Idee del signor Sismondi sul poema di Dante

Giovanni Berchet

1912 Indice:Berchet, Giovanni – Scritti critici e letterari, 1912 – BEIC 1754878.djvu Letteratura Idee del signor Sismondi sul poema di Dante Intestazione 21 novembre 2017 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere (Berchet)/Scritti critici e letterari


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XIII

Idee del signor Sismondi sul poema di Dante


Piaccia a’ lettori di richiamarsi alla memoria l’Articolo sopra un articolo inserito nel numero 34 del Conciliatore, e la licenza chiesta loro di recare in altro numero un transunto delle considerazioni del signor Sismondi sulla Divina commedia, stampate da lui nel suo libro Della letteratura del mezzogiorno d’Europa.

È noto a tutti come quel libro incontrasse in Italia un profluvio di encomi presso alcuni, del pari che un profluvio di censure spietate presso altri. Era cosa questa da potersi facilmente prevedere. Qui, manco male, vi ha persone non poche di schietto ingegno e di probitá assoluta. Ma in buona fede bisogna pur confessare (e peccato confessato è mezzo perdonato) che fra gli italiani leggenti v’è altresí una lunga genia di mediocri, senza fuoco veruno d’entusiasmo, tenaci della loro mediocritá, stizzosi contro chiunque arrischia un passo per uscirne, e smaniosi non d’essere, ma di far da dottori. Però nella moltitudine il libro del signor Sismondi doveva trovare di necessitá anche chi lo mordesse.

Inoltre, ne’ dotti, le discordie letterarie che scompigliano il giudizio d’alcuni o lo trascinano dietro la dittatura del giudizio altrui, e fors’anche certe ragioni d’invidia, d’adulazione, d’interesse, di servilitá..., ecc. ecc. ecc., dovevano far nascere censure molte ed indecenti contro il libro di un uomo che si manifesta, per sapienza ed onestá di carattere, superiore assai assai a molti suoi contemporanei. Sia detto senz’astio e senza mira ad alcun individuo, qui, come forse anche altrove, la letteratura [p. 130 modifica] sovente non è, in chi l’esercita, fine ingenuo delle passioni, bensí stromento servile di esse.

Alieni per altro da ogni inquisizione delle coscienze, gettiamo, o buoni lettori, con buona verecondia il mantello di Sem e di Iafet su tutti i motivi segreti da’ quali possono aver mosso i giudizi intorno al libro del signor Sismondi. Crediamoli anzi innocenti tutti que’ motivi. E strignendo le diverse sentenze in un sol risultato, diciamo lealmente cosí:— Come tutti i buoni libri di questo mondo, il libro del signor Sismondi forse non sará scevro affatto affatto di passi, a’ quali una critica intemerata possa contraddire1. Ma grandi e molte bellezze e molte savie dottrine compensano largamente i pochi difetti.— Per entro a quel libro domina una sí perpetua libertá d’animo, una sí schietta ricerca del vero, un sentimento letterario cosí nobile, che, volere o non volere, all’uomo onesto è forza aver simpatia con chiunque verso il signor Sismondi eccedesse anche un pochetto nelle lodi. L’assoluta perfezione ne’ libri è come il lapis philosophorum. Studia, studia; cercalo, cercalo: nol trovi mai. E l’onestá ne’ letterati è un altro lapis philosophorum, che trovasi, è vero, qualche volta, ma tanto di rado, che pe’ galantuomini è proprio una solennitá il dí in cui giungono a raffigurarla.

Dopo questo lungo preambolo, fattovi ingozzare so io perché, eccovi, buoni lettori, quel che dice il signor Sismondi per rispetto a Dante.

Non riporto ordinatamente il testo, bensí il complesso delle idee suggerite dalla lettura di esso, usando quanto piú posso delle parole stesse dell’autore.

Prima di Dante, le poesie liriche de’ trovatori («troubadours»), le epiche de’ trovieri («trouvères») dalla Provenza e da altre parti della Francia s’erano diffuse nell’Italia, recatevi da’ normanni conquistatori della Puglia, della Calabria, della Sicilia. Imitatrice della provenzale era sorta nella prima metá del secolo duodecimo la poesia siciliana, e dalla corte di Napoli moderava il gusto poetico degli italiani. [p. 131 modifica]

La lingua latina s’era giá separata affatto dalla volgare. Le donne non la imparavano piú; e per piacere ad esse, per parlar loro d’amore bisognava servirsi dell’idioma comune, di quello ch’esse adoperando ornavano ogni dí piú di leggiadrie.

Quantunque per ben cencinquant’anni i siciliani non rivolgessero la loro poesia che ad esprimere i sentimenti amorosi, e, traviati dall’esempio degli arabi e de’ provenzali, anziché mantenere a’ canti d’amore il loro merito precipuo, la naturalezza de’ pensieri combinata colla soavitá dell’esposizione, lasciassero il semplice per correr dietro al ricercato, all’ammanierato; eglino pur nondimeno erano giunti ad occupare i primi gradi nel favore della moltitudine. I loro versi erano popolari, se non per altro, almeno per ragione di lingua e di metri; come popolari altresí erano le forme epiche ed epico-liriche dei romanzi e de’ poemi de’ trovieri.

Prima di Dante, alcuni uomini d’indole ardente avevano indirizzata tutta l’energia dell’anima a’ misteri della religione, mettendo ammirazione nell’universale e suscitando coll’esempio proprio l’energia altrui. San Francesco e san Domenico avevano create nuove milizie religiose, piú entusiastiche e piú attive di quanti ordini di monaci esistessero per l’addietro. L’attivitá di quelle milizie, le prediche, le persecuzioni sanguinose, ecc. ecc., avevano rianimato lo zelo spirituale de’ cristiani. Le lettere, rinate cogli studi religiosi, avevano pigliata una certa quale tinta scolastica. Il cielo, il purgatorio, l’inferno erano sempre sempre presenti all’immaginazione degli studiosi, dei devoti, del popolo, di tutta insomma la cristianitá. Vedevano i credenti quegli oggetti cogli occhi della fede, ma pur sotto forme materiali; tanto i predicatori s’erano per mille modi ingegnati di proporzionarli al concepimento popolare.

Venne Dante. Pose mente a tutta la suppellettile poetica lasciatagli da’ trovatori e dai trovieri ed alla popolaritá loro. Pose mente alle poesie de’ siciliani ed alla popolaritá della loro lingua e de’ loro metri. Pose mente allo spirito religioso, meditativo, teologico, scolastico del suo secolo, ed alla popolaritá di tutti gli argomenti desunti dalla fede. Vide che nessuno de’ poeti [p. 132 modifica]moderni, che lo avevano preceduto, s’era giovato abbastanza dell’arte onde scuotere fortemente le anime, e che nessun filosofo era penetrato nei recessi del pensiero e del sentimento.

Però Dante, consigliato dalla potenza del proprio intelletto e dal concorso di tanti materiali poetici che lo circondavano, pensò che questi, quantunque tuttavia informi, avrebbero potuto servire alla costruzione d’un edificio sublime insieme e popolare. E invece de’ canti d’amore, invece de’ madrigali freddamente ingegnosi e delle allegorie false o sforzate, concepí nell’alta sua immaginazione tutto il mondo invisibile, e stabilí di svelarlo poeticamente agli occhi intellettuali degli italiani.

L’argomento scelto da lui a cantare era per quel secolo il piú interessante, il piú elevato, il piú profondamente religioso, il piú popolare di quanti argomenti potessero venire in capo ad un poeta. Era inoltre collegato piú strettamente di qualunque altro con tutte le passioni politiche de’ tempi, con tutte le memorie di patria, di gloria, di fazioni civili, di virtú e di delitti magnanimi, perocché tutti i morti illustri dovevano ricomparire innanzi a’ viventi su questo nuovo teatro aperto dal poeta. E finalmente per la sua immensitá fu il piú nobile e piú sublime argomento che mai venisse immaginato dal concetto umano.


Grisostomo.

Note

  1. A giudizio d’alcuni, ciò potrebbe riferirsi per avventura a qualche parte delle opinioni dell’autore sul Calderon e sul Petrarca.