I rossi e i neri/Secondo volume/XXV
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XXV.
Nel quale i lettori più scarsi d’ermeneutica avranno la spiegazione della "Prima dei Corinzii"
Com’era avvenuto tutto ciò?
Per raccontarlo ai lettori, dobbiamo rifarci alcune ore indietro, e cercare Aloise Montalto nel suo quartierino di via Balbi.
In che stato fosse l’animo del giovine, ci è noto dalle parole del Collini, il quale aveva mandato il Ceretti ad esplorare, col pretesto di comperar la Montalda. Ma noi dobbiamo soggiungere che quel negozio delle cambiali non era il solo argomento della tristezza d’Aloise.
Anzitutto, perchè s’era egli gettato in quella rovina? Egli giovine severo, assegnato, perchè s’era dato ad operare da spensierato, da pazzo?
Nella dimanda è già la risposta. Chi giudicherà i diportamenti d’un pazzo? E chi potrà sentenziare per quali vie abbia a scorrere, a qual punto fermarsi la pazzia? Incendio lunga pezza nascosto, infuria d’improvviso per modo che opera umana più non vale a frenarlo. E la fiamma d’Aloise era stata covata sei anni, sei lunghi anni in silenzio. Per tutto quel tempo il suo cuore era stato come un tempio domestico, dove egli custodiva gelosamente una immagine sola, nè occhio profano era giunto mai a trapelarne il mistero. E la dea ch’egli adorava in segreto, ai cui piedi ardeva il migliore degli incensi, il fiore della sua giovinezza, i pensieri tutti dell’anima, regnava là dentro, non pure scolpita, animata da quel Pigmalione eterno che si chiama l’amore. Perchè infatti, siamo noi gli artefici de’ nostri idoli; la donna amata è in gran parte opera de’ nostri vaneggiamenti. I più soavi contorni del suo volto, le curve più leggiadre della sua persona, non appartengono all’originale. Il ritratto è fedele bensì, ma ogni cosa è raggentilita, levigata, accarezzata da quel medesimo scalpello che ad opera compiuta si converte in pugnale per noi.
La bella Ginevra dagli occhi verdi, per verità, era di tale bellezza, che il suo Pigmalione non avrebbe potuto conferirle una grazia di più. Ma egli, nel ritrarla in sè stesso, le aveva pur dato alcun che di nuovo, d’insolito, il suggello dell’artista. Quella immagine amava Aloise; egli l’aveva foggiata secondo il suo desiderio. E mentre la bella Ginevra non sapeva ancora di lui se non che egli era il solo che sdegnasse, non che ammirarla, guardarla; mentre nessuno s’era pure avveduto ch’egli si struggesse per lei, già la marchesa Ginevra era sua, già l’immagine rispondeva alle agonie dell’artefice. Il miracolo l’aveva operato egli nel suo cuore; era tuttavia un sogno, e già gli pareva realtà. Diremo una cosa strana, ma non parrà tale a chi abbia amato una volta in sua vita; se quella donna, il primo giorno ch’egli si fosse appressato a lei, gli avesse stesa la mano e detto col più soave accento di tenerezza: «vi amo» ei non l’avrebbe avuto in conto di novità; quella stretta di mano, quell’accento, quella parola, gli sarebbero sembrati continuazione d’un colloquio che durava da anni.
Così, allorquando le fu vicino e le parlò per la prima volta, gli parve non aver più nulla a dirle ch’ella già non sapesse, più altro a fare se non che adorarla tacendo. Lo schietto amore è già di per sè stesso poco loquace. La famosa carta del Tenero è una guida a chi viaggia per diporto; Werther e Jacopo Ortis non la conobbero, o, se pur la conobbero, sdegnarono usarne. L’amor vero e profondo non si butta a correre la ventura delle chiacchiere; indovinato e corrisposto si espande, arde ed illumina due vite; Sigea lata relucent; anco i naviganti lontani ne traggono indirizzo ed auspicio. Ignorato e negletto si consuma da sè, ma uccidendo chi lo porta nel seno.
Così amava Aloise; così fu tratto facilmente, fatalmente, nell’orbita di quell’astro che egli aveva tanto amato da lontano. Ginevra era troppo gran dama, troppo conscia di sè; le leggi era avvezza a dettarle, non a subirle da alcuno. E senza parlare di lei, non è questo il costume di tutte? L’amore, chi voglia considerarlo un tantino, ha le sue forme storiche anch’esso, come tutte le passioni dell’umanità, o, per pigliare una frase a prestanza dagli economisti, come tutti i fatti sociali. Una storia dell’amore è da farsi tuttavia, e forse non sarà fatta mai. Chi ama non scrive; chi scrive non ama. Egli avviene talvolta che un uomo ferito a morte intinga la penna nel suo sangue, e scritta una pagina del gran libro, la getti in pascolo al suo tempo, che avidamente la raccoglie, avendone un turbamento indicibile. Ma è una pagina sola, non già il libro; un grido di morente, non già una dissertazione di filosofo. Lo scrittore, e poniamo anche il più accorto, che veda e noti le occulte ragioni dell’affetto, che lo consideri nelle sue relazioni colla vita dei popoli, colla loro coltura, collo stato della donna, con tutti insomma i rivolgimenti d’un’epoca, correrà il risico di far opera di soverchio leggera, o di soverchio pesante, improba sempre e sgradita.
Nè abbiamo in animo di farla noi, ci s’intende. Solo pel tempo nostro e pel bisogno del nostro racconto, che oramai volge al suo fine, accenneremo come la donna, essendo nell’odierno consorzio schiava ad un tempo e regina, tenga ne’ suoi diportamenti dell’una e dell’altra. Tutte si rassomigliano; ora tremano, ora fanno tremare; cogli uni non ragionano, perchè non possono; cogli altri nemmeno, perchè non vogliono. L’uomo è per esse uno schiavo, quando non è un padrone; in un caso e nell’altro, sempre un nemico. La colpa è un po’ nostra; non siamo noi che abbiam fatte le leggi, e vi mettiamo a guardia i nostri pregiudizi, i nostri dirizzoni? Comunque sia, la donna è così, nè vale a mutarla il più profondo degli affetti. E può amarla con frutto chi la ami tanto leggermente da non mettersi già in sua balìa, ma da farne le mostre; chi giuochi coperto e stimoli la curiosità di lei, come è fama adoperasse il serpente colla madre antica dell’uman genere; chi, a farla breve, non ami, e si contenti a desiderare, senza soverchio accompagnamento di sospiri e di lagrime.
Uno scrittore (nè sappiamo più quale, e se non vi sa d’autentico, mettete che siam noi a dirittura) ha detto che le donne sogliono amare nella lor vita in due modi; giovani, inesperte, come l’uom vuole; donne fatte, avvedute, come loro talenta; donde avviene che nel primo caso infastidiscono, nel secondo uccidono. Debolezza e crudeltà! Speriamo nel futuro: auguriamo ai nostri nipoti una nuova e miglior forma storica dell’amore. Le donne saranno più libere e per conseguenza più umane; gli uomini, spogli finalmente de’ loro storti concetti, vedranno in esse le eguali, le compagne, le amiche, le consolatrici della vita; non si spartiranno più, come ora, in due classi, di carnefici e di vittime. Lovelace e Werther saranno spariti; rimarrà in vece loro un uomo nuovo, amante ed amato, confidente e felice. Nato dalla libertà, l’amore si nutrirà di stima; la venerazione tornando al suo vecchio significato, farà solenne ciò che ora è brutale o colpevole, doloroso o ridicolo. Questa poesia dei sensi, come l’ha definito il Balzac, diventerà il senso più eletto della poesia che informa l’umanità tutta quanta, e che ha nella donna la sua incarnazione più efficace e più splendida.
Ciò detto, e anzi che no malamente, per non lasciar coll’amaro le nostre graziose lettrici, che già ci avran tolto per calunniatori del bel sesso, torniamo ad Aloise, ad Aloise che errò, e patì i danni dell’error suo, senza muoverne un lagno. Non era forse sua la colpa? Ben poteva egli amar quella donna da lontano, e durar nello inganno; volle avvicinarsi a lei, e si consunse alla fiamma. Poteva egli ritrarsi? Creda ciò chi lo ha fatto, e s’argomenti pure d’avere amato da senno; Aloise, non potè, e ben conobbe alle prime ch’egli era dannato a morire. Farsi innanzi non gli era concesso; dare indietro gli sarebbe parso viltà. Ma quella donna vedeva il suo misero stato? A volte gli parve di sì. Non erano segni di amorosa pietà quegli atti cortesi che lo richiamavano di tanto in tanto al fianco di lei? Il silenzio medesimo che durava tra essi, e che si mutava in improvviso cicaleccio al giungere del più gramo personaggio della corte, non era egli un dire ad Aloise: io so il vostro segreto? Ma erano lampi; uno sprazzo di vivida luce rischiarava lo spazio; poi, d’improvviso, tutto ritornava nell’ombra. E queste tenebre solevano farsi più fitte allorquando gli occhi di Aloise, precursori della parola, incominciavano a dir qualche cosa.
Nè andò guari che egli tutto intese il suo fato. Quella donna da lui così fieramente amata, avrebbe potuto durarla anni ed anni in quel suo riserbo, lasciandolo incerto tuttavia, non pure del futuro, ma dell’istesso presente. Che era egli, qual posto aveva nel cuore di lei? Le tornava egli molesto, o le pareva degno di quella pietà che fu detta sorella d’amore? O, preparandosi senza fretta ad usargli misericordia, pigliava diletto a farlo soffrire? O non le importava nulla, proprio nulla di lui, e lo lasciava fare e dire, perchè si stancasse da sè? Comunque fosse, egli non poteva tra quelle dubbiezze discernere il vero; nè i diportamenti di lei erano tali da lasciargli il conforto degli sciocchi, vogliam dire la speranza di lontane fortune, e la molle costanza dello aspettare tacendo. E allora la sua deliberazione fu presa. Senza l’amore di quella donna, non poteva più vivere; lontano da lei, foss’anco stata dieci volte più fredda, nemmeno. Che rimaneva? Sottrarsi agli spasimi d’una lenta agonia; accorciare la strada, correndola a precipizio; vivere sfolgorando a guisa del fulmine; ardere, consumarsi, morire.
E questo pensiero, nato appena, s’ingigantì nella mente di Aloise, fu arbitro di tutte le opere sue. Egli arse le sue navi, come chi non abbia speranza nè desiderio di ritorno. Quello era il campo ignoto dov’egli voleva vincere o morire. La bella Ginevra, per miracolo da lui non sperato, e quasi diremmo neppure invocato, avrebbe avuto compassione di lui? Egli si sentiva la virtù di rifar la trama della sua vita da capo. O, come gli diceva il cuore indovino, avrebbe durato nel suo riserbo invincibile? Ed egli periva. Il suo rogo era pronto; già v’era appiccata la fiamma. Così, fermo nel fiero proposito col sorriso dello spensierato sulle labbra, coll’aspra voluttà del suicida nel cuore, si gettò ad occhi aperti nel vortice.
Da quel dì, Genova non ebbe più magnifico cavaliere, nè più cortesemente superbo di lui. Già aristocratico per natali e per attinenze, divenne tale anche nelle forme del vivere. Le mute della sua rimessa erano il meglio che uscisse dalle officine di Milano e Parigi; i suoi cavalli da sella e da tiro, ammirati, decantati, dall’universale, come i migliori che fossero in città, volavano via come il vento, portando la sua fortuna; quei generosi cornipedi, imitando la serena baldanza del padrone, galoppavano in pendìo senza badare a pericoli. E coloro che vedevano il marchese di Montalto uscire a quel modo fuori di riga, correvano col pensiero alle ricchezze facilmente esagerate del vecchio Vitali; e i milioni del nonno davano loro la chiave delle larghe spese del nipote.
Questa opinione del volgo, alla quale non aveva pensato Aloise, lo aiutò, senza sua saputa, a cansar l’accusa di pazzo, vanitoso che corresse a rovina. Il marchese Antoniotto, egli stesso, la pensò come il volgo, e quella insolita maniera vivere sfoggiato gli parve naturalissima per conseguenza. Abbiamo già detto a suo luogo che Bonaventura non lo metteva a parte di tutti i suoi segreti. Il tiranno di Quinto era l’insegna di bottega del partito clericale, o, per dirla meno bassamente, il suo gran diplomatico, e tale aspirava a diventare altresì per la monarchia di Savoia, quando essa, come a lui pareva probabile, avesse dato un calcio a tante sciocche fantasticherie liberalesche; intanto leggeva discorsi in Senato, che mandavano in visibilio l’Armonia, e facevano dire al Monde di Parigi: - voilà l’homme d’état qui conviendrait le mieux à1 ce pauvre roi de Sardaigne. - Il giovine Aloise di Montalto pareva al nostro uomo di Stato un’ottima preda. Aloise, in materia politica non aveva amori nè odii, non simpatie nè ripugnanze deliberate. La sua gioventù era scorsa in un tempo di sosta, povero di eventi e di lotte, in cui la sua mente avesse per amore o per forza a parteggiare; i suoi studi, le sue consuetudini, i suoi passatempi, lo aveano tenuto fuori (nè intendiamo dir qui se fosse male o bene) dal campo chiuso dove da secoli e secoli vengono a darsi la muta, a combattere con varia fortuna, tutti gli svariati sistemi di reggimento, tutti i grandi e piccoli interessi di popoli e di re, tutti i diritti e tutti i privilegi, tutte le inconsiderate verità e tutte le prudenti menzogne. Perciò il marchese Antoniotto poteva sperare di trarre Aloise dalla sua, contentando quella manìa d’apostolato che aveva, e che l’accorto gesuita gli era andato accarezzando nell’animo.
E perciò egli stesso, nel disporsi colla consorte al suo viaggio autunnale che i lettori conoscono, udito da Aloise che egli pure non sarebbe stato alieno dal muoversi un poco e veder nuovi paesi, gli si profferse volenteroso Mentore nelle sue medesime gite, e introduttore autorevole presso i gran dignitarii, gli archimandriti dell’ordine europeo. Non è a dire se questa paresse fortuna ad Aloise, e come ci andasse di buone gambe. Argomentatelo da questo, che egli non seguì, precedette la nobil coppia a Parigi. Colà, presentato, messo innanzi dal dotto maestro, Aloise conobbe tutti i caporioni del vecchio partito, che spaziava nel sobborgo di San Germano e invadeva anche un tratto delle Tuileries; vecchi legittimisti diventati imperiali; vecchi imperiali diventati legittimisti; repubblicani del 1830 che s’accostavano a San Vincenzo de’ Paoli; giudei che veneravano il Papa; grande intriso di vecchie furberie e di giovani vanità; amalgama d’ambizioni e d’interessi che per loro natura avrebbero dovuto cozzare, e che per comune necessità si stringevano insieme; misto di vecchie penitenti, e di giovani peccatrici di chiesa e di caserma, di confessionale e d’alcova, di salotto e di giornale; tutto alla mescolata, oro ed orpello; tutto alla rinfusa, vizio e virtù, per la maggior gloria di Dio e pel maggior bene dei popoli.
A Monaco, a Vienna, altri centri di reazione politica (chiediamo perdonanza di questo barbaro gergo ai lettori) fu per Aloise la medesima storia. In ogni luogo egli era stato come il primo segretario di quell’ambasciatore in partibus; e senza far cosa alcuna, parlando poco e non dicendo nulla, aveva sostenuta per bene la sua parte in commedia. A Parigi era stato veduto assai di buon occhio in quel consorzio così pieno di contraddizioni; le vecchie dame avevano lodata la severità del suo contegno, i vecchi barbassori la soavità de’ suoi modi; da tutti era stato gridato un nobile del vecchio stampo, pio come Baiardo e valoroso non meno. Un duello ch’egli ebbe e che fece chiasso di molto, perchè il suo avversario era uno dei più eleganti e de’ più gloriosi fannulloni di Francia e Navarra, e perchè egli al primo assalto lo aveva disarmato, al secondo gli aveva passato fuor fuori una spalla, non gli fruttò nè ira nè abominazione. Conquistatore di salotti per la gentilezza dei suoi modi, egli aveva suggellata la conquista coll’armi; aveva guadagnati gli sproni, e fu una gara a chi gli dèsse primo la gotata de’ nuovi cavalieri. I vecchi mastri di campo si degnarono di ragionare con lui dell’arte della scherma, e lodarono il buon metodo della scuola italiana; le dame, uscite pur mo’ dal sermone di Nostra Donna, gli diedero coi sorrisi il premio della sua valentìa. La cagione del duello, per essere stata futilissima, non poteva neanche raccontarsi; orbene, anche il silenzio gli fu ascritto a lode, ed egli andò presso le vecchie penitenti encomiato per cavalleresco riserbo. Tutto gli andava a seconda, salvo quel tanto che gli stava più a cuore. E la tristezza che da ciò gli veniva, accrebbe il suo pregio, facendolo passare agli occhi di tutti per un compito diplomatico.
Di tutti? Sì certamente, ove se ne eccettui la viscontessa di Roche Huart, che già lo conosceva un tantino dalle confidenze epistolari della sua amica di collegio, e che lo trovò molto grazioso, molto pensoso, e molto pericoloso. - Comment, ma toute-belle? Vous voilà toujours froide, vous, toujours rigoureuse avec ce pauvre garçon? - aveva ella detto a Ginevra, che mostrava di non pensarla a quel modo. - Si vous restiez longtemps à Paris, je vous promets qu’on ne vous le laisserait pas plus d’une semaine, et l’usurpatrice ne le ferait soupirer que le temps strictement nécessaire pour sauver les apparences. -
E perchè Ginevra le aveva risposto, ridendo, facessero pure, poichè ella si tratteneva un mese a Parigi, e il marchese di Montalto, dal canto suo, avrebbe potuto rimanervi a sua posta, la viscontessa aveva detto tra sè: Toujours la même, cette pauvre Geneviève, belle et froide comme un beau marbre de Paros! Ces Italiennes! Dieu leur donne la beauté2: et elles n’en savent que faire. Come si vede, la viscontessa dal collegio in poi, aveva fatta molta più strada che non la sua petite madone italienne.
Quelle erano le dolenti note del cuor di Aloise; nè vogliamo ora tornare su cose già dette, narrando per filo e per segno tutti i patimenti del giovine, le sue angosce d’ogni mese, d’ogni giorno, d’ogni ora. Dei dissesti della sua fortuna è già noto quanto occorre, e i lettori intenderanno agevolmente come le sue pazze spese fossero state tali da dar fondo a ben più ragguardevoli patrimonii e meno sprecati, venduti a stracciamercato del suo.
La scadenza del 15 ottobre si avvicinò, senza che egli avesse trovato il modo di far onore all’impegno. Gli avevano fatto sperare fin da principio una rinnovazione di cambiali, e lo avevano ingannato. Egli si era proposto di vendere la Montalda, e quel negozio, messo accortamente in piazza, trattato apertamente da sensali di mala fama, gli fruttava proposte ridicole. Andare dal nonno a chiedere aiuto? La sua dignità non lo consentiva. Di amici a cui far capo, non aveva altri che il Pietrasanta; ma questi era figlio di famiglia, e il suo credito presso gli usurai non andava fino a quella somma. Così giunse l’antivigilia, senza che egli avesse provveduto a nulla, nè più sperasse di poter provvedere.
- Orbene, - pensò egli, - farò posdimani quello che tanto e tanto avrei fatto qualche giorno dopo. La Montalda pagherà profumatamente il mio creditore. Gli sciocchi diranno che l’ho finita pei debiti.... Dicano pure; che importa a me delle ciance loro? Mi venivano a nausea quando mi davano lode; il biasimo loro non mi farà dormire meno tranquillo il mio ultimo sonno. -
Fatta questa deliberazione, si sentì più libero da quel lato. La sera andò dalla marchesa Ginevra, ma senza aver agio a dirle una sola parola che non fosse di cerimonia. L’imminenza della morte gli avrebbe dato quella sera l’ardimento d’un supremo colloquio; ma c’era conversazione fiorita; il De’ Salvi, il Cigàla, Riario, c’erano tutti, perfino il lezioso De’ Carli. Egli fu quella sera più cupo del solito, di una tristezza, di una mala grazia senza pari. Ginevra, poi, vedutolo così accigliato, stette anche più del consueto sulla sua, e lo trattò freddamente. Con tutta la loro acutezza, le signore donne, quando le si mettono sul puntiglio, non ne indovinano una.
Quando sentì di non poter più sopportare il martirio, si alzò dalla scranna, e partì, dopo aver toccata a mala pena la mano di lei. Ed era l’ultima stretta di mano. Nè ella lo intese; non mostrò neppure di maravigliarsi della sua partenza; lo salutò tra un motto che le diceva il Cigàla e una risposta che ella stava per dargli. Povero romanzo, come andava egli a finire! Goffredo Rudel si recava in disparte a morire, senza il bacio consolatore della contessa di Tripoli.
- Meglio così! - aveva egli detto, uscendo da quella casa malaugurata. - Meglio così! Oh, come mi pesa la vita! -
Ed era per l’angoscia di quell’ultimo saluto, per la notte travagliata che ne seguì, che Aloise fu visto così abbattuto dell’aspetto ad Arturo Ceretti, a quell’Adone da dozzina, che gli era stato mandato esploratore dal Collini, nella mattina seguente. Aloise pensava alla scadenza delle cambiali come si pensa alla fame, al freddo, quando il corpo sente gli stimoli dell’una e l’impressione dell’altro, cioè a dire per mera necessità del suo stato. Del resto egli non aveva altro pensiero che quello di dar sesto a tutte le sue faccende, di ardere i suoi manoscritti, le sue carte, ogni nonnulla che di lui potesse rimanere ai superstiti, e di andarsene alla Montalda, dove aveva fatto conto di finirsi.
Però, già colto dall’ansia febbrile de’ suoi ultimi apparecchi, già invaso da quello spirito feroce che fa considerar la morte come un bene, non diè neppur retta al Pietrasanta, quando questi venne da lui per dirgli che aveva una speranza, che avrebbe fatto capo a qualcheduno per trovare la somma bisognevole, e che più tardi sarebbe tornato a dargliene novelle.
Per la prima volta dacchè erano amici, Aloise fu lieto di vedere il Pietrasanta andarsene via. Libero finalmente d’ogni molestia di discorso, si diede tutto alla sua opera di distruzione; la quale egli non interruppe nemmeno, allorquando venne il servitore a portargli una lettera. - Deponila sul tavolino; - gli disse, e continuò il suo lavoro.
Poco stante, vuotata e rassettata la scrivania, vide la lettera, e la prese tra mani. La rivoltò, e pose gli occhi al suggello; ma lo stemma che vi scorse impresso in ceralacca turchina, non gli ricordò nessuno di sua conoscenza. Allora chiamò il servitore.
- Chi ha portato questa lettera?
- Un servo in mezza livrea; perciò non ho capito di che famiglia fosse.
- Sta bene; vattene. -
E mentre il servitore se ne partiva, aperse la sopraccarta. Ma in quella che ne cavava un foglio di carta inglese vergata, scapparono fuori quattro foglietti più sottili e più brevi sparpagliandosi sul pavimento. Aloise si chinò per raccoglierli; erano quattro cambiali, quelle medesime cambiali che portavano a tergo la sua girata, e che dovevano esser pagate il giorno seguente.
Non istaremo a descrivere la meraviglia, o, per dire più veramente, lo stupore di Aloise. Deposte le cambiali sulla scrivania corse cogli occhi allo scritto; ed ecco ciò che egli lesse:
«Di casa, il 14 ottobre 1857.
«Signor Marchese,
«La S. V. non vorrà, io spero, togliere in mala parte che un ignoto si pigli arbitrio di mandarle queste quattro cambiali. Esse gli vennero in mano mentre egli, udito che la S. V. aveva in animo di vendere un castello che ha nome dalla nobil casata dei Montalto, si disponeva a profferirsi compratore, e a pregarla di accennargli i suoi patti.
«Ora, se la S. V. è davvero in questo proposito, voglia ritenere queste cambiali a conto di quella maggior somma che Le parrà conveniente di indicare, come prezzo della Montalda, e assegnare il giorno e l’ora per firmare il contratto con chi si reca a gran pregio di potersi profferire della S. V. divotissimo
«IL DUCA DI FEIRA.»
Lo stupore di Aloise si accrebbe (e non poteva essere altrimenti) dopo quella lettura. Il duca di Feira! Quel nome gli era noto, perchè da qualche tempo, nelle conversazioni, nelle veglie, in ogni ritrovo della signoril compagnia, era un gran discorrere di quel Portoghese, Americano, o Indiano che fosse, il quale era ricco sfondato come un principe delle Mille e una notte, e viveva solitario nella sua opulenza, alieno da ogni maniera di passatempi e da tutto quanto potesse dare alla curiosità universale l’appiglio d’una conoscenza più prossima. Solo il sindaco della città aveva posto piede nel suo salotto, e ciò perchè egli s’era recato a debito di ringraziare il nobile forestiero di uno splendido presente fatto al museo Civico e d’una ragguardevole offerta ad un istituto di carità cittadina. Accolto dallo straniero in quel modo che si conveniva al primo magistrato della città, il sindaco non avea parole per lodarsi di quel magnifico gentiluomo in guisa degna di lui. La visita era stata ricambiata il giorno seguente, e le relazioni estere dello straniero erano rimaste a quel punto. Alcuni giorni dopo, egli era partito da Genova e dicevasi per una gita di parecchie settimane in Toscana. Diffatti, il suo palazzo era rimasto aperto; le mute della sua rimessa uscivano regolamente ogni giorno per tenere in moto i cavalli, e l’intendente faceva le sue corse in carrozza, seduto al posto del duca.
Fino dal primo apparire di quel ricco signore, la gente curiosa s’era fatta a pigliar lingua qua e là, dovunque potesse cavar notizie del misterioso personaggio. E presto aveva dovuto capacitarsi che di misterioso non c’era nulla fuorchè l’apparenza. Il duca di Feira era un duca autentico, padrone di una miniera aurifera nel Brasile, dov’era tenuto in gran conto, ma dove da molti anni si vedeva di rado, essendo egli un gran viaggiatore nel cospetto di Dio. Questo si era saputo dai banchieri, presso i quali il duca di Feira era larghissimamente accreditato. Nè andò molto che fu noto ancora come l’imperator del Brasile avesse profferta al duca la sua ambasciata presso la corte di Torino, od altra che più gli tornasse a grado, e come egli avesse ricusato quell’alto onore per ragioni di salute. Viaggiava l’Italia, dopo aver visitato l’Asia e il settentrione d’Europa; a Genova gli era parso confacente il clima, e faceva conto di rimanervi più a lungo; non amava la compagnia, perciò usciva solitario. Tutto ciò era naturale, e nessuno poteva trovarci a ridire.
Ma non sembrò naturale del pari ad Aloise quella intromissione dello straniero nelle sue cose domestiche. Bene intendeva egli come il duca di Feira avesse voluto fargli servizio; ma perchè, poi? Come era venuto in chiaro delle sue strettezze? E in che modo aveva potuto metter la mano sulle cambiali, il giorno innanzi la scadenza?
A tutte quelle domande, che lo tennero a lungo dubbioso, recò una risposta, o a dire più veramente gli recò il modo di trovarla di per sè, l’amico Pietrasanta, tornato da lui dopo due ore d’assenza. Enrico aveva veduto, due giorni innanzi, il Giuliani; si erano intrattenuti a lungo sul caso di Aloise, e il Giuliani aveva suggerito ad Enrico di tentare la prova presso il duca di Feira, che gli era noto come un compìto gentiluomo, e dispostissimo, per la bontà somma dell’animo, a far servizio altrui. Certo era arditezza grande il presentarsi al duca, senza conoscerlo; ma il Giuliani, che avrebbe parlato volentieri egli stesso al duca se non avesse reputato di correr troppo alla leggera, non essendo col marchese di Montalto in molta dimestichezza, offriva al Pietrasanta di dargli un suo biglietto di visita che lo introducesse presso il duca e gli agevolasse il suo compito. Enrico era rimasto perplesso: ma avendogli detto il Giuliani saper egli di buon luogo che gli strozzini avevano fatto mettere ad Aloise la girata su cambiali false, tanto per condurlo ad un tristo passo, aveva veduto esser quella l’unica via di salvezza, e senza dirne nulla ad Aloise, era andato dal duca; ma non lo aveva trovato in casa, con suo grande rammarico; nè certo avrebbe raccontato di quei suoi infruttuosi negoziati ad Aloise, se non avesse vedute le cambiali e la lettera del duca, la quale gli dimostrava che il Giuliani, dato il consiglio, aveva stimato più acconcio mettere i fatti di costa alle parole, e, più fortunato di lui, aveva potuto parlare col duca.
Un brivido corse per l’ossa ad Aloise, e stille di sudor freddo gli bagnarono la fronte, allorquando dal racconto dell’amico udì il pericolo che aveva corso. Acerbi erano i dolori dell’anima sua, e tali da fargli considerare gran ventura la morte; ma i suoi tormenti non erano stati inaspriti dal pensiero dell’infamia. Certo, una così scellerata trama non era di volgari usurai; ed egli tremò, pensando a quel laccio che era stato teso al suo onore, e dal quale egli si era inconsapevolmente salvato, mercè l’operoso affetto del Giuliani, di un amico recente.
Come si fu riavuto da quel colpo, ringraziò il Pietrasanta, benedisse al Giuliani, e spremuto dal cuore quell’ultimo avanzo di alterigia che pochi istanti prima lo avrebbe forse condotto a ricusare il servigio dello straniero nel modo in cui gli era offerto, prese la penna e scrisse questo biglietto al duca di Feira:
«Signor Duca,
«Grazie! che vi dirò io di più? Grazie, e dal profondo del cuore.
«Abbiatevi la Montalda, della quale io non posso chiedervi più di quello che v’è costato il riscatto delle cambiali. Voi certamente le avete riscattate per farmi servizio, e quello che è giunto or ora al mio orecchio, e mi confonde tuttavia di sgomento e di vergogna, me ne fa testimonianza certissima.
«Oggi stesso, a quell’ora che vi torni più a grado, sarò dal notaio Marinasco, per sottoscrivere il contratto.
«Vostro per la vita
«ALOISE DI MONTALTO.»
- Non gli prometto molto! - disse Aloise tra sè, in quella che scriveva quel «vostro per la vita».
E suggellata la lettera, la mandò prontamente al duca di Feira.