Il Baretti - Anno II, n. 1/Martini
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MARTINI
Della Firenze granducale Ferdinando Martini è un sopravvissuto: tutto il nuovo mondo venuto formandosi negli ultimi decenni, abiti di vita e di cultura, problemi e tormenti spirituali, gli è estraneo: è rimasto volto all’indietro verso l’età, nella quale trascorse la sua giovinezza, ed ebbe affetti e passioni e luoghi e persone care, disparso tutto nel profondo del tempo.
Posizione particolarmente felice, perchè la tarda età e la distanza degli anni gli consentono ora quella sorta di amore distaccato, venato di rimpianti, che si porta alle rimembranze di un tempo che fu. Ne nasce un’atmosfera suggestiva, tutta particolare: e i fatti perdono gli stacchi violenti, le tinte calde, i contrasti d’ombra e di luce; tutto s’appiana in un dolce chiarore, che ogni cosa ugualmente rivela e dipinge, dandole giusto risalto e appropriato colore. La ragione e il sentimento, il sereno giudizio dello storico e il cuore del poeta, del pari concorrono nel creare una tale visione del mondo: posato ragionare, calmi affetti, bonaria ironia.
Questo atteggiamento, consueto al Martini, è tutto esplicito in «Confessioni e Ricordi di Firenze Granducale». Manca al Martini la forza di crearsi un proprio mondo, extratemporale, nel quale vivere da gran signore, dettando leggi, facendo e disfacendo a suo piacere: l’arte sua nasce tutta in margine alla storia, come una serie di attente postille: più che un creatore, egli è un delicato alluminatore del gran libro di Clio. La gioia di ricostruire fatti, luoghi, persone, è centrale nel suo temperamento: interesse storico che è però schiettamente psicologico. Altri ha giustamente notato come nella storia egli ricerchi l’aneddoto, il fatterello, e come le grandi cose s’impiccioliscano nelle sue mani: ma perchè la notazione sia esatta, è necessario comprendere l’intima causa di questa costante riduzione del trascendente storico alle anime dei singoli attori. Neppure i luoghi hanno autonomo valore nell’arte martiniana, chè solo gl’importano per le persone che li abitarono, per i vestigi di vita che serbano; assai rara è la contemplazione obliosa di paesaggi e di monumenti goduti per la loro bellezza sola. Ciò che principalmente lo attrae è l’uomo: non l’uomo ritratto, «sub specie aeterni», in quella che noi ameremmo chiamare psicologia metafisica, nella rarefatta atmosfera ove si aggirano, fra sovrumane passioni e sovrumani pensieri, le grandi anime; bensì l’uomo sociale, quello che può vedere il buon senso della psicologia spicciola, mosso da piccoli e comuni sentimenti, da piccole e comuni idee: a questo livello ridotti anche gli uomini più insigni.
Egli difatti non riesce nei romanzi e nelle commedie di tipo sentimentale, moda secolo XIX, ove si tratta di creare personaggi agitati da vere passioni. Se ne prenda uno qualsiasi. «La Marchesa», per esempio; e si vedrà la falsità generale del libro derivare dall’impossibilità del Martini a vivere esseri tragici: il primo a sorridere incredulo delle loro declamazioni è il romanziere; sebbene non giunga a tal punto di raffinata ironia, da distruggere egli medesimo le proprie creature, che sarebbe la salvezza.
È ormai cosa sin troppo ovvia e pacifica che il meglio della passata produzione martiniana è da cercarsi negli articoli, ne’ quali appunto l’attitudine a ricostruire avvenimenti, a ritrarre persone e luoghi ha libero campo. Qualità ben più profonda questa dello spumeggiante gioco di arguzie, onde sono intessute certe agili cicalate, che valsero al Martini la fama — inferiore a’ suoi meriti — di elegante causeur alla francese, tipo Faguet. Non si può certo negare che il suo sottile gusto psicologico, il suo modo di far l’articolo storico-letterario in forma di ritratto, lo ricolleghino alla tradizione del Sainte Beuve. Ma l’interesse che lo muove è molto più limitato e meno profondo: non spazia nei secoli; si aggira cautamente tra argomenti contemporanei o vicini. Il Sainte Beuve ha trovato la sua forma nei «Portraits», curioso e amorevole vagabondaggio in cerca di fratelli lontani; il nostro scrittore, invece, nelle «Memorie», ove l’interesse sì fa più caldo e più vivo, trattando di persone e di cose da lui medesimo conosciute. L’ultimo Martini giova a farci comprendere, come non potevamo prima, quello di ieri. Passano in seconda linea quelle che erano potute apparire note essenziali: sappiamo che il suo sorriso non è la smorfia dell’uomo di spirito contraente il glabro volto alla stirata freddura, ma la manzoniana ironia di un moralista, che indulgentemente sorride delle umane debolezze. E le qualità più profonde, che si disperdevano in una superficiale dilatazione giornalistica, si raccolgono intorno a un nucleo limitato sì, ma preciso. Possiamo ora definire con certezza Ferdinando Martini come il poeta di un ristretto mondo provinciale, ricreato con un appassionata indagine psicologica.
La storia che lo ispira non è quella composta nella solenne lontananza dell’eterno, quella che ci raffiguriamo con un brivido fra le rovine di Roma antica, o per le vie di un nobile comune italico. È una storia vicina e l'affettuosa nostalgia dell’irrevocabile passato vela dì mestizia il ricordo.
Oltre che per questo loro incanto particolare, le «Confessioni» sono il capolavoro dello scrittore e uno dei libri più belli della presente stagione letteraria per altre rare virtù artistiche. Il Martini è un grande ritrattista. Come stagliano nette le aggrinzite sue figure sullo sfondo grigio, popolato di vecchie case! Come emergono coi loro tabarri e coi loro cilindri 1850! Tutto un mondo vien fuori, un mondo di ritratti, di macchiette, di uomini o celebri o ignoti, felicemente fissati con un tratto sicuro di penna. Vero toscano, egli disegna all'antica, come un quattrocentista, col solido nerbo di un Pollaiolo: punta secca, contorni angolosi, rilievi evidenti. Pure nulla in lui dell’artista puro, che gode nel ritrarre un pezzo di realtà esteriore; non un tratto inutile non un elemento puramente decorativo: l’aspetto fisico dice il morale.
Lo stile è di una deliziosa finezza, fuso con le cose, perfettamente aderente al suo amore di ritrattista. Si è tanto discusso sulla prosa del Martini. — Accademica? toscana? — Ma la sua prosa è lui: senza compiacimenti retorici, senza ricerche liguaiole. Quando un uomo sa raccontare così, con tanta felicità nativa, bisogna riconoscere che vi troviamo dì fronte a uno scrittore di razza. Compostezza e sobrietà, pochi particolari, che acquistano suggestivo valore in una perfetta costruzione.
Uguale ambiente, uguale arte nell’ultima novella: «A lie riposa-»: un paesello, piccole passioni, piccoli pensieri e piccole lotte: uomini di minuscola statura, guardati con quel particolare sorriso, che inchiude la simpatia e la burla, l’indulgenza e la critica. Gli avvenimenti sono di portata acconcia alla levatura degli uomini; ed è difficile leggere alcunché più gustoso di queste beghe comunali che vanno crescendo a poco a poco fino a sommergere il povero assessore Giovaccino, tragicomico protagonista della semplice storia: una tempesta in un bicchier d’acqua. Le vicende di Pieriposa hanno degno epilogo in questa catastrofe, narrata con scherzoso tono di epica solennità: noi sentiamo tutta la tristezza di tali dolori, meschini in sé, ma troppo grandi per l’anima che deve portarli; e proprio ci tocca il cuore l’angoscioso precipitare dì questo regno di cartapesta. La cappelliera, «simboli e custodia delle passate grandezze», che si erge sulle valige e sui sacchi nell’alba della gelida e grigia mattinata di gennaio, riassume tutto il finissimo contrasto. «Sic transit gloria mundi; la gloria degli accessori di provincia, dei loro cilindri e dei loro discorsi, come le altre tutte. Ma com’è amaro questo sorriso! Non è più il sollazzevole scherno, caro ai fiorentini: c'è qualcosa di un più profondo umorismo.
Di tal sorta è l’arte del venerando scrittore, arte di altri tempi e di altre generazioni letterarie. «A Pièriposa - novella all’antica»: nel titolo c’è tutto Ferdinando Martini.
Edmondo Rho.