fu fondata sull’equivoco dell’affermazione della libertà dell’arte. Ma neppure in Germania si giunse a ciò. Il Baudelaire, tuttavia, mostrò di credervi in un primo momento.

«La France aime le mythe, la morale, le rébus; ou, pour mieux dire, pays de raisonnement, elle aime l’effort de l’esprit. C’est surtout l’école romantique qui a reagi contre les tendances raisonnables et qui a fait prevaloir la gloire de l’art pur... de l’art pour l’art» (L’art philosophique).

Ma il romanticismo era Hugo. E l’Hugo non era uomo da veder queste cose: troppo semplice, egli era « appuyé sur une sagesse abrégée, faite de quelques axiomes irréfutables» (Victor Hugo). Tutta la sua opera, dal punto di visto lirico, non offre che qualche breve riposo; essa è orgiasticamente visiva e plastica; manca di ogni interiorità.

La legénde des siècles appariva ai contemporanei un’opera gigantesca, ma il Baudelaire avvertiva l’ibrido volontaristico della concezione, la sua epicità puramente decorativa, il suo larvato moralismo. La lingua francese sembrava rifusa interamente: un nuovo tipo di orchestrazione sinfonica. Ma l’affermazione dell’arte pura restava un pio desiderio del Baudelaire. Questi se ne accorse quando si pubblicarono i Misérables: il suo elogio di questo libro assume talvolta un tono inconsapevolmente ironico. Esso era la negazione di quella disciplina, alla quale dobbiamo Les fleurs du mal.

Si tratta di due mentalità opposte.

«Tant qu’il existera, par le fait des lois et des moeurs, une damnation sociale créant artificiellement, en pleine civilisation, des enfers...tant qu’il y aura sur la terre ignorance et misère...» dice l’Hugo in testa ai Misérables.

«Tant que... — esclama Baudelaire — Hélas! autant dire TOUJOURS! ».

Ma qui il Baudelaire che tracciando un profilo dell’Hugo si era preoccupato di dissimularne il carattere moralistico, è costretto a rivelarlo: anzi a definirlo ossessione. Tutto l’Hugo converge nella predicazione umanitaria. I Misérables sono un « livre de charité, c’est-à-dire un livre fait pour exciter, pour provoquer l’exprit de charité; c’est un livre interrogant, posant des cas de complexité sociale... disant à la conscience du lecteur: «Eh bien? Qu’en pensez-vous? Que concuez-vous? ».

Quanto alla sostanza, le intenzioni di costruire un’epopea erano sboccate in quella decadenza del classicismo che è la negazione dell’individualità della creazione artistica.

« Hamlet, ce n’est pas un homme, c’est l’Homne » — aveva detto Hugo nella prefazione di Marie Tudor. — «Dégager perpétuellement le grand à travers le vrai, le vrai à travers le grand, tel est donc... le but du poète au théâtre ».

L’illustre autore — questo è evidente, dice il Baudelaire — ha voluto nei Misérables creare delle astrazioni viventi, delle figure ideali, di cui ciascuna, rappresentando uno dei tipi necessari allo sviluppo della sua tesi, fosse elevata ad altezza epica... In questo romanzo costruito come un poema ogni personaggio non è eccezione se non per la maniera iperbolica, di cui rappresenta una generalità.

Il Baudelaire che in un primo momento ha creduto di poter attribuire al romanticismo, e quindi principalmente all’Hugo, le sue stesse idee estetiche, frutto d’una personale esperienza, deve nettamente ricredersi e porsi come opposizione a quell’« epoca disordinata ».

Infine che cosa aveva affermato cotesta epoca di ardente effusione, quale era stata la sua bandiera? « La poesia del cuore ». Ma il sentimento praticistico della vita è nocivo, dice risolutamente il Baudelaire, alla poesia. Il sentimento lirico, «la sensibilità dell’immaginazione» è d’un’altra natura: « elle sait choisir, juger, comparer, fuir ceci, rechercher cela, rapidement spontanément. C’est de cette sensibilité, qui s’appelle généralement le goût, que nous tirons la puissance d’éviter le mal et de chercher le bien en matière poètique. Quant à l’honnêteté de coeur, une politesse vulgaire nous commande de supposer que tous les hommes, même les poètes, la possèdent. Que le poète croie ou ne croie pas qu’il soit nécessaire de donner à ses travaux le fondament d’une vie pure et correcte, cela ne relève que de son confesseur ou des tribunaux...» (Théophile Gauthier).

Dopo aver letto les Fleurs du mal, Hugo diceva al Baudelaire che egli aveva dotato il cielo dell’arte di non so qual saggio macabro; che aveva creato un brivido nuovo. Romanticismo, anche questo, a suo parere: il genere macabro.

Ma — opponeva il Baudelaire — uno dei privilegi prodigiosi dell’arte consiste in questo, che «l’horrible, artistement exprimé devienne beauté, et que la douleur, rythmée et cadencée, remplisse l’exprit d’une joie calme». (Ibidem).

Non esiste in arte nè un brutto nè un bello, e l’oggetto si purifica nell’espressione.

Non si vede, dunque, come sull’Hugo possa fondarsi un romanticismo: anche, se si vuole, quel romanticismo che si vuol fare astratta categoria del patetico o, per dirlo con Nietzsche, del dionisiaco in opposizione all’elemento apollineo che esprimerebbe la definitezza, nella quale si compone e redime il tumulto psicologico del lirismo.


Ma non si può dimenticare, e non si fa certo una scoperta, che il romanticismo è una filosofia: un momento particolare definito nella storia del pensiero. Il vero manifesto del romanticismo bisogna andare a cercarlo in Fichte: in lui il problema della libertà coincide con l’affermazione del soggetto, come principio, onde si genera l’oggetto; e si spezza il monadismo individualistico che era stato il dono del Rinascimento. Il soggetto è l’universalità nel quale l’individuo si trova: ma nello stesso tempo esso perde il mondo, a riconquistare il quale aveva tanto combattuto. Il soggetto è un circolo, nel quale resta dunque imprigionato tutto quello che in esso si generi; e il non io è il limite della conoscenza e da essa resta escluso. In realtà non può porre come oggetto altro che se stesso: e quivi attingere l’assoluto.

Ecco perchè Novalis non fa differenza tra poesia e realtà e può risolvere tutta la realtà nella fantasia, affermando che questa può costruirsi una dottrina attraverso una fisica, la quale realizzerebbe più pienamente l’ideale scientifico.

Per intendere ciò, è necessario risalire al movimento mistico tedesco del medioevo, e di qui via via attraverso il filone neoplatonico-plotiniano, che ne è in sostanza, e particolari movimenti come il Pietismo e la sua opposizione all’illuminismo, sboccare nell’idealismo magico del Novalis, nel misticismo di Jacopo Bôhme e nell’idealismo estetico dello Schelling.

Questo è il romanticismo come movimento sentimentale: ed offre il contrassegno di una sensibilità metafisica che è del tutto opposta alla sensibilità mediocremente patetica della sua caricatura francese; ed evidentemente non si può istituire altro rapporto tra certi aspetti vagamente simiglianti, tra, poniamo, la manìa del suicidio, diffusa in quel tempo, per tedio della vita, in cui il De Gourmont vedeva uno dei tratti generali della sensibilità romantica, e l’altra religiosa conciliazione con la morte, che è il frutto dell’orientamento decisamente ed esplicitamente cattolico del Novalis e di Federico Schlegel nell’ultima fase del loro pensiero.

Come filosofia il romanticismo tedesco non s’intende senza Kant: nella Ragion kantiana è la confutazione del razionalismo del secolo XVIII.

Per altro, l’opposizione tra classicismo e romanticismo non è, in Germania, un artifizio; perchè il classicismo tedesco, ponendo una perfezione ellenica come antecedente la complessità dello spirito moderno e quindi come «primitività», aveva idoleggiato in essa uno stato di natura che surrogava quello un po’ grossolano del Rousseau.

Tutto il problema mistico (che ora si va riprendendo in molte parti di quarta mano) della risoluzione del mondo nel soggetto, e la filosofia della natura, romantica, sfociata in una natura come sistema di idee in Hegel, hanno la loro spiegazione nella tendenza disperatamente soggettivistica del romanticismo tedesco e nel suo concludersi solipsistico. L’ironia è una scintilla che deve fatalmente sprizzare dall’urto di questo mondo che vuole uscire dalla solitudine interiore, con l’oggetto che non può ridurre a sè.

Del movimento tedesco, il romanticismo francese non ebbe neppur cognizione.

Il libro della de Staël è un’eccezione, e può costituire una ragione di equivoco: esso non fu inteso se non nei particolari, e il suo fondo d’informazioni, ch’eran poi informazioni giornalistiche, restò inaccessibile alla costellazione degli scapigliati parigini.

Un po’ più tardi a Parigi penetrarono il vecchio Hoffmann ed il giovane Goethe: ma essi non sono che l’aspetto meno sostanzialmente romantico che potesse varcare il confine tedesco.

Per altro la letteratura francese ha una tradizione di spirito e di finezza psicologica: Montaigne, La Rochefoucauld, La Bruyère, Fontenelle, Vauvenargues, Chamfort, — citiamo dei nomi per indicare un orientamento complessivo, — una tradizione illuministica, e in essa s’intende Stendhal.

Ma la tradizione letteraria era troppo arida, classicistica, accademica, umanistica di riflesso.

Il Rinascimento francese ha cristallizzato il suo carattere scolastico e la sua mediocrità in un verso pedestre e discorsivo: l’alessandrino, espressione di gravità stilistica e di scarsa felicità creativa, sia nell’asciuttezza stanca di Malherbe e nell’eloquio oratorio di Corneille o nella verve prosaica di Molière.

Il miracolo di cotesta tradizione è Racine, e i francesi lo citano con orgoglio. Egli è uno scrittore di scarsa genialità, il quale ha realizzato, in virtù appunto della limitatezza dei suoi mezzi, un’arte che è frutto di abilità, di grazia e di misura.

Queste sono le premesse logiche di un Lamartine o di un De Musset.

Hugo scoppia in questo clima arcadico, nel quale l’ultima voce gracile e delicata, e intonata su Racine, era stata quella dello Chénier, e manda in frantumi il vecchio mondo formale.

Ma di una tradizione si può trarre più profitto a continuarla che a spezzarla senza avere un sistema organico che rinnovi prodigi come quelli avveratisi all’inizio delle grandi letterature moderne. L’illuminismo tramontando degenera nel pathos pseudo-romantico.

Non è avvenuto niente di straordinario. Qualcuno dei motivi secondari del romanticismo tedesco, in parte fraintesi, — il brutto come motivo d’arte, l’ironia in un senso che non è metafisico ma che rientra nel gusto pirotecnico delle antitesi victorhughiane ecc., — è penetrato nel mondo accademico francese e vi si istalla ufficialmente.

Ma restiamo in una poesia priva di liricità perchè estranea all’interiorità creatrice della coscienza; e dagli astri che girano intorno ad Hugo: dal Gauthier, dal Banville. scaturisce immediatamente la conferma: il Parnaso.

I Trophées sono l’indicazione precisa di una linea Hugo-Leconte de Lisle sboccata nel Parnaso. Il disegno di essi ricalca in molte parti la Légende des siècles, con un senso di scrupolo storico e di nettezza stilistica che son la particolarità dei Poèmes barbares: ma quel mondo disordinato e apocalittico, nella sua preziosa e squisitamente plastica dell’Hérédia si è chiuso nella cornice smilza e significativa, del sonetto. Era il tentativo di Gauthier negli Ernaux et Cameaux, a cui i tempi non concedevano quella nitidezza di composizione, che esigeva un certo riposo del torbido miscuglio verbale hughiano.

Naturalmente le intenzioni epiche dell’Hugo, in questo gusto del cesello, si riducono alle proporzioni di un vaso antico delicatamente evocato, d’una vetrata medioevale o d’una medaglia siciliana. Questo Cellini della poesia è la massima gloria del Parnaso ed era la sola sua possibilità.

Tutto l’altro romanticismo, quella maniera patetica che affiora nel De Musset, debitamente moralizzata da Dumas figlio, sfocerà nell’appendice, in prosa o in versi, di Francois Coppée, (così come l’epopea drammatica, convogliato Hugo e Dumas pére, andrà poi a finire in Rostand).

Forse avrebbe potuto comporsi in un piccolo mondo lirico-borghese in Sully Prudhomme, ma l’autore del Vase brisé ambi la gloria di Lucrezio: precipizio dal quale non potè sollevarsi.

L’oggettivismo che è giunto alla sua maturità deve dissolversi nella decadenza che ne trae le estreme conseguenze. Questa è l’esperienza successiva al Parnaso, che si gonfierà d’altri contributi.

Non potevan valere gli sforzi del Flaubert. Andate in campagna, egli consigliava al giovine Maupassant, a guardare un albero fino a che esso non vi paia diverso da tutti gli altri alberi e, tornato a casa, raccontate in cento righe quel che avete veduto. Tutto ciò era lo sforzo di una disciplina nel mondo degli oggetti, disordinato dall’Hugo; e non poteva dar altro che una letteratura perfetta, con quel che essa importa di pedantesco e di antilirico.

L’insegnamento valeva per i fratelli Goncourt, i quali appunto ci documentarono nel loro capolavoro (Le Journal) questa ricerca d’una pura forma nel romanzo «un seul style, bien personnel, bien Goncourt». Di qui la loro passione per la pittura e la loro durezza.

«Nous avons toujours préféré la phrase et l’expression qui émoussaient et académisaient le moins le vif de nos sentations, la fierté de nos idées». Anzi, che accademizzassero il più possibile! E la loro inclinazione a quel naturalismo che preferiva la clinica dell’amore (secondo una loro confessione nella prefazione a Germinie Lacerteux) alla vita integrale, rivelava il perdurare del genere macabro messo in onore dal romanticismo.

Poco significano le loro proteste di voler fare della storia, come quella dello Zola di voler fare della scienza: la verità è che essi eran presi di romanticismo sino alle ossa, ed espressione reale d’una degenerazione.

Zola confessa e lamenta «d’ètre né au confluent d’Hugo et de Balzac». Sandouz nell’Oeuvre dice:

» Oui, notre génération a trempé jusqu’au ventre dans le romanticisme et nous avons eu beau nous débarbouiller, prendre des bains de réalité violente, la tache s’entête».

L’oggettivismo si pone come precetto di realismo.

Ora, eccolo frantumarsi nelle semplificazioni epigrammatiche di Jules Renard o purificarsi in Maupassant. Col Maupassant ne siamo già fuori. Il pessimismo brutale di Zola diventa un pessimismo psicologico ed un’evasione lirica.

A questo punto il romanticismo, con caratteri idealistici ben definiti e inconfondibili, è maturo per porsi, fuori dell’equivoco del 1830 trascinato lungamente, il problema d’una nuova generazione.

La sazietà del des Esseintes dell’A rebour di Huysmann è rappresentativa di una cultura. Essa ha proprio bisogno di chiudersi in una casa ovattata per negare il mondo esterno o di rifugiarsi in un convento.

II romanticismo francese, corollario tardivo di questa lunga espericnza, prende, come vedremo, il nome di simbolismo.

Luca Pignato.