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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
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IX XI

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GLI OPERAJ, OVVERO I MIETITORI.

Idillio X

Milone e Batto

O lavorante a buoi, che hai tu, meschino?
     Tu non sai più tirare un filar dritto,
     Nè mieti col vicin, ma resti addietro
     Qual dalla greggia agnella, a cui da spina
     Sia punto un piede. E qual sarai vêr sera,
     O a mezzo il dì se di mattino ancora
     Un solco non affondi?..
batto
                                             O Milon; duro

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     Lavoratore, o pezzo di macigno,
     Non mai bramar t’avvenne alcuno assente?
milone
No. Che può mai bramare un lavorante?
batto
     Non mai t’accadde per amor vegghiare?
milone
Nè mai m’accaggia. Gran periglio a un cane
     È l’assaggiar budella.
batto
                                             Ed io, Milone,
     Ha quasi undici dì, che vo in amore.
milone
Così può far chi va alla botte; ed io
     Non ho neppur, quanto bisogna, aceto.
batto
Però dinanzi a casa ho tutto incolto,
     E senza seminare.
milone
                              E chỉ t’accora?
batto
Quella di Polibuta, che sonava
     Là presso Ippocoonte a’ mietitori.
milone
Il ciel volle punir le tue peccata.
     Or sarai ben contento. Avrai la notte
     Una magra locusta in compagnia.
batto
Tu cominci a piccar. No, non è cieco
     Pluto soltanto, ma pur anche è cieco
     Lo sconsigliato Amor: Non fare il bravo.
milone
I’ nol fo già. Ma sega pur le biade,
     E di’ qualche amorosa canzonetta
     Su la tua bella; a te così ’l lavoro
     Sarà più grato. Eri pur già cantore.

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batto
La mia scarna fanciulla a cantar meco
     Venite, o Muse. Tutto quel, che voi
     Teccate, o Dee, si rabbellisce ed orna.
     O vezzosa Bombice, ognun t’appella
     Soriana, secca, abbrostolita, ed io
     Sol ti chiamo ulivastra. È bruna ancora
     La violetta, e il giacinto vergato,
     E han pur nelle ghirlande il primo vanto.
     Al citiso la capra, ed alla capra
     Va dietro il lupo, ed all’aratro il grue.
     Io per te vengo pazzo. Ah! s’io tesori
     Al par di Creso avessi, entrambi noi
     Sculti in oro staremmo innanzi a Venere,
     Tu co’ flauti, o con rosa, o pomo in mano,
     Io coi calzari in piè ben atteggiato.
     Vaga Bombice, hai lisci i piè quai dadi,
     Molle la voce, e del tuo far non parlo.
milone
Chi detto avrìa, che sì leggiadri carmi
     Sapesse il lavorante? In che bei modi
     Temprò le giuste note! Ah! perchè barba
     In van gli cresci al mento? Or tu pur anco
     Del divin Lizïersa un canto ascolta.
O fruttifera Cerere, a noi larga
     Oltr’uso dona la ricolta e piena.
     Stringete le brancate, o legatori,
     Perchè chi passa a dir non abbia: o gente
     Che un fico non valete! O che mercede
     Gettata al vento! I gambi della bica
     Volti sieno a rovajo od a ponente:
     Così la spiga ingrassa. E voi fuggite
     Il meridiano sonno, o battitori
     Del gran su l’aje, perchè allora è il tempo
     Che la pula si stacca dalle spighe.

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     I mietitor comincino il lavoro
     Quando sorge l’allodola, e dien fine
     Quando torna a dormire, e sul più calde
     Interrompano l’opra. O com’è bella,
     Figliuoli miei, la vita del ranocchio!
     Cura non ha di chi gli mesca il bere,
     Perch’ei pronto l’ha sempre a tutto pasto.
     Meglio faresti, o spenditore avaro,
     A lessar la lenticchia; e guarda bene,
     Quando triti il comin di non tagliarti.
Queste son cose che dovrian cantarsi
     Da chi lavora al Sol. Ma il tuo affamato
     Amore, o Batto, è da contare a màmmata
     Quando si sveglia la mattina in letto.