Il Baretti - Anno II, n. 14/Appia

Edoardo Persico

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La cultura calabrese, parte I Il teatro del colore

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Scenografia.

APPIA

I.

Adolphe Appia: Die Musik und die Insenierung.

In ogni opera fra la concezione e l’esecuzione è una compiuta armonia, perchè l’artista steso é preposto alla realizzazione dell’idea concepita. Soltanto nel dramma all’autore è negato di attuare la forma definitiva per cui quella drammatica è comunicata al pubblico.

Perciò: il problema della messinscena.

La messinscena, che deve esprimersi da l’idea creatrice del testo, ha lo scopo di dare un’illusione scenica la quale ci prenda così da sembrare veramente nostra e non una mistificazione della realtà.

Che andiamo a cercare a teatro?

Di bella pittura, ne abbiamo altrove e, fortunatamente, non a pezzi; la fotografia ci permette di fare il giro del mondo stando in poltrona; la letteratura ci suggerisce i quadri più seducenti e pochi son quelli così miseri da non potersi godere ogni tanto un bello spettacolo naturale. A teatro noi andiamo per assistere ad un’azione drammatica. La presenza dei personaggi nella scena permette quest’azione: senza personaggi nessuna azione.

L’attore, dunque, è quello che conta e tutto il resto gli è subordinato: è lui che andiamo a vedere, è da lui che attendiamo l’emozione ed è questa emozione che siamo andati a cercare. Si tratta dunque ad ogni costo di stabilire la messinscena sulla presenza dell’attore e di privarla, perciò, di tutto quello che contraddice questa presenza.

Come giungeremo a tal fine?

Ecco, per esempio, il secondo atto del Siegfried. Come si può rappresentare sulla scena una foresta! Intendiamoci prima su questo punto: è una foresta con personaggi, o piuttosto dei personaggi in una foresta? — Noi siamo a teatro per assistere ad un’azione drammatica; dunque qualcosa accade, in questa foresta, che non può evidentemente esprimersi con la pittura. Ecco, perciò, il punto di partenza: un tale e un tal’altro fanno questo e quello, dicono questo e quello in una foresta. Per comporre le scene non dobbiamo cercare di vedere una foresta, ma rappresentare minutamente nella loro successione tutti i fatti che vi accadono. La conoscenza perfetta del testo è dunque, indispensabile e la visione che ispirerà lo scenografo cambia così di natura: i suoi occhi dovranno fissarsi ai personaggi e penserà alla foresta come ad un’atmosfera speciale che cinge e corona gli attori, — un’atmosfera ch’egli non può cogliere altrimenti che in rapporto agli esseri vivi e mobili dai quali non gli è consentito volgere lo sguardo. Il quadro, dunque, non sarà più, in nessun momento della visione, un artifizio di pittura inanimata, ma sempre vivente. La messinscena diventa così la composizione di un quadro nel tempo; invece di cominciare da una pittura ordinata da uno qualunque ad un altro, noi principieremo dall’attore: disposti a sacrificare tutto per valorizzarne artisticamente l’azione. Ripeto, noi non cerchiamo di dare l’illusione di una foresta, bensì l’illusione di un uomo nell’atmosfera di una foresta; in questo caso la realtà è l’uomo, in confronto del quale ogni altra illusione è vana. Tutto ciò che tocca questo uomo dev’essergli destinato, — il resto concorre a creare intorno a lui l’atmosfera indicata — :se per un istante perdiamo di vista Sigfrido e alziamo gli occhi, il quadro scenico non ha necessariamente più illusione da donarci: il suo artifizio ha per scopo Sigfrido; e, quando la foresta sotto la lieve carezza del vento attirerà il suo sguardo, noi spettatori la vedremo bagnarsi di luci e ombre mobili, non scorgeremo brandelli tirati da uno spago.

L'illusione scenica è la presenza vivente dell'attore.

Le condizioni essenziali della presenza artistica del corpo umano nel dramma sono: la struttura della scena e la luce.

Parleremo della luce.

Ai nostri giorni, l’illuminazione e fatta in quattro modi: con gli apparecchi fissi, che rischiarano dall’alto e che son talvolta secondati da altri, mobili, disposti nelle quinte e sul palco.

Con la ribalta.

Con apparecchi mobili destinati a proiezioni e raggi in varia guisa.

Con l’illuminazione in trasparenza, ottenuta rischiarando il verso della scena.

L’illuminazione nuova, invece, consisterà nella luce diffusa ed in quella diretta. La prima prodotta da apparecchi immobili forniti di schermi d’ineguale trasparenza, concede di vedere la scena; la seconda prodotta da apparecchi mobili è quella, per esempio, di una fiaccola, della luna, di un’apparizione soprannaturale.

Le due luci, perchè siano germinate delle ombre fra loro, debbono essere variamente intense, senza oltrepassare un certo limite: per cui diverrebbero insignificanti.

La luce può essere attenuata naturalmente o con vetri colorati riuscendo a proiettare le immagini dalle linee più vaghe alle più precise.

Adunando i raggi della fonte luminosa su schermi di trasparenza diversa la luce è diminuita, indirizzata, fatta più intensa; le combinazioni dei colori, delle forme, dei movimenti ne variano l’effetto all’infinito.

Dunque: luci e corpi che le intersechino.

Luce diffusa per collaborare all’espressione degli oggetti.

Luce diretta per renderli più o meno visibili.

Luce colorata per miliare i rapporti tonali delle cose e creare un ambiente.

II.

Per il terzo atto del Tristano.

Il compito de la illuminazione in questo atto è indicato chiaramente dal soggetto. — Fino a che la luce è un motivo di sofferenza per Tristano, non, non sia cruciato; ma appena può sopportarne lo splendore e fugare le visioni dell’unima, il suo volto ne deve essere inondato. — Ecco la norma dello scenografo. — Per ottenere questo effetto bisogna limitare di molto la luce e far posto all'ombra. I muri del castello, come uno schermo che ripari una malata, chiudono il lato sinistro e il fondo della scena, volgendo a pena versi destra. — Le prime scene di destra, figurano egualmente l’altro lato dello «schermo», in guisa da lasciar credere di averne tolto una parte per far scorgere al pubblico quello che accade. Le due estremità del «muro» disegnano come un largo vano sul cielo e son congiunte da un’ala in legno.

A questa costruzione, segnata a grandi linee, non conviene aggiungere che gli elementi indisperabili a celare le parti scoperte e a rendere naturale l’ombra che regna sulla scena. — Per magnificare il giuoco della luce sul suolo, conviene disporre i praticabili in questa maniera.

Alla base del castello sulla sinistra della scena, è congiunto un barbacane che senza turbare la semplicità conferisce ad esso un aspetto più reale. Dal piede di questo barbacane, il suolo discende in pendio, per risalire poi a formare le radici dell’albero sotto il quale giace Tristano. — Dopo le radici, il terreno si avvalla di nuovo ma più sensibilmente, in guisa che fra l’albero e il muro figuri un sentiero — che vien dal fondo - scalato dai passi. In virtù di questa disposizione, la scena ha l’aspetto di una superficie inclinata da sinistra a destra, in maniera che la luce, battendo da destra e calando, finisce per adeguare il piede del barbacane.

Quello che, in questa messinscena, deve staccarsi sul fondo chiaro del cielo conviene che sia oggetto della più grande cura, perchè bisogna conservare al quadro, schiuso ad una superficie illuminata, il sommo della semplicità. Il punto elevato donde Kurvenal esplora l’orizzonte è situato a destra nella parte del muro che termina le prime scene per non frammentare sensibilmente la linea uniforme dell’insieme, tuttavia si scorgerà la figura di Kurvenal. S’intende che il mare non sarà manifesto a nessuno e che fra il muro e il cielo non sia nulla da vedere: la volta del cielo è pienamente azzurra, senza nuvole.

Tristano giace con il volto al vano aperto nel muro.

Converrà seguire il testo: la luce che s’indora sempre più comincia a tremolare ai piedi di Tristano, poi gli sale alla cintura, gli batte in volto, Tristano è inondato di luce, tutto quello che lo circonda è rischiarato, l’illuminazione perviene alla massima intensità; tuttavia resta molto tenue, perchè l’ala del muro che nel fondo corona la vista del cielo proietta un’ombra profonda sulla corte, la porta e l’ingresso; la luce è posseduta dai toni del tramonto. Questa intensità è breve; accentuandosi il movimento della scena, è sempre più sensibile una differenza: la scena relativamente buia, e per contro l'avanscena sempre più rischiarata da una luce sanguinosa.

I praticabili che formano la base del muro sono propizii al combattimento, Kurvenal, ferito, arriva nella luce e cade ai piedi di Tristano. Gli uomini di Mark e di Kurvenal non escono dall’ombra. In questa scena si avrà una particolare cura delle ombre dei personaggi.

L’ombra dì Mark che volge le spalle alla luce non deve cadere sui due eroi del dramma. La luce diminuisce per gradi, fino a che la scena sia fasciata dal crepuscolo sempre più vittorioso. E la tela cade su di un quadro — dai toni uniformi — in cui l’occhio non distingue, più, che l’ultimo riffesso del tramonto rischiarare lievemente la bianca veste d’Isòlda.

Edoardo Persico.