Il Baretti - Anno II, n. 14/Il teatro del colore
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Appia | Rougena Zatkova | ► |
IL TEARO DEL COLORE
Oggi lo spettatore un po’ rotto alle nostre navigazioni teatrali più non vede la scena. Anche quando è ispirata a sfarzo o a snobismo — senza, per quello, uscire dal solito quadro realistico — lo sguardo dello spettatore è condotto a scrutare tutt’al più una finestrella contorta o la fragilità indefinibile d’un mobiletto misterioso. Generalmente, non appena il velario s’è aperto, buttiamo sulla scena un rapido sguardo che ci ambienti in una convenzione: interno, esterno, salotto, giardino. Subito dopo veniamo agli attori dimenticando praticabili e fondali che continueremo a vedere, per usare un termine dei fotografi, sfocati: e l’esistenza d’un apparecchio telefonico — trillante personaggio, nucleo di preordinate vicende altrimenti ineffabili — ci sorprenderà poi col suo squillo.
Il realismo delle nostre scene, come tutte le malattie non gravi divenute croniche, lo avvertiamo soltanto a qualche fitta più acuta: bisognerà che chi voglia tentare il rinnovamento della nostra messinscena abbia mezzi adeguati adeguati e saldo cuore per non dover poi subire troppi patti e troppe transazioni. Meglio l’eccesso del cauto procedere per assaggi.
La resistenza da vincere è nei gusti del pubblico che non ha gusto; e la pretesa di educarlo sino a creargliene uno non può provocare che sorde opposizioni in un primo tempo irriducibili. Ardua e meritoria impresa quella di disavvezzare il pubblico delle nostre platee dal paragonare la camera da letto della protagonista con la propria o con quella che vorrebbe avere: di convincerlo che un ambiente scenico deve stare a un ambiente reale come il quadro di un pittore a una fotografia. Ma per far ciò occorre indirettamente affrontare la credenza più vasta che il quadro debba tendere alla fotografia e le condizioni pratiche del nostro teatro: l’estrema mobilità delle compagnie, l’impossibilità di rinnovare frequentemente gli scenari, la figura del direttore di teatro esistente soltanto per funzioni puramente amministrative, il disprezzo dei nostri pittori, infine, per il «mestiere» dello scenografo.
Ma oggi della messinscena e dei suoi problemi si parla quanto di un poeta esotico: è già molto. Oggi nella danza si tende a scorgere una nuova forma d’arte che per certi trapassi e per certi scorci possa sostituire il dramma parlato: è già troppo. In tempi di poeti i problemi della messinscena e della danza vengono tutt’al più lasciati a scenografi e a mimi: in tempi di povertà lirica d’aridità torbida e inquieta possono assurgere a notevolissima importanza.
Saldo cuore dovette avere Achille Ricciardi per il suo sogno sognato per quasi vent’anni nel suo eremo d’Abruzzo. Tramonti e albe sulla Maiella dovettero apparirgli come cosmiche anticipazioni dei suoi drammi mutevolmente trascolorantisi: e il problema del «tono» dovette in lui divenire ossessivo. La morte lo colse ancor giovane, non appena ottenute le prime realizzazioni del suo sogno col sacrificio del podere paterno, mentre s’accingeva a ritentare in paesi stranieri la sua avventura colorata. Rimangono di lui il ricordo di quel suo amore quasi mistico per la scena e alcuni scritti un po’ febbrili, più organici che limpidi, ricognizioni teoriche di una tra le più ardite pattuglie che contro il realismo scenico abbia avuto la guerriglia accesasi in questo scorcio del novecento.
Al suo teatro di Colore il Ricciardi era giunto per ricerche e accostamenti sempre delusi dal suo desiderio di assoluta conclusione alle premesse. In Meyerhold e in Bakst aveva trovato la prima fusione tra movimento, musica e colore: di quest’ultimo Craig ed Erler gli avevan cofermata la potenza descrittiva. Tutti i precedenti tentativi di realizzare la scena rendendola partecipe del dramma eran stati tentativi statici: la scena era tale dall’inizio alla fine dell’atto o del quadro senza fondamentali variazioni. Nell’averla resa coloristicamente dinamica stanno il progresso e il merito del Ricciardi. Vedremo se ciò sia stato una scoperta o una trovata.
Il sistema ricciardiano potrebbe far suo il vecchissimo motto: «Ogni paesaggio è uno stato d’animo. E’ ovvio che lo stesso oggetto, lo stesso sfondo che noi vediamo in un determinato momento non è lo stesso che noi vediamo in un altro istante in cui il nostro animo soggiaccia a forze e a impulsi diversi. Il dramma non è che successione e conflitto di vari stati d’animo: perchè, se chiesto il Ricciardi, l’ambiente scenico dev’essere estraneo alle vicende delle persone come se esse e l’autore del dramma fossero gelidi, assenti spettatori e non i protagonisti e il poeta che nella concitazione o nei silenzi desolati d’una scena certamente vedono e sentono l’ambiente diverso da quello abbozzato nella primissima didascalia?
L’Oulianow, al Teatro di Mosca, cercava il tono dominante di ogni singolo atto o quadro: per la noia desolata dall’afa delle prime ore d’un pomeriggio d’estate la sintesi visiva era nel predominio di un giallo cupo su di un giallo diafano leggero: ma le zone chiare e le zone scure erano immote dall’inizio alla fine dell’atto o del quadro. Il Ricciardi vuol invece seguire tutti gli stati d’animo dei personaggi coll’avvicendarsi di varie tonalità di colori sugli oggetti che costituiscono l’ambiento scenico circostante. Anche le persone del dramma diventano schermo a proiezioni colorate: e tutta la persona o parte di essa sarà variamente illuminata a seconda del suo stato d’animo e di quello degli altri protagonisti: che verrano così a vivere la loro vicenda in un camaleontico alone che vorrebbe esser lirico.
Il Ricciardi era partito dagli stessi vieti pregiudizi che confortano quanti credono che per rinnovare il teatro basti rinnovarne la scenografia. Essi credono che il drammaturgo non abbia, per esempio, le notazioni di colore del romanziere che può interrompere qualunque analisi o conflitto con una nota d’ambiente che quell’analisi e quel conflitto rafforzi. Essi credono che nella frettolosa e limitata realtà scenica non possano, nelle didascalie del drammaturgo, essere rese sensibili al pubblico che notazioni fondamentali: alba, tramonto, lampo, tuono; e di ciò si confortano ricordando che sul palcoscenico le ore son di venti minuti e che in altri cinque al più si passa dal giorno alla notte.
Essi dimenticano che il drammaturgo ha per nota fondamentale la battuta: e che raramente la efficacia d’una didascalia è diversa dalla trovata e dall'effetto. La battuta cecoviana o ibseniana è talmente ricca di scorci di sfondi e di ritorni (per parecchie scene di Cecov e di Isben si potrebbe tracciare una guida tematica), è tanto essenziale nel tessuto connettivo della scena, dell'atto del dramma, che commossi si scorge il prodigioso rifluire d’un sangue vitale sino all’ultima piccola vena — dall’ultimo personaggio secondario alla primissima scena di preparazione. E Ibsen, Cecov e Maeterlink son giunti a un nuovo teatro giungendo anche alla scenografia: non partendo da essa.
La scenografia può e deve rinnovare sè stessa: non riuscirà mai di per sè sola a rinnovare il teatro. Quando un giorno potrà forse credere di esservi riuscita si troverà ad avere creato una nuova forma ibrida, dal teatro staccata e indipendente, un nuovo cinematografo. I teatro è dato dall’atmosfera lirica di battute coordinate in dramma: l’atmosfera lirica delle scene, dell’opera del pittore, deve fondersi e ispirarsi a quella poetica.
E come il pittore deve seguire il poeta, cosi, nel quadro scenico, la scena dev’esser dominata dall’attore. Questi è al centro del dramma: e se ne verrà scostato da un elemento extraumano divenuto protagonista — torre, drago, cipresso — ciò sarà stato sentito dal poeta nella sua sintesi creatrice: non sarà mai la sovrapposizione estranea di uno scenografo, il cui assunto è di creare un ambiente, un sfondo. Se con luci e volumi e colori questo verrà in primo piano, se contenderà agli attori il fulcro scenico del dramma si ricadrà nell’errore del Ricciardi i cui tentativi scenici (in tono assai minore e con diversità di dettagli ripresi dal Bragaglia) non ebbero successo.
Il Ricciardi era certo d'aver almeno scoperto una formula che potesse servire alla messinscena di qualunque opera, dal teatro cinese a Pirandello. E invece la sua era stata una notevole intuizione che avrebbe potuto avere dei significativi sviluppi: da lui, dopo di lui poteva sorgere il teatro del colore: non che questo dovesse retrocedere a sorreggere e confortare tutti i precedenti capolavori delle più varie letterature drammatiche.
L’errore fondamentale del Ricciardi è stato quello di non aver scritto e rappresentato dei suoi drammi colorati. Era necessario che un poeta — almeno uno — sorgesse che, scrivendo le scene dei suoi drammi avesse anche barbagli quasi allucinati di colori che intimamente migrassero quelle scene in una sostanziale necessità. Cosi non si sarebbero avute sovrapposizioni che frequentemente poterono rasentare l’arbitrio; così l’opera del fondatore del nuovo teatro non si sarebbe limitata a creare, in margine ai più diversi copioni, degli «spartiti» di seriche fettuccie colorate. E poiché il Riccardi amava di paragonare il suo teatro del colore a quello musicale, avrebbe anche potuto scegliere i suoi drammi tra quelli... già scritti: ma dichiaratamente prendendoli come canovacci, facendone «libretti» per le sue fantasmagorie luminose.
Ma qui si giunge al suo vero sogno che rasenta la profezia. Il teatro del colore non s’appagava di essere più una sconcertante trovata che una scoperta scenografica: pretendeva di donare all'umanità una nuova arte. Il paragone con la musica era facile e troppo lusinghiero. Come nel dramma musicale i più diversi stati d’animo sono frequentemente espressi dai suoni senza l’ausilio di parole cantate o recitale — e mai col preponderante ausilio del loro significato logico-lirico — , cosi, nei drammi colorati, trapassi, ritorni di situazioni precedenti, anticipi di future sarebbero dovuti essere affidati all’«elettrica orchestra luminosa».
«Facendo nelle notti scorse gli esperimenti, ho notato che durante le apparizioni cangianti la voce di un compagno di veglia si faceva più sommessa; pareva che ascoltassimo il colore nelle sue metamorfosi, pareva che il pensiero del dramma avesse origine da queste mutevoli apparizioni, e certo ho sentito che nell'ultima, nella più lontana realizzazione del nostro teatro, sarà il colore che determinerà le azioni e regolerà il ritmo del dramma, anzichè esserne l'astrazione e la sintesi.»
Certamente ebbe anche delle meravigliose disperate allucinazioni che dovettero mostrargli un mondo rinnovato dai nuovi mezzi d’espressione. Dal dramma del colore è breve il trapasso alla sinfonia dei colori: è questa dovette balzargli alla mente col tumulto mostruoso affascinante d’un’caos colorato che a poco a poco si placasse nelle nuove leggi di un’arcana armonia. Il suo golfo mistico doveva essere il cielo: gli strumenti della sua orchestra innumerevoli proiettori. Forse, ai legni, agli ottoni, ai timpani, alla celeste, dovevan corrispondere toni fondamentali: e ognuno avrebbe dovuto poter parlare tutto un suo linguaggio.
Nello stellato fisso delle notti estive d’Abruzzo i suoi occhi dovettero sognare turbe di popolo convocate per lo spettacolo che, nuovissimo in tempi lontani, era ormai divenuto un rito d’arte suprema. Eran narrate nel cielo meravigliose tregende di colori terribili, estasi delicate di tutta una gamma di sfumature; se gli uomini avevan rubato al che il gioco delle nubi, gli avevan donato nuovissime luci: e il mare che corrusco estendeva l’offerta, raddoppiava la fantasmagoria.
Per quel sogno il nome d’Achille Ricciardi dev’essere ricordato.
Mario Gromo.