Il Baretti - Anno II, n. 4/Angelini
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ANGELINI
Da più di un anno sono usciti i due libretti in cui Cesare Angelini ha raccolte le cose sue che gli erano più care. I titoli dei due libretti sono entrambi candidissimi ad un tempo e carichi di sottili e «piasi maliziose intenzioni. S'intitola Il lettore provveduto una raccolta di saggi sugli scrittori più in vista che siano oggi in Italia: ed è una specie di voyage autour de sa chambre che l’autore compie accompagnandosi, volta a volta, con Baldini o con Linati, con Gotta o con Papini. Il lettore provveduto: un titolo che sa un pò di don Bosco, come Angelini stesso con un amabile e arguto sorriso commentava tra gli amici.
L'altro libro è intitolato Il dono di Manzoni, e riunisce alcuni discorsi pieni di grazia e di affetto che furono composti non senza un certo disegno d'insieme, nell’anno del centenario manzoniano. Angelini non si proponeva di verificare o di inaugurare qualche sbalorditiva teoria critica sul grande Manzoni, nè di capovolgere le prospettive entro le quali i lettori attenti ed intelligenti sogliono ritrovare i loro Promessi Sposi. Bastava a lui di notare le tracce del suo passaggio d’uomo acuto e mite a traverso quelle pagine immortali: di isolare, rileggendoli con accento personale, qualche episodio o qualche frase. Ed era già contento se gli riusciva di far sentire ai suoi ascoltatori che l'addio ai monti, poniamo, ha il suono ed il respiro lirico di un coro di tragedia. Forse Angelini poteva mettere come epigrafe del suo libretto la frase con cui Anatole France si sbarazzava da tutti i crucciosi dibattiti intorno alla critica: se essa sia qualcosa di assoluto o di relativo, se possa o non possa riuscire obbiettiva. Le bon critique est celui qui raconte les aventures de son âme au milieu des chefs-d’oeuvre ».
Angelini è, nel concerto della critica italiana, la voce bianca: quella a cui sembrano riservati di diritto le fioriture, i trilli, i dolci vocalizzi. Ad altri il più grave compito di segnare i bassi fondamentali. Da quando De Robertis lo presentava ufficialmente come lettore al pubblico della «Voce», egli ha seguitato coscienziosamente ad esercitare quest'ufficio, che — nello stato presente delle lettere nostre — non è privo di una galante ed indulgente avedutezza. Davanti ad una letteratura che ben poco, o nulla, produce di essenziale, chi accetti di dichiararsi semplicemente un lettore può permettersi di parlare anche se non sollevi dei fieri problemi che riuscirebbero soverchi e inadeguati; può avanzare le sue censure senza dovere, ad ogni minuto, piagnucolare sulla morte della poesia; può manifestare per questo o quello scrittore delle simpatie letterarie od umane, senza cader nel pericolo e nel ridicolo di prendere troppo sul serio cose che non se lo meritano. Al lettore, più che al critico dichiarato, è lecito essere curioso dello scrittore preso in qualità di uomo privato, con tutte le sue doti personali e le sue caratteristiche, le quali non sempre coincidono con ciò che dai libri traspare: e Angelini deve più d’ogni altro aver frequentato familiarmente i suoi contemporanei per via di conversazioni e d'amichevoli epistolari. Cosi l’abbiamo veduto commemorare l’Albertazzi citando preziosi frammenti di lettere del defunto novelliere. Quando poi, d’uno di cotesti scrittori, esca un'opera nuova — allora Angelini si fa sulla porta di casa e, ancora una volta, accoglie lo scrittore come amico, con l'aria di seguitare una conversazione interrotta. Queste accoglienze di Angelini sono improntate ad una urbanità soavissima ed a tenera cerimoniosa dimestichezza. In lui l’abito del sacerdote cattolico sì riconosce anche per una squisita educazione e per una tal quale misura e cortesia di modi in cui si ravvisa la lunga tradizione di quel polito vivere sociale che distingue i migliori ecclesiastici — e quella gentilezza di costumi che non discorda dalla severa rigidità delle massime di vita morale.
Angelini si professa innamorato del «suo bel Renato Serra». Serriano egli è di fatti; ma il Serra che egli ha tolto a modello è — più ancora che il letterato acutissimo, — il mistico amatore e vagheggiatore della bellezza letteraria. Angelini ha tolti da Serra, e li ha moltiplicati, gli sfoghi paesistici e descrittivi, un poco sensuali con cui quegli tentava di liberarsi dai dubbi di un’analisi critica troppo pericolosamente indugiata e sottile. Senonchè il nostro ha ridotto quei modi — da commenti marginali che erano e, in fondo, indiretti motivi critici — a pretesti per colorire e miniare i piccoli paesaggi e idilli di cui molto si piace. Il pericolo è di cadere in una certa leziosaggine, che gli fu di fatto rimproverata; ma dove sono buone, le pagine di Angelini sono davvero piene di delicate cose naturali: sapor di frutti, color di cielo, mormorii di fronde e canzoni d'uccelli.
Prezzolini racconta che Alfredo Panzini disegna, davanti ad ogni capoverso, un piccolo fiore. Se l'aneddoto già non esistesse e non fosse già riferito a Fanzini, mi piacerebbe inventarlo per Cesare Angelini.
g. d.