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TENDENZE LETTERARIE

I.


Lo spirito alla ricerca di sè stesso.

Renato Serra — di cui noi riconoscemmo la frammentaria sensibilità, senza esagerare mai la importanza di critico ricostruttore e senza nasconderci le sue ristrettezze d’interpretazione e di valutazione — volle fermare in un affrettato ma sincero Esame di coscienza le relazioni tra la guerra e la letteratura.

Concluse, che la guerra nulla avrebbe mutato: «La guerra è un fatto, come tanti altri... Non cambia nulla, assolutamente nel mondo. Neanche la letteratura... La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto in cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni: e, qualunque parte ne sopravviva, di li soltanto riprenderà, continuerà di lì. E’ inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati, dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era».

La guerra sconvolse, invece, molte ideologie, rinnovò radicalmente i quadri, cambiò repentinamente quegli indirizzi che pareva dovessero avere un facile e sicuro successo, capovolse insomma tutti i valori; lasciando solo quelli — spesso spesso non riconosciuti realmente — che mostrano oggi di avere assunto proporzioni notevoli nel campo dello spirito. Sicché alle predizione serriana toccò la sorte che sempre è toccata alle predizioni.

Definì meglio, la guerra, uno stato diffuso di cose che ci ha fatto kantianamente caratterizzare l’epoca odierna come epoca della critica. Perchè, in quanto alla critica, è stata notevole una maggiore chiarezza, uno sveltimento dei mezzi formali, uno sfrondamento degli inutili apparati eruditi, un sintetismo scabro e severo — qualità che spesso mancavano alla vecchia critica fatta di pedanteria filologica, di cultura superflua pacchianamente ostentata: tutte cose che servivano solo a fare intender di meno il valore estetico di un’opera, a traviare il possibile gusto del lettore e del critico.

La nuova critica — se in qualche non esperto esponente ci ha portato al dilettantismo — nelle sue migliori manifestazioni ci ha dato la sensazione sicura di un progresso e non di un regresso, di una conquista degna di nota e non di una incalcolabile perdita.

Questo rigoglio fresco di critica, evidentemente, non esclude che la creazione abbia potuto farsi avanti con valori notevoli, presentarsi e imporsi con uomini capaci di superare il pantano torbidamente incomposto della cronaca, per inserirsi nel fluire grandioso e tempestoso della Storia.

Epoca della critica, la nostra, in quanto tendenzialmente intellettuale e speculativa (alla base di ogni notevole creazione è implicita una critica); ma non unicamente volta a una manifestazione dello spirito e quindi in attitudine di negare la concezione dell’unità dello spirito: concezione che ci viene dall’insegnamento idealistico e che noi non sentiamo tuttavia di potere negare o superare.

Le nostre preferenze crociane, in proposito, avrebbero dovuto evitare ogni equivoco. Che noi pensiamo (la chiarificazione non ci sembra nè tardiva, nè inutile) che i compiti di una generazione, se si debbono identificare e circoscrivere date le manifestazioni pratiche di maggiore rilievo, non si possono assolutamente staccare da altri compiti oggi in penombra, ma che domani potrebbero con moto improvviso balzare in prima linea e assumere un atteggiamento risolutivo.

E' chiaro che in teoria necessitano delle distinzioni e in pratica, spesso, delle divisioni apparentemente arbitrarie e che intanto hanno una loro ragion d’essere, sia pure contingentale, anzi esclusivamente contingentale; la vita però, non patisce mai esclusioni recise e definitive.

Si riconnette al dopoguerra immediato quel fenomeno che venne ad essere chiamato ondata Vitagliano: trionfo dell’improvvisato e del superficiale; conseguenza dello spirito smarrito e che ancora non ha la coscienza del suo smarrimento.

Tutti gli ingredienti atti a titillare i sensi venono sfacciatamente sfruttati anche da scrittori che prima avevano dimostrato di avere qualche cosa da dire, di essere degli artisti capaci di realizzare una propria personalità: con l’ondata Vitagliano il desiderio della nomea precaria, il calcolo commerciale hanno facilmente ragione di ogni sia pure minimo, intendimento d’arte.

Il poeta dell’epoca non può più essere Gabriele D’Annnunzio che comincia ad apparire troppo pesante per i lettori nuovi della nuova pseudoletteratura; lettori che pure avevano benevolmente sopportato o si erano addirittura entusiasmati del barocchismo d’Annnunziano comune anche alle prime orazioni guerresche (dal Discorso di Quarto al Messaggio alle reclute del ’900). Il poeta dell’epoca — ci sembra inutile dirlo — è Guido Da Verona, che un po’ da tutti viene trattato come un lirico puro per eccellenza.

Molti critici si lasciano attrarre nel gorgo e finiscono col non avere una chiara visione degli avvenimenti.... Si tratta, ecco, di un oscuro e turbinoso momento di transizione: c’è come il travaglio d’un mondo in dissoluzione che cerca di realizzarsi in una nuova creazione. E ad Antonio Aliotta il quale scrive che « un grossolano materialismo storico è diffuso da per tutto» viene risposto, con la stessa convinzione di non aver torto, che abbiamo una autentica reazione contro il materialismo dell'età precedente.

La verità è che, nel dopoguerra immediato, siamo in un periodo in cui tutto un vecchio mondo si sfascia, irrimediabilmente; non valgono più i certificati di vecchie appartenenze; non è assolutamente vero che ognuno si ritrova al lavoro interrotto un giorno lontano.

C'è di mezzo l'esperienza di guerra che non può essere obliata perchè investe i più oscuri e intimi meandri dello spirito di coloro che l'hanno sofferta. Non può essere un fatto d'importanza trascurabile e facilmente dimenticabile l'essere stati sul limitare della vita; l'aver visto il volto della morte tra un assalto respinto e un controassalto tra lo scoppio delle granate e lo sventagliare satanico delle mitragliatrici.

L'aver fatto qualche cosa in passato è quasi un titolo di demerito: è — certo a ragione — un motivo per escludere, in nomi fino allora rappresentativi, la possibilità di rinnovellarsi. Nota Mario Ferrara che, giunti al 1923, è scomparsa una generazione alla quale nell'anteguerra e durante la guerra «tutti amavano richiamarsi e si dicevano orgogliosi di appartenere».

Ora tutto ciò è prova di uno squilibrio: lo spirito si abbandona alle più matte esperienze e prende le più facili vie, prima di sentire il dissidio che anzitutto, per alcuni, sarà causa di conversioni clamorose e di religiosità parolaia; ma che poi cercherà una soluzione più seria e, appunto per questo, più rispondente alle nuove esigenze spirituali.

Giovanni Papini è un rappresentante dell'epoca di un notevole valore negativo: ancora capace di lanciarsi in una nuova avventura con la leggerezza del giovinastro toscano ricco di atteggiamenti becereschi.

Senza per questo rinunciare a tutto un passato di lavoro incomposto e nello stesso tempo geniale, e senza dimenticare quel gruppo vociano che ebbe, nell'anteguerra, la funzione di mantenere giovane e vivace — se non sempre soffusa di vita intima — la letteratura italiana nel suo fervore di sviluppo continuo e ineguale; di immettere in Italia, partendo da punti di vista fondamentalmente errati le più disparate tendenze della letteratura europea.

Papini con la sua conversione, potrebbe apparire sotto un nuovo aspetto: temperamento stranamente dogmatico che trova la soluzione del suo travaglio adagiandosi nel dogmatismo cattolico.

Comunque rappresenta. Giovanni Papini, in qualche modo quella corrente del dopoguerra che sente assoluto il bisogno di credere.

Già siamo ai primi tentativi — che cominciano a essere coscienti — di ricostruzione: lo spirito, smarritosi nell'ubbriacatura fantastica dell'immediato dopoguerra, ora comincia a cercare sè stesso.


D'altro canto futurismo, avanguardismo e neo classicismo non possono avere un riscontro di fattività nel dopoguerra: vivacchiano come polloni che bisogna recidere, perchè l'albero eserciti utilmente altrove la sua forza fatale di sviluppo.

Fenomeni fuori di quella corrente crociana che noi ancora dobbiamo meglio sondare per poterla definitivamente superare (ciò ad conta di quello che dicono alcuni esponenti dell'odierno filosofismo). Il dominatore assoluto della situazione — magari non riconosciuta da molti, ma realmente tale per chi sappia guardare alle radici — resta Benedetto Croce con la sua opera di una chiarezza meravigliosa, ricca di attuazioni e di possibilità, distinta da una conoscenza assoluta del pensiero europeo. Croce offre l'unica via perchè questa Italia provinciale possa finalmente, in cultura, universalizzarsi e assumere una posizione degna.

Da questo punto di vista è notevole la puntata attualistica di Giovanni Gentile: l'improvvisa fortuna odierna dell'attualismo deve subire una tara perchè in buona parte frutto del camaleontismo italiano; ma l'attualismo ha degli innegabili meriti — e sarà onesto, domani, rifare i conti con esso.

Quello che importa, intanto, è il fatto che su tutte codeste esperienze negative, esiste negli spiriti più preparati, e quindi profondamente pensosi, una aspirazione a una nuova filosofia, una tendenza a ricostruire sinteticamente e concretamente.

C'è nell'aria diffuso un bisogno di approfondimenti: comincia a farsi sentire la necessità di gettare solide basi prima di innalzare le costruzioni e procedere con cautela nella scelta del materiale apprestato. Bisogna che queste costruzioni sappiano validamente opporsi all'opera edace e tenace del tempo. L'improvvisato e il provvisorio non hanno più ragione di esistere.

Ci si comincia a convincere che, se la nuova generazione ha dei diritti, deve non compiacersi di questi suoi diritti legittimi, bensì continuare nel suo lavoro di approfondimento e di chiarificazione.

Alla fine del 1921 può dirsi definitivamente superato quello squilibrio per cui prima erano state supervalutate opere di nessun valore e per cui dei volgari speculatori non solo venivano letti, ma cominciavano a preoccupare qualcuno di quei critici militanti che dovrebbero esercitare la loro missione con serena coscienza, al di sopra dei deviamenti del gusto.

Passato, tra il 1921 e il 1923, finalmente passato lo stato preoccupante di incertezza: anche la media comune dei lettori comincia a seriamente preoccuparsi nella scelta degli autori da leggere. Libri che presentavano tutte le possibilità del successo commerciale rimangono clamorosamente invenduti.

Autori, invece, che prima avevano dato segni non dubbi del loro valore estetico, e che pertanto erano stati trascurati, passano improvvisamente in prima linea; altri autori, che avevano fatto la loro esperienza nel futurismo e in altre simili scuole, buttano via il fardello logoro e inutile del loro passato, cercano tenacemente di rifarsi una verginità; e chi tra questi, ha elementi di possibilità creatrice, riesce a sotterrare il suo passato che non raccomanda e a creare qualche cosa di solido.

Si assottiglia la schiera dei giovani che nel dopoguerra si erano fatti avanti con la loro impreparazione; ma quelli che tuttavia rimangono, risoluti a lavorare e a battersi, sono indiscutibilmente i più seri, quelli, comunque, che hanno intenzione e possibilità di raggiungere uno stadio di cultura adeguato alle esigenze che caratterizzano la nuova epoca.

E se — come abbiamo notato — la quantità di coloro che si occupano di letteratura, dopo il 1921 viene man mano scemando, ciò non pertanto si chiariscono meglio i movimenti spirituali che agitano profondamente gli animi. Viene su, lentamente ma tenacemente, ciò che c'è di più originale e quindi degno di maggiore rilievo, nel caotico sommovimento d'idee e d'ideali disparati che cercano ansiosamente di raggiungere un posto notevole tra le tendenze più in vista; ma con mezzi che non temono più la luce del sole.

C'è nei più giovani la necessità di approfondire le esperienze remote e recenti, italiane e internazionali per preparare la probabile successione.

Ci sono delle esperienze inutili che impongono, volta a volta, oneste liquidazioni: e delle altre esperienze che debbono essere necessariamente valorizzate che debbono, cioè sboccare in opere d'arte di concreto valore estetico. E questi altri riperimentatori assurgono a creatori realizzando tutto quello che possono realizzare: superano il precario — da qualcuno denominato l’informe — per attingere un nuovo assoluto, vale a dire forme schiettamente nuove.

E' dovere nostro esaminare l'attività di questi creatori, che colgono i frutti della loro laboriosa giornata, per mettere in luce le loro possibili manchevolezze e ciò che hanno esteticamente realizzato.

Giuseppe Sciortino.


LIBRI

Mario Vinciguerra.Il Preraffaellismo inglese. (Collezione «Le grandi civiltà» diretta da O. Manacorda).

Bologna. Nicola Zanichelli edit.

E’ una interessante monografia, fatta con attenzione e intelligenza come tutte le opere del Vinciguerra. Lo stile, legnoso a forza d’esser compatto e disadorno, non guasta a petto della materia tanto iridescente e cangiante che deve trattare. Sebbene la parentela che le cose nostre ci hanno col movimento preraffaellista è tutta di maniera, fu tanto importato e di moda anche da noi che uno studio minuto e bene informato merita di far fortuna. Osserveremo solo che il libro sta, cosi, a mezz’aria, senz’addentrarsi a dovere nel mondo inglese, di cui rispecchia un solo aspetto esagerato e marginale. La storia retrospettiva del movimento doveva toccare persone più autorevoli e più rappresentative (Coleridge, Keats, Carlyle...), a far sentire, se non altro, qual tenue derivazione fosse la novità o il ritorno tanto decantato... Viceversa, non s’esaurisce il Wilde notandolo come uno fra gli epigoni degno di mezza pagina. Ma lo sbaglio è forse imputabile non al Vinciguerra, bensi all'ordinatore della collezione. Non si può, nella più accademica delle decadenze, cercare il segno duna civiltà.

Joseph Conrad. — Cuore di Tenebra - Versione di A. C. Rossi.

Bottega di Poesia - Milano.

Alberto Rossi è il primo, crediamo, a darci un volume — o meglio un racconto — di Conrad tradotto. Se la fortuna di questo autore fra noi sarà sempre affidata a mani tanto sagge, è da sperare che uguagli quella ottenuta in terra di Francia. Una prima parte di questo racconto è del Conrad migliore. L’evidenza della natura — uomini bruti e paese — , sempre riproposta con incidenze diverse della luce, crea il peso di una realtà dalla quale non ci è scampo. Nella insistente armonia, che placa gli orrori isolandoli da qualunque, compromesso e da qualunque compiacenza e li abbandona a una pietà così diffusa e presente che non può nemmeno raccogliersi in un grido, è il segreto, e anche il compenso, dell’onestà dello scrittore. La quale si rivela anche, sebbene tinta d’ingenuità, nella psicologia dei personaggi finali, che non hanno funzione fuori dei loro rapporti con quel regno di tenebre. Nè, in verità, Mr. Kurtz, nè il Russo, ne la fidanzata ci sembrano ricchi e intensi come altri eroi conradiani — stanno anzi a mostrare un gusto facilmente orientato verso il medioevalismo vittorughiano nel loro autore. L’eroe mostruoso infatti è tutto una lebbra e uno sfacimento fuor che la voce che tutti incanta, dai selvaggi al buffone (il russo) alla bella lontana e insospettosa... Ma se Conrad sapesse rimediare alla facilità da vecchio teatro di certi caratteri e di certe «situazioni», sarebbe perso parecchio del suo dono, che è di imporre quasi con un soffio immediato una vita universale a delle figure atteggiate fino allora come dei fantocci.

Il Teatro è malato

La malattia del teatro è la vecchiezza delle sue leggi, la tale sono gli autori che da anni ci suggeriscono gli stessi aspetti della vita: il medico che li alimenta è il pubblico con le sue abitudini. Sono queste le infermità di «prima la guerra» e saranno quelle di domani, perchè il flagello che ha invertito la realtà, purtroppo non ha conseguenza diretta in questo mondo di finzione.

Il pubblico è una tara del teatro, perchè questa «quarta parete» si interessa all'intrigo, al colpo di scena, all'Imprevisto, vuole l'episodio, la avventura il racconto: l'esprit de suite. E gli allori che hanno di mira la quarta parete, secondo Sarcey, ci hanno da circa un secolo descritto in realtà ed in dettaglio», i racconti d'amore, e avventure del danaro, le peripezie sociali, le lotte di classe ecc....

Le leggi d'intreccio e il colpo di scena, una soluzione assoluta, un quadro definito, un ritratto somigliante ecc... le ricette del Faust che, ringiovanito una terza volta, ha smarrito il cammino alla croce dei venti.

Il teatro antico fu narrativo. I due terzi di un dramma indiano, d’una tragedia greca, sono delle vellute di scorcio e dei racconti; descrizione ed eco dell azione lontana.

Le macchine drammatiche shakesperiane sono episodi, seguiti di brani lineari, non aventi quella concentricità che è la forma delazione; immenso cerchio che da ogni punto irradia la sua luce verso il fuoco centrale.

Il divino Will e gli spagnuoli creano così il teatro «feuilleton», profumato di poesia, il teatro panorama. Le loro azioni drammatiche si sviluppano e si svolgono come una scena girante come una visione di viaggio spirituale lungo orizzonti di sogno e sepolcri di anime.

Molière, i francesi, ci hanno data la pièce di ambienti e la commedia di carattere. Ma dipingere un milieu o un carattere è facoltà del romanzo, del frammento, del saggio psicologico.

Data dai francesi la malattia più grave del teatro moderno: la logica. Questi maestri incontestabili del genere hanno stabilito il dramma logico: una premessa ed una conseguenza: un inizio, dei punti di sosta, la discussione: il quesito e la soluzione, una per ogni caso, per ogni tesi, per ogni dilemma. Per il nostro teatro, come nel greco e nell’inglese, la morte ha il ruolo magnifico di conseguenza, di problema risoluto, di irrevocabile.

Ma già la radice del male era nel teatro greco, dove l'oratoria, che è la seconda natura degli elleni, ha impresso le sue orme profonde. La tragedia è una forma dell’oratoria: esordio, sviluppo di fatto, risalire alle idee generali, perorazione. Oratoria in azione: processo ricostruito dal poeta, fatto di sangue rievocato con gli elementi del giudizio che deve valutare la colpa.

Se il teatro greco nasce dall’oratoria, il teatro francese porta le stigmate dello spirito e dell’epoca: la filosofia, l’ipotesi, il dilemma, il caso, il procedimento logico.

Il teatro shakesperiano è invece materiato di storia; di contrasti apparenti, di realtà irriducibili. Epoche, epopee di un popolo e di un’anima, con tutte le inconseguenze, le ingustizie, le illogicità. Ma anche qui proiezioni sullo schermo, fra le linee dell’arco scenico, di un inizio e di una fine; anche qui il preconcetto che vi siano nella vita delle conclusioni, delle decisioni.

Oratoria, filosofia e storia: ecco dunque le basi del teatro sino alla seconda metà del secolo XIX. Antitesi di idee e rappresentazioni di persone, leggende dissepolte, uomini ' che portano sulle spalle «un fatto», apparenze dialogale e astrazioni, museo di pensiero, ritratti di morti. Questo è stato il teatro sino all'avvento dei Nordici. I quali hanno ereditato questa struttura, questa macchina, questo procedimento di scene, d'insieme, di dialogo e di trucco, di unità: ma hanno portata la quarta infezione, la psicologia. Del museo dell'armata fanno un gabinetto di storia naturale: hanno drammatizzato la materia sociale, hanno proiettati degli spiriti aggrappati ad un’azione.

Un’ultima infezione, l’infezione lirica. Si è convenuto di chiamare lirico ogni brano in versi e di un epoca leggendaria, di racconti di fate realizzati da jupes- verde- nilo. Liberiamoci anche da questo pregiudizio, unico avanzo del teatro romantico, anch’esso logico ed oratorio perchè nutrito di antitesi, e spazziamo il grande cammino dove passeranno gli dei della musica umana.

Achille Ricciardi.


G. B. PARAVIA & C.

EDITORI — LIBRAI — TIPOGRAFI

TORINO — MILANO

FIRENZE — ROMA — NAPOLI — PALERMO

Nella Biblioteca Paravia di Filosofia o Pedagogia abbiamo pubblicato la ristampa di

G. VIDARI


Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico.


....uno sguardo sintetico dato allo sviluppo storico del nostro pensiero pedagogico, il quale, d’altra parte, rappresenta in maniera molto significativa uno degli aspetti più interessanti e importanti dell’anima nazionale....

Questo volume (guida e ausilio allo studioso) non può essere ignorato dai nostri insegnamenti e — come tutti i volumi della Biblioteca Paravia di Filosofia e Pedagogia - dovrebbe far parte di tutte le Biblioteche Magistrali e scolastiche.

PIERO GOBETTI Direttore responsabile. Soc. An. Tip. Ed. «L’ALPINA» - Cuneo