Il Baretti - Anno II, n. 5/Romanelli

Raffaello Franchi

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Il nostro Carducci Tendenze letterarie

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ROMANELLI

Le pagine che Mario Tinti premette alle riproduzioni d’arte di Romano Romanelli presentate in una veste squisita e rara da Giorgio e Piero Alinari, aderiscono realmente alla qualità dell’artista e dell’opera trattate.

C’è in Romanelli come nel suo critico una volontà continua di stile, di concisione italica. Lontano il primo dalla letteratura e da quell’atteggiamento letterario che può assumere in uno scultore l’aspetto d’un quotidiano assillo della coerenza nella successione delle forme, cosi che ogni specie di precedente sapienza si concreti a poco a poco amorosamente nell’applicare i principi d'una sintassi posseduta ogni giorno di più; letterato l’altro, poiché la letteratura è la sua materia incontestabile, questi due uomini hanno in comune l’ideale di chiarezza che essi convengono di chiamare meditanea, e una fede, una aspettazione quasi religiosa, della bellezza esoterica, senza pecca e senza apparente passato.

Convien dire che, fra i due, una tal regola di religioso travaglio è stata sempre più fortunata in Romanelli, nel senso che veramente, tra le sue sculture si nota il distacco pieno e civile dell’uomo che non accarezza e non trasporta una qualsiasi preziosa esteriorità da un’opera all’altra, ma solo riassume in ciascuna quel tanto che a malgrado dei volontari abbandoni s’è mantenuto ed è cresciuto in lui di caratteristica potenza d’espressione, ossia di stile.

Invece Tinti intuisce degli ideali, anche formali, attraverso il velo delle loro rispettive rettoriche, e lo svolgere questo velo gli riesce tanto più difficile quanto più se ne innamora.

A vivificare con un sapor di dramma questa asserzione rammenteremo che i suoi maestri estetici appaiono continuamente Wilde e Carlyle, ma di un fatto si può recare buona testimonianza al Tinti, dicendo che dietro ogni sua allucinazione esiste il nocciolo d’una realtà.

Esaminiamo brevemente lo scritto di Mario Tinti. Egli si parte dalla considerazione della italianità caratteristica di Romano Romanelli come tipo d’uomo, ardito, avventuroso, epperciò rude, disinteressato d’immediati successi, vivente naturalmente prima di operante, inducendone la necessità di parlare della sua vita e delle sue origini. Il nonno, Pasquale Romanelli, lavorò nello studio di Lorenzo Bartolini e non fu tra gli ultimi di quel tempo. Al padre, qualunque sia per essere il giudizio definitivo che verrà dato sull’opera di Raffaello Romanelli, va riconosciuto un originale temperamento di scultore in quanto egli seppe allontanarsi, per un suo palese e brusco bisogno spirituale dalle finitezze bartoliniane in quella sua scultura pittoresca a larghi tratti osservabile nei popolosi autorilievi dei suoi monumenti. [p. 22 modifica] Meno intimista e torturato di Romano, anzi contrastante, per questo verso, il figliolo, Raffaello ebbe un’aspirazione romantica per la scultura, non tanto monumentale quanto specialmente ascensionale.

Spesso i personaggi dei suoi altorilievi rompono la rigida linea degli alti piedistalli per creare il movimento di un’onda in cima alla quale, più alto di tutto, si stabilisca la figura dell’eroe rappresentato. Questa intenzionalità esclude quasi del tutto la levigatezza, volendo quasi che l’opera, anziché incidersi in ogni suo limite ritrovi continuamente nella base la forza dinamica di rifiorire nella sua vetta. Se in una simile scultura un tal carattere fosse d’origine appena cerebrale lo si vorrebbe chiamar wagneriano. Ma viceversa s’è di fronte a un’opera piena d’abilità e di salute schiettamente nostrali.

Stabilita in Romano l’autenticità del temperamento come naturale eredità, e stabilito che la «scultura egli l’aveva nel sangue» conviene all’esegeta, seguire il suo protagonista lungo la sua colorita e suggestiva carriera di soldato e di marinaro.

Di ritorno alla terraferma, malato, col bisogno d’un’espressione la cui specie non gli s’appalesava quantunque egli non fosse nuovo alla pratica della scultura, la buona mamma lo rivelò a sé stesso consigliandolo «di lavorare».

Così, chè la specie di lavoro, dopo un tale incoraggiamento, diventava intuitiva.

Qui è da lamentare che nella monografia del Tinti sia stata omessa la riproduzione del giovanile Ercole lottante col leone nemèo, degna d’un singolare interesse per il suo ritmo compositivo, per l’arditezza delle proporzioni e dello sviluppo, e perchè l’autore non era peranco giunto a poter chiudere in un marmo il senso discreto, quasi ermetico, dell’intima intenzione espressiva, che si noterà o si cercherà in tutte le sue opere più tarde a partire dalla statua di quel Portatore d’attitudine rodiniana dove il segno della personalità va certo ricercato in un sottile pensamento.

In Romano, artista cerebrale e moderno, anche l’imitazione ha un valore differente da quel che poteva avere in Raffaello, naturalista, al suo modo, di vecchio stampo. Di fatti, mentr’essa avrebbe potuto servire nell’un caso ai fini d’una facile soluzione compositiva, in Romano smarrisce gli attributi comuni dell’imitazione e diventa opzione.

Romano sceglie la forma in cui riconosce un significato, cordiale al proprio spirito più e prima che al proprio stesso gusto; in una tale severità d’intenzione egli si protende verso una scultura monumentale il cui eroismo non sia rettorico nè decorativo e, con tutto ciò, dal periodo giovanile del leone nemèo a oggi, la prima scultura in cui la volontà di comporre vasti assiemi architetturali e significanti non abbia ceduto al piacere di armonie più facili e modeste, come son quelle dei suoi molti ritratti muliebri, si deve riconoscere nel secondo bozzetto presentato al concorso fiorentino per il Monumento alla Madre italiana.

Senza pregiudizio, e anzi all’infuori del valore delta restante opera di Romanelli, l’Ercole e il Monumento alla madre rappresentano due stagioni di una medesima volontà sufficientemente espressa, la prima abbondevole d’una vigoria spensierata, la seconda quasi offuscata dalla forza pensosa. Per questo motivo avremmo voluto trovarle ai due capi del volume.

Certo, Romano Romanelli, per la complessità del suo sforzo, meritava cd ha trovato in Tinti un caldo biografo piuttosto che un discettatore di puri valori formali. Questo scultore che aspira al monumentale e si getta con tutto il suo desiderio di grandezza anche sulla breve superficie di una medaglia, riduce quasi il critico a imitarlo quando gli inspira la seguente suggestiva definizione: «Le medaglie sono insieme moderne e antiche — come la storia».

Approssimazione in istile aulico, rivolta piuttosto all’intuito d’arte che alla comprensione critica e che a noi rammenta e fa raccostare, se lo scherzo è lecito, il grave Davanzali al sottile Mallarmé.

Nel giudizio noi concordiamo quasi sempre con Mario Tinti; quanto al suo stile, guidato dalle massiccie realtà del suo modello, lo abbiam veduto mantenersi in una posa scultorea che rasenta la rettorica senza cadervi, se si prescinde da certe abbreviazioni che sanno un po’ troppo di scalpello, come «sperienza» o «ufficial di marina» afferma che «la nostra storia oggi ricomincia o da certe frasi avventate, come quella in cui si ed è quindi logico che ricominci anche l’arte».

Amico Tinti: scriviamo e scolpiamo con fede, ma non pretendiamo, non pretendiamo di scolpire la fede.

raffaello franchi