I rossi e i neri/Secondo volume/XXXII
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XXXII.
Veteris vestigia flammae
Aloise non lesse più oltre; richiuse il libro, si rannicchiò rabbrividendo contro la scranna, e si fece scorrere lentamente le palme sugli occhi, come chi si desti a mala pena, e tenti cacciare le immagini tuttavia presenti d’un orrido sogno.
Il duca di Feira si avvicinò.
- Orbene, figliuol mio; - diss’egli con accento di tenerezza paterna, - avete letto?
Aloise sollevò la fronte a guardarlo. Il povero giovine era come istupidito dal dolore, e durò fatica a riaversi. Scosse il capo più volte, trasse a stento un sospiro dal petto, e stese finalmente la mano all’amico, in quella che le sue labbra mormoravano un grazie, in cui parve mettere il fil di vita che ancora gli rimaneva.
- Vivrete? - gli domandò il duca, stringendo quella mano tra le sue.
- No; - rispose il giovine, a cui la dimanda svegliò un subito incendio nel sangue; - ora, più che mai, sono deliberato di finirla.
- Per una donna che non vi ama! - notò, crollando mestamente il capo, il vecchio gentiluomo.
- E che perciò? - proruppe impetuoso Aloise. - Non m’ama, e sia. Non lo sapevo io già? Non ero io venuto a morire per questo? Le pagine che voi, signor duca, mi avete poste pietosamente dinanzi, comunque doloroso, sono a mala pena un compendio delle amarezze che hanno abbeverato il mio cuore. Non m’ama! Dovevo prevederlo fin da quel giorno che la vidi per la prima volta; dovevo ricordarlo innanzi di avvicinarmi a lei, e di accogliere in seno una bugiarda speranza. Ma, che volete? ero un fanciullo. L’ho amata; come si vive, come si respira, per arcana necessità, senza darmene ragione, senza pure averne coscienza. Fui pazzo, a credere che un giorno ella avrebbe potuto aver compassione di me; pazzo, tre volte pazzo! L’amore è il pane degl’infelici. Bisogna aver patito, per intendere che sia, come faccia dimenticare il mondo, i suoi dolori, le sue fallite promesse, una dolce parola, un sorriso, un bacio della creatura che soffre con noi. Essa ebbe assai miglior sorte. Chi più di lei felice nel mondo? Quali venture le mancarono, quali promesse della sua gioventù le vennero meno? La sua vanità ebbe un trono, un altare; e colassù giungono i profumi: ma la nube vaporosa non consente di scorgere il volto; l’altezza non consente di udire la preghiera degli adoratori modesti. E sta bene: il mondo è vanità. A che l’amore? Questo affetto malnato, a cui non è un tormento, è una nausea. Dovevo capirla, tener chiuso il mio segreto nel profondo del cuore, affogarlo nella mia rabbia, non darlo, come ho fatto, in balìa dello scherno.
- Aloise, suvvia, siate uomo; poichè così bene conoscete il dolore, abbiate l’ardire di guardarlo in faccia. Siete giovine e forte; l’insegnamento vi giovi. Rifate la vostra vita. Aloise; provate la voluttà, amara ma nobile, dello aver vinto voi stesso. Lo avete ieri veduto; pur dianzi, in quelle tristi pagine, si sono offerte ai vostri occhi le fila sottili e lontane che vi dovevano involgere. Stringerete voi, colle vostre mani, il nodo che già stava per rompersi? Darete voi la vittoria ai vostri nemici? Vivete, Aloise, i dolori come il vostro, non devono distruggere, ma ritemprare la vita: l’uomo antico sparisce, e in noi sottentra un altr’uomo, più forte, più animoso, più sperimentato alle pugne.
- No, vi adoperate invano; - rispose il giovine, - io non valgo più a nulla; io sono mortalmente ferito. Amo, amo fieramente, disperatamente amo; non lo avete voi inteso? Questo male non ritempra le forze; di questo male si muore. Non lo credete? Ah, voi non avete amato mai al pari di me, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione soffocata nel cuore!...
- Ingiusto! disse il vecchio, con accento di arcana mestizia.
- Perchè? - dimandò Aloise, che lo vide impallidire ad un tratto.
Ma il duca di Feira non rispose alla sua dimanda, e dopo una breve pausa, durante la quale stette cogli occhi chiusi, come chi raccolga tutte le virtù dell’animo e dei sensi ad uno sforzo supremo, proseguì concitato:
- Ah credete voi, giovinotto, che chi di tanti anni v’ha preceduto nella vita non v’abbia preceduto ancora nel soffrire? Credete che i vostri affanni siano i soli, e i più forti che uomo provasse mai? Che basti il dire, ecco io muoio, e rompersi le tempia con un colpo di pistola, per dimostrare al mondo, a sè stessi, di avere amato davvero? Sappiatelo da un vecchio, che ne’ suoi dolori ha imparato a compatire gli altrui; non ama sempre più fortemente chi muore, chi si sottragge all’angoscia. V’ha chi vive, ed è peggio. Voi avete amato fieramente, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione nel cuore; or che direste voi della disperazione di un uomo che, giovine, avesse amato e sperato; che fosse stato sul punto di raggiungere la felicità, e questa d’improvviso gli fosse ghermita, ed egli avesse chinato la testa, e si fosse rassegnato a rispettare il diritto di un altro; che amando fortemente, amando a tal segno da non accogliere più altro affetto nel cuore, si fosse pur tuttavia sacrificato a vivere, ad avere mai sempre davanti agli occhi della mente la felicità di un altr’uomo, a noverare i giorni colle angosce, gli istanti tutti colle trafitture del cuore, a vivere insomma di continuo nelle tenebre, dopo aver veduto il sole, desiderandolo sempre, e senza speranza di salutarlo mai più?
- Orribile martirio! - esclamò dolente Aloise.
- Ed è stato, ed è il mio! - soggiunse il duca di Feira con un accento che andò diritto al cuore del giovine. - E in nome di questo martirio, Aloise, io ve ne prego; vivete per me, se non volete per voi. Voi lo dovete, poichè ho molto patito. Siete fermo nel vostro fiero proposito? E sia; non morrete già solo; le vostre armi basteranno per due. -
A quelle inaspettate parole, il cui senso era così chiaro e riciso, il giovine balzò in piedi turbato.
- Signor duca, - diss’egli lentamente, quasi volesse scolpire le sue parole nella mente del vecchio, - questo mi fa tornare al principio del nostro dialogo. Se voi non giungevate in mio soccorso ier l’altro, io sarei morto infamato, e, sebbene senza mia colpa, come vi è noto, una brutta macchia sarebbe rimasta sul mio nome, sull’unica parte di me che dovrà soppravvivermi. Mercè vostra, io posso morire tranquillo, portare con me il mio onore nella tomba. È un ottimo guanciale, - aggiunse Aloise con funebre arguzia, - e franca la spesa di ringraziare chi ce l’ha offerto, in quella che noi eravamo sul punto di perderlo. Vedete che io vi son grato; vedete che io intendo il pregio di ciò che avete fatto per me. Ora, perchè mi vietereste voi il riposo che la mia stanca anima invoca? Perchè, dopo essermi stato cortese, mi vi fareste nemico? Chi siete voi? Qual diritto avete di porvi in tal guisa come un ostacolo, tra me e il mio destino? Qual vincolo ci unisce, perchè vogliate morire con me?
- Un vincolo, sì, l’avete detto; - rispose il duca con accento solenne, - un vincolo sacro; vostra madre! -
Vostra madre! All’urto improvviso, che tale poteva dirsi veramente la frase del duca, Aloise si scosse, diè un passo indietro, e un fremito gli corse per le vene. Il viso attonito, lo sguardo perplesso, quasi sgomentito, che volse in quel punto al vecchio gentiluomo, lasciavano indovinare che un abisso di fosche immagini, di pensieri informi, di arcane paure, s’era schiuso nella sua mente. Ma fu un lampo; Aloise si padroneggiò, risospinse nel nulla tutte le larve che quella frase aveva tratte dal nulla, e con voce tremante per commozione, ma altiera, saettò con queste parole il duca di Feira:
- Signore, io sono il figlio di Alessandro di Montalto. -
Il vecchio fu colpito a sua volta, e più fieramente che non credesse Aloise. Quante amarissime ricordanze ridestava, quante acerbe trafitture gli rinnovava in petto quel nome! Stette saldo tuttavia, e rispose con uno sguardo soave a colui che lo aveva percosso.
- Sì, figliuol suo! - si fece egli a dir poscia. - Voi potete portare altieramente il suo nome, e ricordar vostra madre come la più pura, la più santa delle creature che siano al mondo vissute. Vostra madre, Aloise, - e qui la voce del vecchio si fece tutta tremante, - vostra madre fu cosa di cielo venuta in terra perchè gli uomini non dicessero la virtù un nome vano; vostra madre.... Ma venite, Aloise; qui non è luogo da ragionare di lei. Là, in quelle stanze dove ella ha udito i vostri primi vagiti, dov’ella ha vegliato su voi, bambino innocente, ignaro degli alti dolori della vita, dov’ella ha passato i suoi ultimi anni, dov’ella è morta benedicendovi, là, in quel santo luogo dove io non potrei mentire, se pure volessi, vi parlerò di lei, vi dirò chi io sia, perchè venuto a gettarmi tra voi e la morte, a dirvi: vivete, Aloise, vivete per me! -
Le lagrime brillavano sugli occhi, tremavano nella voce del duca di Feira. Aloise si lasciò pigliare per mano, e trasognato, commosso, smarrito, lo seguì verso l’uscio.
Varcarono silenziosi il salotto e la vasta anticamera, in capo alla quale, di rimpetto al quartierino d’Aloise, erano le stanze di sua madre. L’uscio era aperto, e si scorgeva lume per entro. La mano di Antonio si ravvisava colà; ma il giovine, confuso come era, non pose mente a ciò. Egli non aveva coscienza di nulla: seguiva il duca di Feira colla istintiva cura d’un fanciullo che muove i piccoli passi sull’orme di chi lo conduce.
Giunse per tal modo nel pensatoio di sua madre, e si affacciò sulla soglia della camera da letto, che era rischiarata dal fioco lume d’una lampada notturna, come se la marchesa fosse stata colà, dormente sotto il suo padiglione di damasco violetto. Il duca di Feira, che lo precedeva, come fu in mezzo alla camera, barcollò a guisa d’uomo che abbia toccata una ferita improvvisa; ma, innanzi che Aloise accorresse a sorreggerlo, come difatti colle braccia tese accennava di voler fare, raccolto quel tanto di forza che ancora gli rimaneva, giunse fino alla sponda del letto, dove cadde ginocchioni, e diede in uno scoppio di pianto.
Aloise stette tacito, ma profondamente commosso a guardarlo. Sua madre era un angelo; e quell’antico, inginocchiato, piangente, adorava sua madre. In quella vivente immagine dell’amore che vince la morte, era alcun che di così santo, di così schiettamente sublime, che il figlio di Alessandro Montalto, il superbo Aloise, sentì sciogliersi il gelo del cuore, e corrergli mutato in ardenti lagrime alle ciglia. Ma il piangere gli parve poco, al cospetto di un così alto dolore; però avvicinatosi al duca, gli pose affettuosamente le braccia al collo, e col più tenero accento che mai figlio adoprasse per parlare a un padre, gli disse:
- Voi soffrite!
- No, sono lagrime soavi, le mie; - rispose volgendosi il duca, mentre, da lui sostenuto, veniva sollevandosi a mezzo. - Da gran tempo io non ne avevo più sparse di tali. Grazie, Aloise, grazie della vostra amorevolezza! Vedete? Sono tranquillo. Oh, Dio santo, - proseguì, traendo il giovine presso la lampada. - Aloise, figliol mio d’adozione, ultimo affetto del mio cuore, come somigli a tua madre! -
Inspirato da un senso, da una voce arcana di pietà, il giovine reclinò la sua bionda testa sul petto del vecchio gentiluomo, ed un bacio, un lungo bacio frammisto di lacrime, scese a bagnargli la fronte. In quel bacio si confondeano tre spiriti.