Il Baretti - Anno II, n. 1/Renato Serra
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RENATO SERRA
Serra Pascoliano
Fondamentalmente il mondo spirituale di Renato Serra, è pascoliano.
Come per il poeta di S. Mauro, anche per lui esistono due realtà trascendenti la nostra vita spazialmente e temporalmente, in virtù delle quali se per la prima l’uomo è un granel di sabbia nel vasto mondo quanto il mondo lo è nell’infinito universo, per la seconda la sua vita non è che l’ombra d’un sogno e un soffio nell’uguale eternità del tempo.
Spirito in altro modo fine, non era arrivato che in parte ad accettare il molochismo del Pascoli. Sì, il mondo del Pascoli autore del Ciocco era in parte anche il suo; solo che, più ironico del poeta di Myricae, non gli riusciva di ricavare da essa la concezione ottimistica e palingenetica che si trova nel pascoliano Avvento (e non solo qui), e nella leopardiana Ginestra.
Di fronte alla morte come di fronte alta vita l’uomo non poteva che rimanere solo: chiuso nel suo piccolo mondo impenetrabile agli altri, quanto corazzato davanti ai tentativi letificanti d’evasione.
Se avesse avuto da natura un cuore meno nobile, con una concezione della vita di tal genere, il Serra sarebbe potuto diventare un cinico; non rimase clic uno squisito temperamento di scettico e di blasè, intento sì agli spettacoli della natura quanto ai moti del suo animo, curioso e geloso di conservare nel «flusso eracliteo» che lo spauriva, sè stesso, quale sola realtà di cui non poteva dubitare.
Ricordate il periodo finale della sua magnifica Partenza di soldati! «E tutto il flusso eracliteo che mi spaura, l’infinito che mi rapisce in ogni punto dell’universo; il passato che non ritorna, i molti che si aggiungono l’uno all’altro, tutto si risolve nell’uno e nell’identico.
«Una cosa non è l’altra. Ma continua l’altra. Ma non ci son cose. Ci sono io. (Kim. Chi è Kim?)». {Stampa, 30 Novembre 1923).
Direste che questa fosse la conclusione potuta scrivere da urto scolaro di Croce e di Gentile, se non sapeste che Renato Serra collaboratore della «Voce», «rivista dell’idealismo militante», stimava così poco i suoi amici del «gruppo fiorentino», da non desiderare neppure di conoscerli.
Fra i tanti non strinse amicizia che col De Robertis, appartenente come ognuno sa, all’ultima «Voce» a quella esclusivamente letteraria ed artistica del 1914-1915.
Ma non parliamo di questi, né degli uomini politici vociani che il giolittiano e tripolino Renato Serra aveva in uggia; poiché non è nei nostri intenti di fare qui ad essi il processo per «tutto il male» che hanno fatto; molto più che Serra seppe prestissimo immunizzarsene collo starne lontano e col pensare ad altro. L’abituale indolenza ed il naturale scetticismo, quanto il giovanile insegnamento carducciano di Severino Ferrari, gli impedirono di diventare uno scolaro dei maestri surricordati, ma del Croce specialmente, di cui non rimase mai altro che un lettore ammirato, per rivendicare anche di fronte a lui la sua libertà di uomo e di pensatore; siccome il Carducci coll’esempio gli aveva insegnato.
Il Pascoliano Serra tra il Croce ed il Carducci
Dobbiamo credere ciò anche se quale critico cercante nell’opera d’arte e di poesia il momento lirico puro (intuizione), ci potessimo ritenere in diritto di considerarlo uno scolaro del direttore della «Critica»; senonchè noi non sappiamo quanto deva a lui, più che al Pascoli teorico d’estetica del Fanciullino, od al Carducci che gli aveva insegnato a scoprire, di sotto le macerie dell’erudizione c della storia le sorgenti vive dell’ispirazione e della poesia; se proprio non vogliamo risalire al Bergson che meditava e seguiva.
Certo tutta la sua opera di critico è inspirata all’intuizionismo; certo nessuno più di Renato Serra, per il suo scetticismo e per il suo innato senso d’arte e buon gusto, era in grado di apprezzare il portato di quella filosofia, che gli riesciva inoltre più cara, in quanto faceva esclusivamente consistere nell’intuizione, base di ogni espressione artistica, l’unica e sintetica possibilità espressiva del nostro spirito.
Da cotesto intuizionismo, all’edonismo frammentarista il passo è breve; non si tratta nell’un caso come nell’altro, che di successive manifestazioni del notato scetticismo; che troverà poi, come nel Serra l’aveva diggià trovata la propria filosofica giustificazione nel relativismo.
Qui busta dire che il Serra era arrivato alla conclusione che l’arte è la sola realtà possibile; ed il gusto la sola norma per interpretarla e capirla.
Quindi la sua critica non sarà che la misura del suo gusto artistico, e non potrà che con uno sforzo sorpassasse i limiti a cui sarà destinata: intendiamo qui riferirci ai caratteri soggettivistici ed impressionisti della sua opera critica.
Quanto il suo gusto fosse sicuro e delicato, è ancor oggi visibile nei suoi saggi; che rimangono ancora, e forse per sempre, definitivi. I suoi saggi sul Pascoli, sul Baltramelli e sull’Oriani, sono quanto di meglio si possa obbiettivamente scrivere su quei tre così diversi artisti; e faranno epoca e testo per chiunque vorrà dopo di lui occuparsene. Non è però questo il lato più interessante della complessa figura del letterato cesenate.
Anche lui ad un determinato momento s’è sentito romagnolo: incapace, com’egli stesso ha scritto nel suo Oriani, dì sentirsi puramente artista; ed ha vagamente quanto accoratamente desiderato di buttarsi nell’azione e nella lotta per conferire alla sua vita, che osservava logorarsi nelle meschine cure dell’impiego e nelle più meschine beghe di donne, di debiti, di giochi, e di vizi, nella sua piccola città di provincia, un senso più atto c virile: una maggior dignità, è da credere, ed un meno ignobile perchè.
Serra nazionalista e giolittiano.
Tutto questo socialmente dopo la tragica morte del padre avvenuta in Cesena, il 2 Gennaio 1911.
La sua già grande solitudine divenne ancor più grande: un solco profondo lo divideva ormai dal resto degli uomini che non disprezzava nè amava, e dal suo recente passato che sentiva di detestare e di dover abbandonare.
In tata solitudine trovava ora gelidi la filosofia e l’esempio del Croce; d’un esempio d’umanità aveva bisogno, e d’un anima paterna e calda che lo sorreggesse ed ammaestrasse. Istintivamente il suo sguardo ritornò al Carducci, all’indimenticato maestro della sua precoce adolescenza bolognese; com’egli stesso ha scritto nel suo saggio Carducci e Croce, pubblicalo in quei tempi nell’occasione della storica polemica carducciana tra le Cronache letterarie e la Voce.
Non possiamo esimerci dopo questo accenno di dire brevemente quale fu l’importanza della rivista fiorentina nell’epoca che la vide sorgere e morire: 1908-1915.
Altri prima di noi ne ha parlato, più o meno bene, più o meno diffusamente. Ricordiamo Prezzolini che nella sua Coltura italiana ha tentato di piazzare la «sua più cara creatura giornalistica» al centro della cultura italiana contemporanea; senza peraltro riuscire a darcene la fisionomia vera ed i peculiari caratteri.
N. Sapegno nel Baretti ha detto con molta efficacia certe verità che il Prezzolini s’era scordato di dire nella sua affrettata rassena; ciò non ostante a queste ed a quelle noi dobbiamo aggiungere alcunchè; specialmente nei riguardi della sua importanza spirituale e politica.
Presa come fenomeno isolato la Voce non avrebbe che scarsa importanza: se si volesse dar retta al primo (il direttore) ed al secondo (lo storico) Prezzolini, non sarebbe stato altro che il foglio di battaglia dell’idealismo Crociano-gentiliano: la pattuglia di punta nei confronti dello stato maggiore e dell’esercito ragruppato attorno alla Critica.
Invero non è stato che uno (l’ultimo del Prezzolini il quale vi si è cristallizzato) dei tanti aspetti, medianti i quali la generazione immediatamente più anziana nella nostra, ha manifestata la propria insofferenza al dato di fatto borghesemente anti-eroico e mediocre dell’Italia trasformista e giolittiana del primo decennio del secolo.
Quantunque sia necessario riconoscere che la politica giolittiana ha avuto in quell’epoca una funzione democratica (forse la sola possibile in una nazione da poco scampata ai governi borbonici e papali), colla sua paternalistica legislazione operaia e col suo socialismo monarchico; è ciò non pertanto doveroso ammettere che gli spiriti più colti erano sommamente seccati di tale stato di fatto, al modo stesso che lo erano i partiti operai non del tutto invigliacchiti dall’elargito benessere.
Bisogna considerare sotto tale aspetto la nascita dei vari movimenti culturali e politici, a cominciare da quelli rampollati dal positivismo e dal dannunzianesmo, sino a quelli sorti dal tronco dell’idealismo.
Ricordiamo il superomismo volontarista ed anarchico degli epigoni dannunziani sfociato poi nel nazionalismo corradiniano; il pragmatismo di Vailati e Calderoni e dei condirettori del Leonardo, Prezzolini e Papini; il modernismo cattolico del Murri e del Minocchi e dei redattori del Rinnovamento di Milano; la reviviscenza democratica cristiana sorta dapprima quale indizio della maturità sociale e politica dei cattolici italiani e sfociata poi, a guerra finita, nell’alveo del P. P. I.; il sindacalismo rivoluzionario del Leone e del Labriola mutuato dal Sorel e dai francesi ed innestato sulla filosofia del pragmatismo e su quella del Bergson; il neo-volontarismo dell’Amendola e di altri, seguaci del Kantismo; il problemismo infine salveminiano e degli unitari; e la scorribanda sconclusionata e pazza di Marinetti e soci in tutti i campi dello scibile, dopo che i naufraghi di molti sistemi e stili, Soffici e Papini, ebbero loro dato il crisma colla fiorentina Lacerba.
Effettivamente a 10 anni di distanza noi possiamo oggi dire che quello di allora fu il travaglio torbido di un problema che è ancora oggi attuale e vivo nonostante la bufera fascista: il democratico problema della necessità dei partiti.
Confusamente, come tutti i giovani della sua età, anche il Serra sentì tale problema; senza peraltro proporsi di risolverlo se ne togli la sfiduciata adesione affatto intellettualistica che al nazionalismo accennò fare durante la guerra libica voluta da Giolitti contro il parere dei suoi amici unitari e vociani; ed al rivoluzionarismo mussoliniano della settimana rossa, se dobbiamo credere a ciò che ne scrive il Panzini nel suo Diario sentimentale (p. 18).
Ma tali adesioni furono superficiali e brevi; ed esclusivamente dovute all’accarezzato desiderio di evadere dal problema che sempre più profondamente e maggiormente lo urgeva: quello della meschinità della sua vita, e dell'inutilità de’ suoi sforzi.
Completamente trasformato dal fuoco vivo del dolore, ed accresciuto dal nuovo peso d’una imprescindibile esigenza etica desiderosa d’una consapevolezza contemplativa riguardante le finalità ed i destini riserbati all’uomo, il suo scetticismo si tramutò per questo nell’ottimistico fatalismo dell’Esame e delle lettere agli amici.
Sfiduciato delle proprie forze, ed ormai disperato di vincere nella cruenta lotta per l’arte e per la vita, Renato Serra s’abbandonò all’«eracliteo flusso», lasciandoci senza resistenza prendere e vivere. Nella disperazione Bergson trionfava.
L’Esame di coscienza.
Questa è veramente l’atmosfera spirituale dell’Esame di coscienza, e lo stato d’animo con cui ha saputo affrontare la morte.
E’ troppo presto per parlare di questo. Intratteniamoci ancora un poco sul suo classicismo e sulle sue consolazioni.
Abbiamo già detto del suo ritorno al Carducci: abbiamo pure detto che tale ritorno andò parallelo a un rinascita dell’esigenza etica e morale, che sembrò in un primo tempo dovesse oscurarsi davanti ai seducenti allettamenti dell’edonismo.
Non si dimentichi che tale rinascita morale ebbe vaghi desideri di definirsi nelle concrete forme della vita politica e civile, senza peraltro riuscirci. Ma importa ancora dire come riusci invece a definirsi nel francescano-panico sentimento di sentirsi tutt’una cosa cogli uomini e colla vita nelle magnifiche pagine del suo Pascoli in cui descrive il vialone dì Cesena coll’uomo che porta i rami col pennato, ed il poeta di Myricae mirato lungo la strada nel suo singolare aspetto di fattore di campagna e di buon romagnolo; oppure nell’Esame la sua passeggiata in bicicletta lungo un canale dagli argini del quale dai suoi soldati operai e carrettieri viene interrogato su «quando si partirà per la guerra» >> o pure le già ricordate pagine inedite intitolate «Partenza di soldati», e quelle dell’Esame descriventi una passeggiata del Serra richiamato sugli amati colli cesenati, nelle quali la gioia di sentirsi parte della natura e fratello degli uomini, è solo pari all’artistica felicità ed alla grande poesia.
Ebbene, che è ciò se non carduccianesimo: del Carducci maggiore e minore delle prose?
Ma non soltanto questo aveva appreso dal suo Maestro. Anche ciò che è stato chiamato il suo classicismo egli aveva appreso: vale a dire il desiderio delle cose ben nette e precise e dell’arte non soggetta ai mutevoli colori della psicologia.
Così tanto l’una che l’altra idea oltrechè quei distinti tipi dell’uomo civile ed eroico, e della poesia scultorea e definitiva, stavano sempre presenti al suo spirito quali ideali da raggiungere e quale misure da cui trarre norma per la sua condotta morale e politica e per i suoi giudizi di critico-artista; quanto per la sua instancabile ricerca stilistica che partita dall’andamento scolasticoarcaico della laurea sul Petrarca, arriva allo stile agile e forbito degli ulteriori saggi.
Dobbiamo credere che siano stati tali ideali civili ed artistici che uniti alla innata nobiltà, quali talismani abbiano avuta la virtù di tenerlo lontano tanto dai semplicismi idealistici della seconda Voce (quella esclusiva di Prezzolini), quanto dalla gazzarra lacerbiana-futurista (di fronte alla quale ci tenne ad accentuare il suo distacco coll’assumere la maschera del letterato di provincia e dell’umanista); nonché quello di rendere eroico il suo fatalismo col fargli a cuor sereno e con piena consapevolezza, ed in ottemperanza ad un dovere che sentiva solo quale dovere verso la parte migliore di se stesso, sfidare ed accogliere la morte.
Di fronte alla nobiltà del suo sagrificio sentiremmo di dover far punto, ammirati ed umiliati, se non sapessimo di dover qui dichiarare che Renato Serra lo riconosciamo ed ammiriamo come uno dei nostri: perchè, primo forse, contro la volgarità che allagava e saliva e contro la rettorica culturale ed artistica, ha iniziata la battaglia che noi ci riteniamo in dovere di proseguire
Armando Cavalli