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il baretti 59


Scenografia.

APPIA

I.

Adolphe Appia: Die Musik und die Insenierung.

In ogni opera fra la concezione e l’esecuzione è una compiuta armonia, perchè l’artista steso é preposto alla realizzazione dell’idea concepita. Soltanto nel dramma all’autore è negato di attuare la forma definitiva per cui quella drammatica è comunicata al pubblico.

Perciò: il problema della messinscena.

La messinscena, che deve esprimersi da l’idea creatrice del testo, ha lo scopo di dare un’illusione scenica la quale ci prenda così da sembrare veramente nostra e non una mistificazione della realtà.

Che andiamo a cercare a teatro?

Di bella pittura, ne abbiamo altrove e, fortunatamente, non a pezzi; la fotografia ci permette di fare il giro del mondo stando in poltrona; la letteratura ci suggerisce i quadri più seducenti e pochi son quelli così miseri da non potersi godere ogni tanto un bello spettacolo naturale. A teatro noi andiamo per assistere ad un’azione drammatica. La presenza dei personaggi nella scena permette quest’azione: senza personaggi nessuna azione.

L’attore, dunque, è quello che conta e tutto il resto gli è subordinato: è lui che andiamo a vedere, è da lui che attendiamo l’emozione ed è questa emozione che siamo andati a cercare. Si tratta dunque ad ogni costo di stabilire la messinscena sulla presenza dell’attore e di privarla, perciò, di tutto quello che contraddice questa presenza.

Come giungeremo a tal fine?

Ecco, per esempio, il secondo atto del Siegfried. Come si può rappresentare sulla scena una foresta! Intendiamoci prima su questo punto: è una foresta con personaggi, o piuttosto dei personaggi in una foresta? — Noi siamo a teatro per assistere ad un’azione drammatica; dunque qualcosa accade, in questa foresta, che non può evidentemente esprimersi con la pittura. Ecco, perciò, il punto di partenza: un tale e un tal’altro fanno questo e quello, dicono questo e quello in una foresta. Per comporre le scene non dobbiamo cercare di vedere una foresta, ma rappresentare minutamente nella loro successione tutti i fatti che vi accadono. La conoscenza perfetta del testo è dunque, indispensabile e la visione che ispirerà lo scenografo cambia così di natura: i suoi occhi dovranno fissarsi ai personaggi e penserà alla foresta come ad un’atmosfera speciale che cinge e corona gli attori, — un’atmosfera ch’egli non può cogliere altrimenti che in rapporto agli esseri vivi e mobili dai quali non gli è consentito volgere lo sguardo. Il quadro, dunque, non sarà più, in nessun momento della visione, un artifizio di pittura inanimata, ma sempre vivente. La messinscena diventa così la composizione di un quadro nel tempo; invece di cominciare da una pittura ordinata da uno qualunque ad un altro, noi principieremo dall’attore: disposti a sacrificare tutto per valorizzarne artisticamente l’azione. Ripeto, noi non cerchiamo di dare l’illusione di una foresta, bensì l’illusione di un uomo nell’atmosfera di una foresta; in questo caso la realtà è l’uomo, in confronto del quale ogni altra illusione è vana. Tutto ciò che tocca questo uomo dev’essergli destinato, — il resto concorre a creare intorno a lui l’atmosfera indicata — :se per un istante perdiamo di vista Sigfrido e alziamo gli occhi, il quadro scenico non ha necessariamente più illusione da donarci: il suo artifizio ha per scopo Sigfrido; e, quando la foresta sotto la lieve carezza del vento attirerà il suo sguardo, noi spettatori la vedremo bagnarsi di luci e ombre mobili, non scorgeremo brandelli tirati da uno spago.

L'illusione scenica è la presenza vivente dell'attore.

Le condizioni essenziali della presenza artistica del corpo umano nel dramma sono: la struttura della scena e la luce.

Parleremo della luce.

Ai nostri giorni, l’illuminazione e fatta in quattro modi: con gli apparecchi fissi, che rischiarano dall’alto e che son talvolta secondati da altri, mobili, disposti nelle quinte e sul palco.

Con la ribalta.

Con apparecchi mobili destinati a proiezioni e raggi in varia guisa.

Con l’illuminazione in trasparenza, ottenuta rischiarando il verso della scena.

L’illuminazione nuova, invece, consisterà nella luce diffusa ed in quella diretta. La prima prodotta da apparecchi immobili forniti di schermi d’ineguale trasparenza, concede di vedere la scena; la seconda prodotta da apparecchi mobili è quella, per esempio, di una fiaccola, della luna, di un’apparizione soprannaturale.

Le due luci, perchè siano germinate delle ombre fra loro, debbono essere variamente intense, senza oltrepassare un certo limite: per cui diverrebbero insignificanti.

La luce può essere attenuata naturalmente o con vetri colorati riuscendo a proiettare le immagini dalle linee più vaghe alle più precise.

Adunando i raggi della fonte luminosa su schermi di trasparenza diversa la luce è diminuita, indirizzata, fatta più intensa; le combinazioni dei colori, delle forme, dei movimenti ne variano l’effetto all’infinito.

Dunque: luci e corpi che le intersechino.

Luce diffusa per collaborare all’espressione degli oggetti.

Luce diretta per renderli più o meno visibili.

Luce colorata per miliare i rapporti tonali delle cose e creare un ambiente.

II.

Per il terzo atto del Tristano.

Il compito de la illuminazione in questo atto è indicato chiaramente dal soggetto. — Fino a che la luce è un motivo di sofferenza per Tristano, non, non sia cruciato; ma appena può sopportarne lo splendore e fugare le visioni dell’unima, il suo volto ne deve essere inondato. — Ecco la norma dello scenografo. — Per ottenere questo effetto bisogna limitare di molto la luce e far posto all'ombra. I muri del castello, come uno schermo che ripari una malata, chiudono il lato sinistro e il fondo della scena, volgendo a pena versi destra. — Le prime scene di destra, figurano egualmente l’altro lato dello «schermo», in guisa da lasciar credere di averne tolto una parte per far scorgere al pubblico quello che accade. Le due estremità del «muro» disegnano come un largo vano sul cielo e son congiunte da un’ala in legno.

A questa costruzione, segnata a grandi linee, non conviene aggiungere che gli elementi indisperabili a celare le parti scoperte e a rendere naturale l’ombra che regna sulla scena. — Per magnificare il giuoco della luce sul suolo, conviene disporre i praticabili in questa maniera.

Alla base del castello sulla sinistra della scena, è congiunto un barbacane che senza turbare la semplicità conferisce ad esso un aspetto più reale. Dal piede di questo barbacane, il suolo discende in pendio, per risalire poi a formare le radici dell’albero sotto il quale giace Tristano. — Dopo le radici, il terreno si avvalla di nuovo ma più sensibilmente, in guisa che fra l’albero e il muro figuri un sentiero — che vien dal fondo - scalato dai passi. In virtù di questa disposizione, la scena ha l’aspetto di una superficie inclinata da sinistra a destra, in maniera che la luce, battendo da destra e calando, finisce per adeguare il piede del barbacane.

Quello che, in questa messinscena, deve staccarsi sul fondo chiaro del cielo conviene che sia oggetto della più grande cura, perchè bisogna conservare al quadro, schiuso ad una superficie illuminata, il sommo della semplicità. Il punto elevato donde Kurvenal esplora l’orizzonte è situato a destra nella parte del muro che termina le prime scene per non frammentare sensibilmente la linea uniforme dell’insieme, tuttavia si scorgerà la figura di Kurvenal. S’intende che il mare non sarà manifesto a nessuno e che fra il muro e il cielo non sia nulla da vedere: la volta del cielo è pienamente azzurra, senza nuvole.

Tristano giace con il volto al vano aperto nel muro.

Converrà seguire il testo: la luce che s’indora sempre più comincia a tremolare ai piedi di Tristano, poi gli sale alla cintura, gli batte in volto, Tristano è inondato di luce, tutto quello che lo circonda è rischiarato, l’illuminazione perviene alla massima intensità; tuttavia resta molto tenue, perchè l’ala del muro che nel fondo corona la vista del cielo proietta un’ombra profonda sulla corte, la porta e l’ingresso; la luce è posseduta dai toni del tramonto. Questa intensità è breve; accentuandosi il movimento della scena, è sempre più sensibile una differenza: la scena relativamente buia, e per contro l'avanscena sempre più rischiarata da una luce sanguinosa.

I praticabili che formano la base del muro sono propizii al combattimento, Kurvenal, ferito, arriva nella luce e cade ai piedi di Tristano. Gli uomini di Mark e di Kurvenal non escono dall’ombra. In questa scena si avrà una particolare cura delle ombre dei personaggi.

L’ombra dì Mark che volge le spalle alla luce non deve cadere sui due eroi del dramma. La luce diminuisce per gradi, fino a che la scena sia fasciata dal crepuscolo sempre più vittorioso. E la tela cade su di un quadro — dai toni uniformi — in cui l’occhio non distingue, più, che l’ultimo riffesso del tramonto rischiarare lievemente la bianca veste d’Isòlda.

Edoardo Persico.


IL TEARO DEL COLORE

Oggi lo spettatore un po’ rotto alle nostre navigazioni teatrali più non vede la scena. Anche quando è ispirata a sfarzo o a snobismo — senza, per quello, uscire dal solito quadro realistico — lo sguardo dello spettatore è condotto a scrutare tutt’al più una finestrella contorta o la fragilità indefinibile d’un mobiletto misterioso. Generalmente, non appena il velario s’è aperto, buttiamo sulla scena un rapido sguardo che ci ambienti in una convenzione: interno, esterno, salotto, giardino. Subito dopo veniamo agli attori dimenticando praticabili e fondali che continueremo a vedere, per usare un termine dei fotografi, sfocati: e l’esistenza d’un apparecchio telefonico — trillante personaggio, nucleo di preordinate vicende altrimenti ineffabili — ci sorprenderà poi col suo squillo.

Il realismo delle nostre scene, come tutte le malattie non gravi divenute croniche, lo avvertiamo soltanto a qualche fitta più acuta: bisognerà che chi voglia tentare il rinnovamento della nostra messinscena abbia mezzi adeguati adeguati e saldo cuore per non dover poi subire troppi patti e troppe transazioni. Meglio l’eccesso del cauto procedere per assaggi.

La resistenza da vincere è nei gusti del pubblico che non ha gusto; e la pretesa di educarlo sino a creargliene uno non può provocare che sorde opposizioni in un primo tempo irriducibili. Ardua e meritoria impresa quella di disavvezzare il pubblico delle nostre platee dal paragonare la camera da letto della protagonista con la propria o con quella che vorrebbe avere: di convincerlo che un ambiente scenico deve stare a un ambiente reale come il quadro di un pittore a una fotografia. Ma per far ciò occorre indirettamente affrontare la credenza più vasta che il quadro debba tendere alla fotografia e le condizioni pratiche del nostro teatro: l’estrema mobilità delle compagnie, l’impossibilità di rinnovare frequentemente gli scenari, la figura del direttore di teatro esistente soltanto per funzioni puramente amministrative, il disprezzo dei nostri pittori, infine, per il «mestiere» dello scenografo.

Ma oggi della messinscena e dei suoi problemi si parla quanto di un poeta esotico: è già molto. Oggi nella danza si tende a scorgere una nuova forma d’arte che per certi trapassi e per certi scorci possa sostituire il dramma parlato: è già troppo. In tempi di poeti i problemi della messinscena e della danza vengono tutt’al più lasciati a scenografi e a mimi: in tempi di povertà lirica d’aridità torbida e inquieta possono assurgere a notevolissima importanza.

Saldo cuore dovette avere Achille Ricciardi per il suo sogno sognato per quasi vent’anni nel suo eremo d’Abruzzo. Tramonti e albe sulla Maiella dovettero apparirgli come cosmiche anticipazioni dei suoi drammi mutevolmente trascolorantisi: e il problema del «tono» dovette in lui divenire ossessivo. La morte lo colse ancor giovane, non appena ottenute le prime realizzazioni del suo sogno col sacrificio del podere paterno, mentre s’accingeva a ritentare in paesi stranieri la sua avventura colorata. Rimangono di lui il ricordo di quel suo amore quasi mistico per la scena e alcuni scritti un po’ febbrili, più organici che limpidi, ricognizioni teoriche di una tra le più ardite pattuglie che contro il realismo scenico abbia avuto la guerriglia accesasi in questo scorcio del novecento.

Al suo teatro di Colore il Ricciardi era giunto per ricerche e accostamenti sempre delusi dal suo desiderio di assoluta conclusione alle premesse. In Meyerhold e in Bakst aveva trovato la prima fusione tra movimento, musica e colore: di quest’ultimo Craig ed Erler gli avevan cofermata la potenza descrittiva. Tutti i precedenti tentativi di realizzare la scena rendendola partecipe del dramma eran stati tentativi statici: la scena era tale dall’inizio alla fine dell’atto o del quadro senza fondamentali variazioni. Nell’averla resa coloristicamente dinamica stanno il progresso e il merito del Ricciardi. Vedremo se ciò sia stato una scoperta o una trovata.

Il sistema ricciardiano potrebbe far suo il vecchissimo motto: «Ogni paesaggio è uno stato d’animo. E’ ovvio che lo stesso oggetto, lo stesso sfondo che noi vediamo in un determinato momento non è lo stesso che noi vediamo in un altro istante in cui il nostro animo soggiaccia a forze e a impulsi diversi. Il dramma non è che successione e conflitto di vari stati d’animo: perchè, se chiesto il Ricciardi, l’ambiente scenico dev’essere estraneo alle vicende delle persone come se esse e l’autore del dramma fossero gelidi, assenti spettatori e non i protagonisti e il poeta che nella concitazione o nei silenzi desolati d’una scena certamente vedono e sentono l’ambiente diverso da quello abbozzato nella primissima didascalia?

L’Oulianow, al Teatro di Mosca, cercava il tono dominante di ogni singolo atto o quadro: per la noia desolata dall’afa delle prime ore d’un pomeriggio d’estate la sintesi visiva era nel predominio di un giallo cupo su di un giallo diafano leggero: ma le zone chiare e le zone scure erano immote dall’inizio alla fine dell’atto o del quadro. Il Ricciardi vuol invece seguire tutti gli stati d’animo dei personaggi coll’avvicendarsi di varie tonalità di colori sugli oggetti che costituiscono l’ambiento scenico circostante. Anche le persone del dramma diventano schermo a proiezioni colorate: e tutta la persona o parte di essa sarà variamente illuminata a seconda del suo stato d’animo e di quello degli altri protagonisti: che verrano così a vivere la loro vicenda in un camaleontico alone che vorrebbe esser lirico.

Il Ricciardi era partito dagli stessi vieti pregiudizi che confortano quanti credono che per rinnovare il teatro basti rinnovarne la scenografia. Essi credono che il drammaturgo non abbia, per esempio, le notazioni di colore del romanziere che può interrompere qualunque analisi o conflitto con una nota d’ambiente che quell’analisi e quel conflitto rafforzi. Essi credono che nella frettolosa e limitata realtà scenica non possano, nelle didascalie del drammaturgo, essere rese sensibili al pubblico che notazioni fondamentali: alba, tramonto, lampo, tuono; e di ciò si confortano ricordando che sul palcoscenico le ore son di venti minuti e che in altri cinque al più si passa dal giorno alla notte.

Essi dimenticano che il drammaturgo ha per nota fondamentale la battuta: e che raramente la efficacia d’una didascalia è diversa dalla trovata e dall'effetto. La battuta cecoviana o ibseniana è talmente ricca di scorci di sfondi e di ritorni (per parecchie scene di Cecov e di Isben si potrebbe tracciare una guida tematica), è tanto essenziale nel tessuto connettivo della scena, dell'atto del dramma, che commossi si scorge il prodigioso rifluire d’un sangue vitale sino all’ultima piccola vena — dall’ultimo personaggio secondario alla primissima scena di preparazione. E Ibsen, Cecov e Maeterlink son giunti a un nuovo teatro giungendo anche alla scenografia: non partendo da essa.

La scenografia può e deve rinnovare sè stessa: non riuscirà mai di per sè sola a rinnovare il teatro. Quando un giorno potrà forse credere di esservi riuscita si troverà ad avere creato una nuova forma ibrida, dal teatro staccata e indipendente, un nuovo cinematografo. I teatro è dato dall’atmosfera lirica di battute coordinate in dramma: l’atmosfera lirica delle scene, dell’opera del pittore, deve fondersi e ispirarsi a quella poetica.

E come il pittore deve seguire il poeta, cosi, nel quadro scenico, la scena dev’esser dominata dall’attore. Questi è al centro del dramma: e se ne verrà scostato da un elemento extraumano divenuto protagonista — torre, drago, cipresso — ciò sarà stato sentito dal poeta nella sua sintesi creatrice: non sarà mai la sovrapposizione estranea di uno scenografo, il cui assunto è di creare un ambiente, un sfondo. Se con luci e volumi e colori questo verrà in primo piano, se contenderà agli attori il fulcro scenico del dramma si ricadrà nell’errore del Ricciardi i cui tentativi scenici (in tono assai minore e con diversità di dettagli ripresi dal Bragaglia) non ebbero successo.

Il Ricciardi era certo d'aver almeno scoperto una formula che potesse servire alla messinscena di qualunque opera, dal teatro cinese a Pirandello. E invece la sua era stata una notevole intuizione che avrebbe potuto avere dei significativi sviluppi: da lui, dopo di lui poteva sorgere il teatro del colore: non che questo dovesse retrocedere a sorreggere e confortare tutti i precedenti capolavori delle più varie letterature drammatiche.

L’errore fondamentale del Ricciardi è stato quello di non aver scritto e rappresentato dei suoi drammi colorati. Era necessario che un poeta — almeno uno — sorgesse che, scrivendo le scene dei suoi drammi avesse anche barbagli quasi allucinati di colori che intimamente migrassero quelle scene in una sostanziale necessità. Cosi non si sarebbero avute sovrapposizioni che frequentemente poterono rasentare l’arbitrio; così l’opera del fondatore del nuovo teatro non si sarebbe limitata a creare, in margine ai più diversi copioni, degli «spartiti» di seriche fettuccie colorate. E poiché il Riccardi amava di paragonare il suo teatro del colore a quello musicale, avrebbe anche potuto scegliere i suoi drammi tra quelli... già scritti: ma dichiaratamente prendendoli come canovacci, facendone «libretti» per le sue fantasmagorie luminose.

Ma qui si giunge al suo vero sogno che rasenta la profezia. Il teatro del colore non s’appagava di essere più una sconcertante trovata che una scoperta scenografica: pretendeva di donare all'umanità una nuova arte. Il paragone con la musica era facile e troppo lusinghiero. Come nel dramma musicale i più diversi stati d’animo sono frequentemente espressi dai suoni senza l’ausilio di parole cantate o recitale — e mai col preponderante ausilio del loro significato logico-lirico — , cosi, nei drammi colorati, trapassi, ritorni di situazioni precedenti, anticipi di future sarebbero dovuti essere affidati all’«elettrica orchestra luminosa».

«Facendo nelle notti scorse gli esperimenti, ho notato che durante le apparizioni cangianti la voce di un compagno di veglia si faceva più sommessa; pareva che ascoltassimo il colore nelle sue metamorfosi, pareva che il pensiero del dramma avesse origine da queste mutevoli apparizioni, e certo ho sentito che nell'ultima, nella più lontana realizzazione del nostro teatro, sarà il colore che determinerà le azioni e regolerà il ritmo del dramma, anzichè esserne l'astrazione e la sintesi.»

Certamente ebbe anche delle meravigliose disperate allucinazioni che dovettero mostrargli un mondo rinnovato dai nuovi mezzi d’espressione. Dal dramma del colore è breve il trapasso alla sinfonia dei colori: è questa dovette balzargli alla mente col tumulto mostruoso affascinante d’un’caos colorato che a poco a poco si placasse nelle nuove leggi di un’arcana armonia. Il suo golfo mistico doveva essere il cielo: gli strumenti della sua orchestra innumerevoli proiettori. Forse, ai legni, agli ottoni, ai timpani, alla celeste, dovevan corrispondere toni fondamentali: e ognuno avrebbe dovuto poter parlare tutto un suo linguaggio.

Nello stellato fisso delle notti estive d’Abruzzo i suoi occhi dovettero sognare turbe di popolo convocate per lo spettacolo che, nuovissimo in tempi lontani, era ormai divenuto un rito d’arte suprema. Eran narrate nel cielo meravigliose tregende di colori terribili, estasi delicate di tutta una gamma di sfumature; se gli uomini avevan rubato al che il gioco delle nubi, gli avevan donato nuovissime luci: e il mare che corrusco estendeva l’offerta, raddoppiava la fantasmagoria.

Per quel sogno il nome d’Achille Ricciardi dev’essere ricordato.

Mario Gromo.


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