Il Baretti - Anno II, n. 4/Enrico Thovez
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Enrico Thovez.
Quando Enrico Thovez pubblicò, nel 1910, «Il pastore, il gregge e la zampogna», parve ad alcuni che la cultura giovane, con quel libro, sì contrapponesse all’insegnamento classicistico del Carducci e volesse impedire lo svolgimento d’una rinascenza che appunto dal Carducci doveva prendere le mosse. Adesso e probabile, che non riesca difficile intendere quel libro — che era un manifesto romantico — come una delle più significative espressioni, e la più legittima derivazione dell’influsso carducciano; documento conclusivo di un periodo che indicava la tarda maturazione del romanticismo italiano. Il Thovez interessò molto, fu molto discusso; ma restò preso nell’equivoco. Egli stesso credeva di aver detto una parola nuova e di essersi schiusa la via ad un’affermazione personale nel campo della creazione. Quel libro aveva le intenzioni di una prefazione al poeta; ma il poeta non c’era e fu probabilmente esaurito dalla preoccupazione di determinarsi in un ordine critico che alla poesia doveva restare estraneo. La nuova generazione, invece, aveva realmente superato il carduccianesimo e iniziava attraverso un rapido esame delle esperienze compiute fuori d’Italia e particolarmente in Francia, le sue ricerche d’una lirica pura. Il Thovez era destinato a restar fagliato fuori da questa storia in gran parte fallimentare, perchè aveva troppo gusto per rimettercelo e non era più tanto immaturo per pensare a formarsi una nuova sensibilità.
Rimase, dunque, estraneo al movimento letterario, il cui centro si è spostato a poco a poco da Firenze, a Roma, a Milano; e i giovani non ebbero più occasione di riferirsi a lui. La sua attività, d’altra parte, sembrava colpita dalla malinconia di non aver trovato sbocco nel canto, e prese il tono signorile ma dilettantesco d’un esercizio appartato e dignitoso d’uomo fine e colto che è stato abbandonato dalla passione e dalla persuasione. Le prose «di combattimento» successive al Pastore avevano un tono estetico: non obbedivano a una necessità intima di pensiero. Non avevano un centro e non miravano ad una organicità. Thovez era rimasto una promessa, che non poteva essere adempiuta. Perchè era un epigono. I suoi saggi lirici erano sulla linea di sviluppo metrico e formale delle Odi Barbare, i suoi saggi critici si esaurivano in una ricerca di sincerità che, come valore sentimentale e psicologico, non valeva di più della dedica carducciana alla «piccola Maria». Non aveva condannato Petrarca?
La notizia della sua morte è trascorsa, come le altre che la cronaca ci porta dal passato, con molta tiistezzu ma quasi silenziosa. Thovez valeva più della sua opera. Li commemorazione può anche non parer generosa. Ma nessuno in Italia ha potuto dir diversamente. Thovez, che noi amammo, è veramente morto.
Luca Pignato.