Il Baretti - Anno II, n. 4/Tendenze letterarie

Giuseppe Sciortino

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Angelini Libri
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TENDENZE LETTERARIE

I.


Lo spirito alla ricerca di sè stesso.

Renato Serra — di cui noi riconoscemmo la frammentaria sensibilità, senza esagerare mai la importanza di critico ricostruttore e senza nasconderci le sue ristrettezze d’interpretazione e di valutazione — volle fermare in un affrettato ma sincero Esame di coscienza le relazioni tra la guerra e la letteratura.

Concluse, che la guerra nulla avrebbe mutato: «La guerra è un fatto, come tanti altri... Non cambia nulla, assolutamente nel mondo. Neanche la letteratura... La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto in cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni: e, qualunque parte ne sopravviva, di li soltanto riprenderà, continuerà di lì. E’ inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati, dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era».

La guerra sconvolse, invece, molte ideologie, rinnovò radicalmente i quadri, cambiò repentinamente quegli indirizzi che pareva dovessero avere un facile e sicuro successo, capovolse insomma tutti i valori; lasciando solo quelli — spesso spesso non riconosciuti realmente — che mostrano oggi di avere assunto proporzioni notevoli nel campo dello spirito. Sicché alle predizione serriana toccò la sorte che sempre è toccata alle predizioni.

Definì meglio, la guerra, uno stato diffuso di cose che ci ha fatto kantianamente caratterizzare l’epoca odierna come epoca della critica. Perchè, in quanto alla critica, è stata notevole una maggiore chiarezza, uno sveltimento dei mezzi formali, uno sfrondamento degli inutili apparati eruditi, un sintetismo scabro e severo — qualità che spesso mancavano alla vecchia critica fatta di pedanteria filologica, di cultura superflua pacchianamente ostentata: tutte cose che servivano solo a fare intender di meno il valore estetico di un’opera, a traviare il possibile gusto del lettore e del critico.

La nuova critica — se in qualche non esperto esponente ci ha portato al dilettantismo — nelle sue migliori manifestazioni ci ha dato la sensazione sicura di un progresso e non di un regresso, di una conquista degna di nota e non di una incalcolabile perdita.

Questo rigoglio fresco di critica, evidentemente, non esclude che la creazione abbia potuto farsi avanti con valori notevoli, presentarsi e imporsi con uomini capaci di superare il pantano torbidamente incomposto della cronaca, per inserirsi nel fluire grandioso e tempestoso della Storia.

Epoca della critica, la nostra, in quanto tendenzialmente intellettuale e speculativa (alla base di ogni notevole creazione è implicita una critica); ma non unicamente volta a una manifestazione dello spirito e quindi in attitudine di negare la concezione dell’unità dello spirito: concezione che ci viene dall’insegnamento idealistico e che noi non sentiamo tuttavia di potere negare o superare.

Le nostre preferenze crociane, in proposito, avrebbero dovuto evitare ogni equivoco. Che noi pensiamo (la chiarificazione non ci sembra nè tardiva, nè inutile) che i compiti di una generazione, se si debbono identificare e circoscrivere date le manifestazioni pratiche di maggiore rilievo, non si possono assolutamente staccare da altri compiti oggi in penombra, ma che domani potrebbero con moto improvviso balzare in prima linea e assumere un atteggiamento risolutivo.

E' chiaro che in teoria necessitano delle distinzioni e in pratica, spesso, delle divisioni apparentemente arbitrarie e che intanto hanno una loro ragion d’essere, sia pure contingentale, anzi esclusivamente contingentale; la vita però, non patisce mai esclusioni recise e definitive.

Si riconnette al dopoguerra immediato quel fenomeno che venne ad essere chiamato ondata Vitagliano: trionfo dell’improvvisato e del superficiale; conseguenza dello spirito smarrito e che ancora non ha la coscienza del suo smarrimento.

Tutti gli ingredienti atti a titillare i sensi venono sfacciatamente sfruttati anche da scrittori che prima avevano dimostrato di avere qualche cosa da dire, di essere degli artisti capaci di realizzare una propria personalità: con l’ondata Vitagliano il desiderio della nomea precaria, il calcolo commerciale hanno facilmente ragione di ogni sia pure minimo, intendimento d’arte.

Il poeta dell’epoca non può più essere Gabriele D’Annnunzio che comincia ad apparire troppo pesante per i lettori nuovi della nuova pseudoletteratura; lettori che pure avevano benevolmente sopportato o si erano addirittura entusiasmati del barocchismo d’Annnunziano comune anche alle prime orazioni guerresche (dal Discorso di Quarto al Messaggio alle reclute del ’900). Il poeta dell’epoca — ci sembra inutile dirlo — è Guido Da Verona, che un po’ da tutti viene trattato come un lirico puro per eccellenza.

Molti critici si lasciano attrarre nel gorgo e finiscono col non avere una chiara visione degli avvenimenti.... Si tratta, ecco, di un oscuro e turbinoso momento di transizione: c’è come il travaglio d’un mondo in dissoluzione che cerca di realizzarsi in una nuova creazione. E ad Antonio Aliotta il quale scrive che « un grossolano materialismo storico è diffuso da per tutto» viene risposto, con la stessa convinzione di non aver torto, che abbiamo una autentica reazione contro il materialismo dell'età precedente.

La verità è che, nel dopoguerra immediato, siamo in un periodo in cui tutto un vecchio mondo si sfascia, irrimediabilmente; non valgono più i certificati di vecchie appartenenze; non è assolutamente vero che ognuno si ritrova al lavoro interrotto un giorno lontano.

C'è di mezzo l'esperienza di guerra che non può essere obliata perchè investe i più oscuri e intimi meandri dello spirito di coloro che l'hanno sofferta. Non può essere un fatto d'importanza trascurabile e facilmente dimenticabile l'essere stati sul limitare della vita; l'aver visto il volto della morte tra un assalto respinto e un controassalto tra lo scoppio delle granate e lo sventagliare satanico delle mitragliatrici.

L'aver fatto qualche cosa in passato è quasi un titolo di demerito: è — certo a ragione — un motivo per escludere, in nomi fino allora rappresentativi, la possibilità di rinnovellarsi. Nota Mario Ferrara che, giunti al 1923, è scomparsa una generazione alla quale nell'anteguerra e durante la guerra «tutti amavano richiamarsi e si dicevano orgogliosi di appartenere».

Ora tutto ciò è prova di uno squilibrio: lo spirito si abbandona alle più matte esperienze e prende le più facili vie, prima di sentire il dissidio che anzitutto, per alcuni, sarà causa di conversioni clamorose e di religiosità parolaia; ma che poi cercherà una soluzione più seria e, appunto per questo, più rispondente alle nuove esigenze spirituali.

Giovanni Papini è un rappresentante dell'epoca di un notevole valore negativo: ancora capace di lanciarsi in una nuova avventura con la leggerezza del giovinastro toscano ricco di atteggiamenti becereschi.

Senza per questo rinunciare a tutto un passato di lavoro incomposto e nello stesso tempo geniale, e senza dimenticare quel gruppo vociano che ebbe, nell'anteguerra, la funzione di mantenere giovane e vivace — se non sempre soffusa di vita intima — la letteratura italiana nel suo fervore di sviluppo continuo e ineguale; di immettere in Italia, partendo da punti di vista fondamentalmente errati le più disparate tendenze della letteratura europea.

Papini con la sua conversione, potrebbe apparire sotto un nuovo aspetto: temperamento stranamente dogmatico che trova la soluzione del suo travaglio adagiandosi nel dogmatismo cattolico.

Comunque rappresenta. Giovanni Papini, in qualche modo quella corrente del dopoguerra che sente assoluto il bisogno di credere.

Già siamo ai primi tentativi — che cominciano a essere coscienti — di ricostruzione: lo spirito, smarritosi nell'ubbriacatura fantastica dell'immediato dopoguerra, ora comincia a cercare sè stesso.


D'altro canto futurismo, avanguardismo e neo classicismo non possono avere un riscontro di fattività nel dopoguerra: vivacchiano come polloni che bisogna recidere, perchè l'albero eserciti utilmente altrove la sua forza fatale di sviluppo.

Fenomeni fuori di quella corrente crociana che noi ancora dobbiamo meglio sondare per poterla definitivamente superare (ciò ad conta di quello che dicono alcuni esponenti dell'odierno filosofismo). Il dominatore assoluto della situazione — magari non riconosciuta da molti, ma realmente tale per chi sappia guardare alle radici — resta Benedetto Croce con la sua opera di una chiarezza meravigliosa, ricca di attuazioni e di possibilità, distinta da una conoscenza assoluta del pensiero europeo. Croce offre l'unica via perchè questa Italia provinciale possa finalmente, in cultura, universalizzarsi e assumere una posizione degna.

Da questo punto di vista è notevole la puntata attualistica di Giovanni Gentile: l'improvvisa fortuna odierna dell'attualismo deve subire una tara perchè in buona parte frutto del camaleontismo italiano; ma l'attualismo ha degli innegabili meriti — e sarà onesto, domani, rifare i conti con esso.

Quello che importa, intanto, è il fatto che su tutte codeste esperienze negative, esiste negli spiriti più preparati, e quindi profondamente pensosi, una aspirazione a una nuova filosofia, una tendenza a ricostruire sinteticamente e concretamente.

C'è nell'aria diffuso un bisogno di approfondimenti: comincia a farsi sentire la necessità di gettare solide basi prima di innalzare le costruzioni e procedere con cautela nella scelta del materiale apprestato. Bisogna che queste costruzioni sappiano validamente opporsi all'opera edace e tenace del tempo. L'improvvisato e il provvisorio non hanno più ragione di esistere.

Ci si comincia a convincere che, se la nuova generazione ha dei diritti, deve non compiacersi di questi suoi diritti legittimi, bensì continuare nel suo lavoro di approfondimento e di chiarificazione.

Alla fine del 1921 può dirsi definitivamente superato quello squilibrio per cui prima erano state supervalutate opere di nessun valore e per cui dei volgari speculatori non solo venivano letti, ma cominciavano a preoccupare qualcuno di quei critici militanti che dovrebbero esercitare la loro missione con serena coscienza, al di sopra dei deviamenti del gusto.

Passato, tra il 1921 e il 1923, finalmente passato lo stato preoccupante di incertezza: anche la media comune dei lettori comincia a seriamente preoccuparsi nella scelta degli autori da leggere. Libri che presentavano tutte le possibilità del successo commerciale rimangono clamorosamente invenduti.

Autori, invece, che prima avevano dato segni non dubbi del loro valore estetico, e che pertanto erano stati trascurati, passano improvvisamente in prima linea; altri autori, che avevano fatto la loro esperienza nel futurismo e in altre simili scuole, buttano via il fardello logoro e inutile del loro passato, cercano tenacemente di rifarsi una verginità; e chi tra questi, ha elementi di possibilità creatrice, riesce a sotterrare il suo passato che non raccomanda e a creare qualche cosa di solido.

Si assottiglia la schiera dei giovani che nel dopoguerra si erano fatti avanti con la loro impreparazione; ma quelli che tuttavia rimangono, risoluti a lavorare e a battersi, sono indiscutibilmente i più seri, quelli, comunque, che hanno intenzione e possibilità di raggiungere uno stadio di cultura adeguato alle esigenze che caratterizzano la nuova epoca.

E se — come abbiamo notato — la quantità di coloro che si occupano di letteratura, dopo il 1921 viene man mano scemando, ciò non pertanto si chiariscono meglio i movimenti spirituali che agitano profondamente gli animi. Viene su, lentamente ma tenacemente, ciò che c'è di più originale e quindi degno di maggiore rilievo, nel caotico sommovimento d'idee e d'ideali disparati che cercano ansiosamente di raggiungere un posto notevole tra le tendenze più in vista; ma con mezzi che non temono più la luce del sole.

C'è nei più giovani la necessità di approfondire le esperienze remote e recenti, italiane e internazionali per preparare la probabile successione.

Ci sono delle esperienze inutili che impongono, volta a volta, oneste liquidazioni: e delle altre esperienze che debbono essere necessariamente valorizzate che debbono, cioè sboccare in opere d'arte di concreto valore estetico. E questi altri riperimentatori assurgono a creatori realizzando tutto quello che possono realizzare: superano il precario — da qualcuno denominato l’informe — per attingere un nuovo assoluto, vale a dire forme schiettamente nuove.

E' dovere nostro esaminare l'attività di questi creatori, che colgono i frutti della loro laboriosa giornata, per mettere in luce le loro possibili manchevolezze e ciò che hanno esteticamente realizzato.

Giuseppe Sciortino.