XI

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
XI
X XII

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IL CICLOPE

Idillio XI

Non avvi incontro Amor rimedio alcuno,
     Nicia, nè unguento, a mio parer, nè polve,
     Fuorchè le Muse. E questo mite e dolce
     Fra gli uomin nasce; ma non è sì lieve
     Il rinvenirlo. E ciò ben noto estimo
     A te, che insieme e medicante sei,
     Ed alle nove Muse assai diletto.
     Così traeva un dì fra noi la vita
     Comodamente quel Ciclope antico
     Polifemo, che amava Galatea,
     Quando nasceagli il primo pelo intorno
     Alla bocca e alle tempie. E l’amor suo
     Non eran rose o poma o riccioletti,
     Ma una smania feroce, ond’ei ponea
     Tutto il resto in non cal. Le agnelle spesso
     Fero spontanee dalla verde erbetta
     Ritorno al chiuso. Ei Galatea cantando,

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     Si distruggea sull’ermo lido algoso
     Fin dal mattino, sotto al cor recando
     Atrocissima piaga, ove gl’infisse
     La gran Ciprigna il dardo. Ei pur rimedio
     Trovava, e assiso in rilevata rupe,
     Guatando verso il mar così cantava.
Candida Galatea, perchè rifiuti
     Chi t’ama? o ben più candida a mirarti
     D’una giuncata, più d’un’agna molle,
     Superba più d’una giovenca, e cruda
     Più dell’agresto acerbo. A queste parti
     Ten vieni allor; che tiemmi il dolce sonno,
     E tosto che mi lascia il dolce sonno
     Tu rapida di qua t’involi, e fuggi
     Qual pecora al mirar canuto lupo.
     Io m’invaghii di te quando venisti,
     Con mia madre a côr foglie di giacinto
     Su la montagna, ed io facea la strada.
     Dacch’io ti vidi infino ad or più pace
     Non trovo, e tu nol curi, ah! no, per Giove.
     Io so ben io perchè mi fuggi, o bella:
     Perchè in tutta la fronte mi si stende,
     Unico, e lungo da un’orecchia all’altra
     Irsuto sopracciglio, e un occhio solo
     V’è sotto, e sopra i labbri un largo naso.
     Ma pur, qual ch’io mi sia, ben mille pasce
     Pecore, e il miglior latte i’ mungo, e beo.
     A me cacio non manca o nella state,
     O nell’autunno, o nell’estremo verno,
     E stracolmi son sempre i miei canestri.
     Io so fistoleggiar come null’altro
     De’ Ciclopi qui intorno; e te, mio caro
     E dolce pomo, e in un me stesso canto
     Sovente nel più cupo della notte.
     Undici cavrioletti ancor t’allevo,
     Che tutti han bei monili, e quattro orsatti,

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     Or qua ne vieni, e tutto quanto avrai.
     Lascia, che il glauco mare il lido sferzi.
     Più grata meco passerai la notte
     Colà nell’antro, a cui son presso allori,
     Alti cipressi, ellera negra e viti
     Di soavissim’uve, e gelid’acque,
     Onde a me l’Etna arboreggiato invia
     Dalle candide nevi alma bevanda.
     Chi fia, ch’elegga in vece il mare e l’onde?
     E quand’io sembri a te soverchio irsuto,
     Ho ben legna di quercia, e sotto cenere
     Foco indefesso, e sarò pago ancora,
     Che tu m’abbruci l’alma stessa, e questo
     Sol occhio, di cui nulla è a me più dolce.
     Ahi lasso me! perchè con l’alie al nuoto
     La madre mia non femmi, ond’io sott’acqua
     Venendo a te baciassi almen la mano
     Se la bocca non vuoi? Da me tu avresti
     O bianchi gigli, oppur di rosse foglie
     Papaver molle; ma quei sol l’estate,
     Queste mettono il verno, ond’io recarti
     Non potrei tutto insieme e l’uno e l’altro.
     Or io, donzella, qui medesmo or voglia
     Imparare a nuotar, se fia che approdi
     Qua certo forestier con la sua nave,
     Ond’io pur veggia, qual piacer vi sia
     Lo starvi in fondo al mar. Deh! Galatea,
     Vien fuori, e poi dimentica (com’io
     Fo qui seduto) il ritornare a casa.
     Meco t’eleggi il pascolar la greggia,
     Mugner il latte, e rappigliarlo in cacio,
     Facendovi stemprar l’acido caglio.
     Ella sola mia madre a me fa torto,
     E ben di lei mi lagno: a mio vantaggio
     Nulla ti dice mai, benchè mi veggia
     Più smunto divenir di giorno in giorno.

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     Dirò che il capo, e l’una e l’altra gamba
     Mi sento martellar, perchè s’affligga,
     S’io pur m’affliggo. Ah! Ciclople, Ciclope,
     Dove volò il tuo cuor? Se te n’andassi
     Ad intrecciar canestri e a brucar fronde
     Da recare agli agnelli, avresti forse
     Più senno assai. La pecora presente
     A mugner pensa; a che seguir chi fugge?
     Troverai forse un’altra Galatea
     Più bella ancor. Molte donzelle invito
     Mi fan di notte a scherzar seço, e tutte
     Brillan di gioja, quand’io lor do mente.
     Ve’ se in terra anch’io fo la mia figura!
Tal ei pasco all’amor porgea col canto,
     E miglior dì traea, che a prezzo d’oro.