Il Baretti - Anno II, n. 1/La Nuova Antologia

Umberto Morra di Lavriano

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Stile e tradizione Martini

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LA NUOVA ANTOLOGIA

La letteratura italiana non è popolare in Italia... precisiamo: la letteratura italiana non è in Italia femminilmente popolare, non viene di moda, non riesce a dar tono, non entra nel patrimonio della coltura spicciola e brillante. Per ciò anche essa ha un che di austero, di puro, o magari di magniloquente, come cosa non da tutti i giorni, ma da farsene belli nelle ricorrenti solennità.

Serve da impulso e modello retorico, e non d’amena compagnia nelle ore d’ozio.

Altri hanno indagato le cause di questa sua sfortuna. L’effetto è che i libri italiani non si leggono. Ne deriva uno straordinario isolamento per il letterato, una mancanza di comunità e d’intesa co’ suoi lettori, un linguaggio cui è raro trovare una viva matrice e che tende per forza verso forme antiche e estreme. Ma se è cosa difficile e sconcertata scrivere un libro, sono altrettanto difficili i mestieri intermedi, la critica, che supporrebbe una società culturalmente organica, la raccolta di scritti altrui, la cronaca; e forse è inutile affatto la compilazione delle antologie.

Ma d’altra parte, questi mestieri che non hanno da noi un’importanza sociale e non riescono a definire se l’attività d’un uomo — Sainte-Beuve italiano, se non fosse professore, chi mai ne terrebbe conto? — prendono importanza per i singoli e fungono da mezzi espressivi. Si fa sentire anche qui, la nostra esagerata individualità: quella fatica, e insieme quella felicità, di dover sempre e isolatamente comunicare con gli spiriti sommi, di sentirli vivi e attivi di fronte a noi come l’unico esempio. Per ciò ci prende l’usanza letteraria dell’imitazione: per ciò anche ci occupa in ogni campo l’ansia di creare: chè un modesto cammino dentro un’ombra studiosa, un lavoro di second’ordine ma ponderato bene e attento e infinito ci opprimerebbe come una schiavitù.

Ho preso le mosse da lontano per dire che l’antologia nuova che ho sott'occhio (I), rifatta con molta pazienza su quella uscita nel 1920, non è da guardarsi come soltanto un libro comodo pei riferimenti e amabile per il gusto che ha diretto la scelta dei passi e degli autori. La ben nota indipendenza di Papini, la arguta sensibilità di Pancrazi garantiscono un’opera, in cui, se, come dicono, è vero che non han voluto far la parte di geni originali, non ci posson per altro esser segni di piaggeria; e i peccati, se ci sono, saran tutti di severità e di disprezzo.

Non è dunque un libro d’informazione indifferente, ma un libro fatto da autori responsabili che non posson dimenticare le loro vivaci tendenze, un libro, in certo modo, di battaglia; e paragonando le due edizioni si misura lo spazio degli anni non tanto nella differenza dei prodotti raccolti, quanto nei criteri di scelta e nell’ordinamento del volume. Meglio che una breve storia delle nostre lettere si ottiene così la storia di due scrittori; o per lo meno, a traverso la loro scelta, l’idea d'una variazione di gusto che è indice di mutamenti spirituali e che, sebbene accennata dalla parola di pochi, è da ritenersi generale.

Papini e Pancrazi si misero al loro primo lavoro sùbito dopo la guerra, quando forse parve a loro che fosse maturo negli animi lo stacco dal mondo di prima e si potesse tornare a vagliare i prodotti con occhio sereno. Ritrovarono in vece, su i fogli già vecchi, tanti nemmeno raccolti in volume, li ardori e le speranze, e non credettero di certo che gli accenti spesso rotti e commossi e il consenso che si immolava nel loro animo fossero una casa caduca. Sebbene un’età si fosse chiusa, e parecchi morti, le mutate contingenze, le ambizioni degli stessi scrittori volte a mete diverse o soltanto sconvolte mettessero fra mezzo una densità d’ombra dove si potevano alimentare i dubbi, si rinfrancarono nella fede di scopritori e di vindici e portarono avanti la schiera dei loro amici in bell’ordine d’assalto. Non inutilmente era l’ora di concedere a molti una prova di popolarità, o almeno la semplice notorietà dei loro nomi, spesso sottratti al pubblico chiuso e fumoso verso la possibile riconoscenza dei più semplici lettori.

Rifare, nel 1920, un Almanacco della Voce, uso quello del ’15, vuol dire assai vociani di cuore. Si capisce anche, quasi per ragioni tecniche, che il terreno della Voce attragga degli antologisti — poiché è il terreno dove al libro si sostituisce il quaderno, quando non il saggio, l’articolo, la postilla. In verità il tono della prima edizione è schiettamente vociano, ma, per discrezione, e rompendo con le ubbie e le grettezze dei vociani combattenti, si ammettono i precedenti storici; si dà larga ospitalità ai poeti crepuscolari, il che vuol dire che si riconoscono per antesignani.

Essi infatti sono idillici; cercano e definiscono (magari con leziosaggine) la poesia staccata come un tutto, una visione che sta da sè, disancorata, remota, dietro un sipario; ma ivi soltanto le anime ingombre e gravate si dissolvono, e il segreto male si liquefà dolcemente. Ecco che la vita, anche secondo loro, è priva di funzioni concrete; si consuma e rinasce col variare della fantasia breve, o permane in penombra. La loro espressione, sinuosa, mutevole di momento in momento e perciò immediata, non ha bisogno d’architettura; libera dai sostegni logici deriva da un nulla lirico e vi muore, come un lampo che corre arbitrariamente il cielo notturno si spenge lontano senza rombo.

La stanchezza e l’affettazione delle forme consuete che. perdute nella nebbia, smorzate, aiutavano la nostalgia dei crepuscolari, farà luogo poi all’invenzione delle forme nuove; ai clamori libertari e ai fulgori incendiari; il passaggio si fa senza salti. Si mettano accanto Corazzini e Palazzeschi; o Govoni e Folgore: cambia, dall’uno all’altro, il tono; ma di grado più che di natura, come se l’animo si fosse rinfrancato e dopo le prime prove, un po’ timide o accorate, sostituisce la baldanza all’ironia. I crepuscolari giudicavano meglio, possedevano il senso raffinato, quasi morboso, delle distanze, s’abbandonavano a sommessi colloqui con gli uomini, con le cose, donde nasceva la loro pietà. Questi si fidano del giuoco d’una volontà che li illude; assumono la singolarità come una forza e si fanno centro d’un vortice in cui le imagini sono attratte e scomposte; dicono perciò il loro monologo in un mondo senz’eco, suscitato e sconvolto dal battito delle loro parole.

Entrambi sono mossi da una necessità d’indipendenza, in quanto artisti, da un’avversione per le catene che li avrebbero costretti a una mediocre rinomanza d’epigoni, alla servitù dello stile imitato. Li preme una medesima voglia di solitudine, non è diverso il senso della loro protesta; si posson tutti considerare come inconsci campioni di nuovi principi estetici. I poeti crepuscolari sono umili e guardinghi, son mansueti alle esigenze del mondo e talora pieni di civetteria; ma sotto il velo della tristezza o la finzione d’una sconfitta, quanto spesso s’indovina la gioia. La coscienza dell’artista non si turba più del proprio dolore, quando sia espresso; e dall’oscuro impulso iniziate e dalla confusa noia delle imagini che si tramutano e s’accavallano giunge infine alla chiarità del frammento.

Così la prima antologia è una specie di apoteosi del frammento. Dove non è possibile incidere perchè la continuità della mola non permette d’apprezzare gli elementi lineari e lirici, la presentazione degli autori è tendenziosa e insufficiente (Renato Serra, Ada Negri); oppure praticano dei tagli sapientemente ironici che dànno spicco alla materia più sciatta e incerta (Guido da Verona). Nel culto del frammento ci si può riconoscere una consuetudine retorica del nostro spirito, che intende la poesia come una distillata quintessenza, e la vede in forma di preciso cristallo frammezzo alle vegetazioni troppo folte e intricate; ma vi è in oltre insito uno sforzo (e uno sfoggio) assai moderno, cioè una figura di quell’attivismo che è la più consolante illusione della gente debole e esigua. Si direbbe che gli autori abbian paura di smarrirsi, se non tenessero tese e sonanti e compiute in sè una per una le linee del loro scritto, e negli oggetti che toccano e pesano più che vederli, non facessero sentire, quasi una presenza divina, la loro presenza.

Si capisce che allora tutto è poesia — tutto è potenza e mezzo d’espressione, ogni sillaba è pregna dì valore, e i periodi, uno dopo l’altro, son bandiere spiegate, larghe insegne che da sole bastano a decifrare l’animo del poeta. Le forme poetiche hanno da esser apprese internamente; il verso, non solo la rima, si deve sdegnarlo come una specie di richiamo volgare, come un «bijou d’un sou» che sta bene soltanto ai negri. Con tanto orgoglio non si riuscirà mai a interessare il prossimo, a narrare vicende umane, a far vivere e muovere persone; ma questo non importa agli scrittori che respirano nell’atmosfera d’un cenacolo.

Dove portasse la via battuta fino allora dai loro amici, e in generale dagli scrittori «moderni», fossero o non fossero futuristi, i raccoglitori dell’antologia l’hanno capito; lo dimostra la nuova edizione di quest’anno. Quel che s’è detto fin qui vale per questa edizione; i favoriti di ieri devono avere uno speciale risalto, non foss’altro per quel loro influsso che rimane tenace anche in chi se ne vuole liberare. Ma appena s’apron le nuove pagine, si ha l’impressione che ci sia più respiro; e insieme d’una scelta più umile, più attenta, taluno dirà più corriva; ma anche meglio informata. Gli scrittori riuniti son di più; le fila si sono allargate, e i più diversi o opposti paion pacificati in buona vicinanza. La raccolta non è viziata da intenzioni polemiche, è meno uniforme di prima, meno didattica, e, sotto un aspetto di più larga indulgenza, assai più vivace.

Son tornati alcuni anziani, colpiti allora da un giudizio sommario; dei nuovi, non più giovani, ce n’è dì quelli che hanno ottenuto un largo riconoscimento dal pubblico, ma che non possono garbar molto al gusto dei loro presentatori. Su tutti, anche su quelli già noti per prove di scrittura astratta, par che aliti un’aria più umana. Non conterebbero più, ora, le vicende di stile; appaiono, come un esercizio, se utile o forse indispensabile per chi è del mestiere, privo di senso generale. Per un altro verso, alcuni che giocavano beati con le imagini e coi suoni come dei tardi fanciulli, si son fatti più corporei; hanno smesso di vezzeggiare e principiato a sentire il peso dei beni e dei mali.

Comincia bene l’antologia dando uno spazio doveroso a Adolfo Albertazzi, il più vecchio e il solo defunto dei nuovi ammessi, un romanziere adatto a farsi discettare, perchè qui, nei brani che fan figura di bozzetti, raggiunge il suo pieno vigore: delicato, un pochino blando, a volte quasi profumato; ma pure fermo, e capace di contenere il variare degli accenti e dei gridi umani nella precisa cornice del paesaggio. Altri scrittori non comportano un trattamento d’antologia; ma stanno a dimostrare che si aprono ormai le vie del racconto. I novellieri d’oggi non sono innocenti; portano in sè ricordi di molte lettere, aspirano a una specie di raffinatezza psicologica che ai lettori più nostrani può sembrare esotica e falsa. Non ci dànno quindi libri animati e divertenti, ma tentativi d’un’arte che si liberi dagli schemi delta vita provinciale.

La lettura dell’antologia sarà fatta con profitto, e raddrizzerà forse parecchie opinioni. Vorrei più che altro indicare gli esempi di Cicognani, dove si vedon creature piene d’istinto, indagate con cura scrupolosa, mostrate e animate con una penetrazione scevra ormai da qualunque compiacimento; e sono liberamente acri e proterve, è patito e s’è rugato per loro il volto del loro poeta. Oppure mettere a confronto del suo estatico mondo di prima la semplice pietà di quella chiesa del Carmine dove Palazzeschi ha pianto e pregato. Vorrei anche rilevare certe esclusioni; e mi par di capire che non s’è voluto dar risalto a pagine di fronzoli letterari, a eccellenti ma sterili ricalchi, a esempi, se si può dire di pura e semplice calligrafia. La volontà dello stile era andata a parare alla sparuta noia di rifacimenti, alle note di taccuino redatte con gran sussiego; ora quelle ricche vesti si sono sgonfiate e pendono a un gancio ammencite. E’ giusto che il secentismo rudesco non sia tornato in mostra.

Non mi riesce invece di capacitarmi che nell’abbondanza degli scrittori qui annoverati non ci sia posto per Ojetti. Anch’egli sta facendo, è vero, da due o tre anni in qua dei perfetti esercizi di stile; c quando c’è meno vena si sente la mano che tituba e incaglia per uno scrupolo esagerato, quasi materiale. Ma fa il suo cammino a rovescio degli altri, il suo travaglio è, non per per una forma vuota, retorica, ma per ottenere una forma plastica, aderente e adeguata alla sua esperienza così varia, al suo spirito tanto acuto. Hanno avuto forse a sdegno, in lui, il dilettante? Hanno respinto, pel ricordo delle loro colpe passate, gli esempi staccati, frammentari, l’arte troppo controllata che tira all’effetto, la bravura un po’ giornalistica? E sa bene di mostrare questo scettico, che a forza di guardare gli atti e le pose degli uomini, o magari t loro vestiti, se li accosta e li comprende. Il disegno preciso e icastico, la chiarezza sottile sono buoni veicoli anche per la commozione.

Se ora si dovessero tirare gli oroscopi, si potrebbe dire che ci si va orientando lontano dalla letteratura chiusa e d’eccezione verso interessi panoramici e considerazioni più pacate degli eventi, che si è stanchi d’ammirare e celebrare il proprio io e si pensa di più alla responsabilità dello scrivere; tanto che, fra cinque anni, ci avrebbe da esser scarsezza, negli scritti, d’elementi lirici e un’antologia come questa non si potrebbe più rifare. Ma è meglio attenersi al presente e non esser dunque ingrati alla fatica dei compilatori nè alla schiera degli scrittori i quali attestano, quante volte han voluto rinnovare, la tenacia delle [nostre tradizioni, la plastica bontà dei nostri grandi e il peso della lunga storia che, per esser gente civile, noi si deve accettare ed amare.

Umberto Morra di Lavriano.