Ifigenia in Tauride (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio

Primo episodio

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Euripide - Ifigenia in Tauride (414 a.C. / 411 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Primo episodio
Parodo Primo stasimo


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corifea

Vedi, un bovaro, abbandonato il lido,
per recare novelle a noi s’appressa.

bifolco

Figlia di Clitemnèstra e d’Agamènnone,
i novelli messaggi odi ch’io reco.

ifigenia

Cosa è mai, che cosí turba i miei lagni?

bifolco

Due giovani schivate hanno coi remi
le Simplègadi oscure, e a noi son giunti,
vittime che saran grate ad Artèmide.
Or tu l’acqua lustrale, e quanto occorra
pel sacrificio a preparare affréttati.

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ifigenia

Chi sono? E il nome della patria loro?

bifolco

Sono Ellèni. So questo e nulla piú.

ifigenia

E neppure sai dirmi il nome loro?

bifolco

Uno dei due chiamò Pílade l’altro.

ifigenia

E il nome del compagno suo, qual’è?

bifolco

Pronunciar non l’udimmo; e niun lo sa.

ifigenia

Come li avete mai veduti e presi?

bifolco

Dell’inospite mar sovra i frangenti.

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ifigenia

Che rapporto i bifolchi hanno col mare?

bifolco

Scesi a lavare i buoi quivi eravamo.

ifigenia

A punto giungi; e come e con qual arte
li prendeste racconta: io vo’ saperlo:
ché giungon tardi; e da gran tempo l’are
porpora non bagnò d’elleno sangue.

bifolco

Spinti sul mare, ove fluisce, fra
le Simplègadi azzurre, i buoi silvestri,
giungemmo a un antro nella roccia aperto
dal flagellío del ponto: i pescatori
di porpora, soggiorno ivi hanno. E in esso
un bifolco, di noi, scorse due giovani,
e verso noi tornò, l’orme premendo
sulla punta dei piedi, e: «Non vedete —
disse — dei Numi son costí seduti».
Ed un dei nostri, un pio, come li vide,
levò la mani, e li pregò: «Figliuolo
della marina Leucotèa, Palèmone,
delle navi custode, a noi benevolo
móstrati; o entrambi voi, che su la spiaggia

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sedete, o sia che voi siate i Diòscuri
o i figli di Nerèo, che le cinquanta
Nerèidi, egregia schiera, a luce diede».
Ma un altro, un capo scarico, protervo
e senza legge, a quella prece rise,
e disse ch’eran naufraghi, e nell’antro,
per timore, cercato avean riparo,
sapendo che fra noi costuma uccidere
gli stranieri. E parve ai piú di noi
che bene egli dicesse, e per la Dea
farli prigione convenisse, e a morte
porli, com’è nostro costume. E in questa,
l’un dei foresti lascia la caverna,
e, ritto, il capo crolla in su e in giú,
e leva lagni, ed un tremor gli scote
l’estremo delle braccia, e furïoso
delira, e come un cacciatore grida:
«O Pílade, costei vedi? E non vedi
quest’altra, d’Ade dragonessa, d’orride
vipere armata contro me, che vuole
uccidermi? E quest’altra fuoco spira
dalla tunica, e strage, e volge a me
il remeggio dell’ali, e tra le braccia
stringe mia madre, un gran blocco di pietra,
per gittarmelo addosso. Ahimè tapino,
m’ucciderà! Dove fuggiamo?» — Uguali
le visioni sue sempre non erano,
anzi diverse. E i latrati dei cani
e i muggiti dei buoi, diceva ch’erano
voci imitate dalle Furie. Noi
muti ce ne stavam, rimpicciolendoci,
quasi in procinto di morire. E quello,
tratta la spada, piombò sui giovenchi

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come un leone, e tra le coste il ferro
vibrando, al fianco li fería, credendo
di respinger cosí le Dive Erinni:
sicché tutto di sangue il mar fioriva.
E allora, ognun di noi, come lo scempio
e la strage dei buoi vide, s’armò
e per chiamare i conterranei, die’
di fiato alle conchiglie: ché ben deboli
ci stimavamo, noi bifolchi, a fronte
dei due foresti vigorosi e giovani.
E fu grande, ben presto, il nostro numero.
Ora il foresto, superato ch’ebbe
l’accesso di follia, cadde, stillando
di sangue il mento. Noi, come a buon punto
lo vediamo cader, sotto a lanciargli
sassi, e vibrargli colpi. E il suo compagno
gli tergeva la bava, e lo assisteva,
e lo copriva col tessuto fitto
del peplo, e schermo gli facea dai colpi,
gli prodigava d’ogni cura il bene.
E l’altro, come dall’accesso fu
riavuto, balzò su, vide il flutto
dei nemici incombente, e la rovina
sopra loro imminente, e un grido alzò.
Dal lanciar sassi noi non sostavamo,
dall’incalzar chi di qua chi di là:
ed un appello udimmo allor terribile:
«Certo morremo; ma morremo, o Pílade,
da forti: impugna la tua spada e seguimi».
Al veder quelle due spade nemiche,
fuggimmo; e piene le rupestri valli
furon di noi; ma come uno fuggiva,
sopravvenivano altri a lapidarli,

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e, se respinti erano questi, quelli
tornavano, che prima avean ceduto,
a lapidarli. E fu visto un miracolo.
Da mille e mille mani usciano i sassi,
e niuno della Dea colpí le vittime.
Infine, a gran fatica, e non per opera
di valore, li avemmo: in giro strettili,
coi sassi a loro dalle man facemmo
cader le spade: essi in ginocchio caddero
stremati al suolo; e li portammo al re
di questa terra. Ed ei, come li vide,
li spedí senza indugio al tuo lavacro
lustrale, al sacrificio. E tu fa voto
che sempre tali, o giovinetta, siano
le stranïere tue vittime: se
tali foresti da immolare avrai,
della tua morte il fio pagherà l’Ellade,
darà compenso della strage d’Àulide.

corifea

Hai narrato portenti. E questo Ellèno
chi mai sarà, che dalle Furie invaso
a questo mare inospitale è giunto?

ifigenia

E sia. Tu va’, gli stranïeri adduci:
pensier frattanto io mi darò dei riti. —
O povero cuor mio, tu per l’innanzi
clemenza avesti ognor, misericordia
per gli stranieri, e compartivi lagrime

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alla mia razza, allor che gente ellèna
in tua mano cadeva. Or che selvaggia
m'han resa i sogni ond’io penso che Oreste
piú la luce del sol non vegga, ostile,
quali che siate, voi mi troverete.
E vero è ben, lo intendo, amiche, il detto:
non ha pietà, chi dai malanni è oppresso,
per i piú sventurati. Oh, ma non alito
mai dal cielo spirò, tra le Simplègadi,
legno non giunse ch’Elena adducesse,
onde a morte io fui posta, e Menelao,
sí ch’io di lor mi vendicassi, e un’Àulide
a lor facessi qui trovare, in cambio
di quella dove i Dànai m’immolarono
al par d una giovenca, e vibrò il colpo
il padre che mi die’ vita. Ahi, non posso
quegli onori obliar, mai: quante volte
le mani al mento di mio padre io tesi,
alle ginocchia, e le abbracciai, dicendogli:
«Padre, che turpi nozze per me celebri!
La madre, or, mentre tu mi sgozzi, e tutte
le donne d’Argo, cantan gl’Imenèi,
tutta di flauti suona la magione,
ed io da te cado immolata. Achille
non era dunque, il figlio di Pelèo,
lo sposo a me promesso: era l’Averno.
A sanguinose nozze e con la frode
qui sovra il cocchio fui condotta». E il viso
dietro i leggeri veli io nascondevo;
e fra le braccia il fratel mio non strinsi,
ch’or piú non vive, e non baciai le labbra
della sorella, per ritegno: ch’io
del figlio di Pelèo movevo ai tetti.

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E molti baci in serbo avevo posti,
ché in Argo ritornar presto credevo.
Misero Oreste, e tu, privo di quanti
beni paterni invidïati sei,
se pur sei morto! — Ed io l’incongruenza
biasimo della Dea: ché un uomo ch’abbia
un misfatto compiuto, od un cadavere
con la mano sfiorato, una puerpera,
li esclude dagli altar’, poiché li giudica
contaminati: ed essa, poi, s’allegra
di sacrifici umani. Oh, che Latona
sposa di Giove, abbia dato alla luce
tanta stoltezza, esser non può. Del pari
fede non presto a Tàntalo, che ai Numi
in pasto offrí del figlio suo la carne.
Ma le genti di qui penso, che, scudo
omicide esse stesse, alla Dea vollero
attribuire il vizio lor. Ché tristo
non è, per quanto io penso, alcun dei Dèmoni.