I rossi e i neri/Secondo volume/XXIX

XXIX

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XXIX.

Nè vivere, nè morire

Aloise giunse alle falde del monte su cui torreggiava la Montalda, alle cinque dopo il meriggio; mezz’ora dopo, era lassù.

Il vecchio Antonio non parve punto meravigliato del suo arrivo. Egli stava ad aspettarlo sul portone della villa, in atto di godersi la frescura del tramonto, cogliendo al varco la gente del vicinato, per scambiar quattro chiacchiere, secondo la costumanza villereccia, prima di ritirarsi.

Ma se Antonio non parve meravigliato, bene guardò di sotto alle folte sopracciglia il suo giovine padrone, in quella che rispettosamente gli faceva di cappello e si sprofondava in inchini; e quelle sue guardate significavano una cura amorevole, una sollecitudine pietosa, che contraffacevano all’umile stato e alla apparente rozzezza del vecchio gastaldo. Per verità, l’Antonio era grandemente mutato, e coloro che lo avevano in pratica avrebbero potuto avvedersene senza fatica. Il taciturno e malinconico abitatore della Montalda era più sciolto di modi, più sereno nel volto; si sarebbe detto, a guardarlo, che ci aveva meno grinze di prima: a sentirlo respirare più liberamente e dir qualche parola più [p. 262 modifica]del consueto, si sarebbe preso per un uomo liberato d’un gran peso che aveva sullo stomaco.

Aloise non badò a tutti questi nonnulla, e chiamando col gesto il gastaldo a venirgli da lato, gli domandò per la prima cosa di Lorenzo Salvani.

Egli da due giorni non aveva più pensato all’amico. Il suo dolore era stato così acerbamente tiranno, che non aveva patito ricordanza d’altri dolenti. Perciò egli aveva venduta la Montalda, aveva fatti i suoi ultimi apparecchi, ed era venuto a morire accanto a sua madre, senza pur rammentarsi dell’amico, dell’ospite che abbandonava a sè stesso. Senonchè, postosi in viaggio, gli era pur sovvenuto di Lorenzo, e gli cuoceva di lasciarlo così, mentre forse il povero fuggiasco aveva più che mai bisogno di amici saldi e operosi. Ma, ripensando alla lettera cortese del duca di Feira, Aloise aveva tosto fatto disegno di scrivergli, raccomandando al vecchio gentiluomo d’essere a Lorenzo, al suo avversario d’un giorno, ciò ch’egli non poteva più essergli, protettore fino a quando occorresse, amico per tutta la vita.

In questi pensieri, domandò di Lorenzo al gastaldo. E fu grande la sua maraviglia, allorquando il vecchio gli ebbe detto, che quella istessa mattina erano venuti in due, l’Assereto e il Giuliani, a cercarlo, e poco dopo erano partiti tutti e tre alla volta di Genova.

- Il signor Salvani era molto contento; - aggiunse il gastaldo. - Per la prima volta dacchè egli era quassù, l’ho veduto ridere. E se n’è pigliato una satolla, il povero giovine! Poi, s’è degnato di abbracciarmi, innanzi di andarsene, e mi ha chiesto se non mandassi a dir nulla a Vostra Eccellenza, che egli sarebbe andato a salutare in giornata. Che si ricordi del suo povero Antonio, gli ho risposto io, e della sua Montalda che non lo vede da un pezzo.

- Grazie, mio buon Antonio; tu lo vedi, sono venuto; - disse Aloise, mettendogli amorevolmente una mano sulla spalla. - Orvia, conducimi nelle mie stanze, e va tosto ad aprirmi la cappella.

- E non vuol prender nulla? Vostra Eccellenza sarà stanca.

- No, non ho bisogno di nulla; prima di tutto voglio salutare mia madre. -

Il gastaldo non disse altro di rimando, e lo precedette nel palazzo. Come furono giunti nella camera di Aloise, il vecchio notò che il suo padrone deponeva su d’una mensola una busta che aveva recato sotto la sua spolverina da viaggio.

- Che cos’è questo? armi? [p. 263 modifica]

- Sì, - rispose a fior di labbra Aloise, - pei ladri, se vorranno assaggiarne.

- Oh, non vengono ladri quassù, che la farebbero bassa. Antonio dorme da un occhio solo, come ebbe a dirmi una volta il signor Salvani. -

Aloise non aggiunse parola. Il suo pensiero era corso da capo a Lorenzo, e andava chiedendo come mai il fuggiasco avesse potuto così di punto in bianco tornare in città, e quali fossero le novelle del Giuliani e dell’Assereto, che lo avevano racconsolato d’un tratto.

Ora, quello che non sapeva e che non poteva indovinare Aloise, racconteremo noi brevemente, tanto che non gridino al miracolo i nostri lettori. Il miracolo, se miracolo c’era, lo aveva operato il duca di Feira, con una visita all’intendente di Genova e all’avvocato generale. Nulla c’era presso i magistrati che provasse a danno del giovane. Egli era indiziato come uno di coloro che avevano avuto mano nel tentativo; ma dalla istruttoria del processo niente era venuto fuori contro di lui. Certo, se avessero potuto mettergli l’ugne addosso, l’avrebbero fatto; l’avrebbero interrogato minutamente e messo a raffronto cogli altri carcerati. E certo il Salvani, dal canto suo, anche senza il bisogno di quest’ultimo espediente, non avrebbe negato, schietto e generoso com’era, di aver partecipato, e con ogni sua possa, a quella alzata di scudi. Ma poichè non era stato colto, poichè non c’era egli ad accusarsi, nè altri aveva detto nulla di lui, i rappresentanti del governo, i tutori dell’ordine pubblico, non avevano alcuna grave ragione per tener fermo; una in quella vece e fortissima per cedere, vogliam dire la cura che si pigliava di quel giovanotto di nessun conto un uomo di molti milioni, un pezzo grosso, come il signor duca di Feira.

Costava così poco il contentarlo! A farselo amico, un pochino d’arrendevolezza bastava; perchè si sarebbero tenuti sul niego? Siam tutti uomini, dice il proverbio; e anco a non voler dimenticare le sacrosante leggi della giustizia, che non ci hanno a far nulla, gli è posto in sodo fin da’ tempi antichissimi che la nostra cortesia si spende assai più facilmente cogli uomini di vaglia, che non coi dappoco. Ora, qui non c’era proprio altro che un atto di cortesia, e il duca di Feira ne francava la spesa. Laonde i gran dignitarii furono solleciti a dirgli che il Salvani poteva liberamente tornare, e il suo nome non essendo per alcun verso venuto fuori, egli non avrebbe avuto altra molestia, da quella infuori che s’era recata di per sè, andando fuori di Genova. [p. 264 modifica]

La mattina vegnente Lorenzo Salvani tornava in città, chiamatovi assai più che dall’agevolezza del ritorno, dall’annunzio che Maria, la diletta Maria, non era più in monastero, ma al fianco d’una madre amorosa. Molte cose aveva fatte il duca in un giorno, e collegate per guisa che l’una tirasse l’altra, nè più il nemico avesse tempo al riparo. Egli bene intendeva come fosse pericoloso ferire il primo colpo, senza aver gli altri sicuri; laonde ordinò tutte le parti della sua grande impresa per modo che il giorno della presentazione delle cambiali d’Aloise al banco Teirasca, tutto crollasse ad un tratto il faticoso edifizio dei tristi. La stessa marchesa di Priamar, da lui veduta parecchi giorni innanzi, commossa e vinta dalle argomentazioni semplici, affettuose, di quel gentiluomo a cui la canizie consentiva lo schietto linguaggio del vero, non era andata, per suo consiglio, a trarre la fanciulla dal monastero se non all’ultimo istante, quando fosse per cominciare quella grande rovina che aveva ad involgere il gesuita e il discepolo, già inebbriati dai fumi del vicino trionfo.

Una cosa non aveva fatta; ma qui per l’appunto si chiariva com’egli fosse avveduto capitano, degno di aver raccolte in pugno le fila, già tese dall’animoso Giuliani. Egli non s’era dato pensiero del testamento del nonno d’Aloise; non era andato dal Vitali per guastare quell’altro negozio al Gallegos. E tuttavia egli avrebbe potuto andarvi, e senza mestieri d’introduttori; perchè il vecchio banchiere lo conosceva da lunga mano, ed ei gli sarebbe apparso come un fantasma, tornato dai morti regni a destargli in cuore un antico rimorso. Pure, non lo fece; quello era il lato debole del nemico; ma appunto perchè era il più debole era anche il più vigilato. Già una volta il fiero gesuita era stato colpito da quella banda, ed è noto com’egli avesse saputo pigliarsi la sua brava rivincita sui notturni visitatori pietosi della sua vittima. Il duca però si rattenne da quell’attacco, che era pericoloso ed inutile. Egli non aveva mestieri di stravincere; salvare Aloise dall’infamia, Lorenzo e Maria dalla disperazione; quello era il gran punto; il resto sarebbe venuto da sè; o non sarebbe venuto, e non ci sarebbe stato niente di male.

Aloise, del resto, non avrebbe mai fatto l’onore d’un pensiero alle ricchezze del nonno. Vero cavaliere antico, smarrito in questi bassi tempi distruttori d’ogni alto carattere, l’oro non disprezzava, nè amava. Qual fosse la sua cura, il suo struggimento, sappiamo; ora, se egli avesse avuti in balìa tutti i tesori, i regni tutti della terra, li avrebbe dati di grand’animo tutti per un bacio di quella donna che gli aveva tolta [p. 265 modifica]la pace del cuore. Privo di quel bacio, perduta ogni speranza, egli se ne andava tacitamente, e diremmo quasi senza rammarico, per quella china dove sono iti già tanti generosi pagatori d’un conto fallato.

- Povero Lorenzo! - andava egli dicendo tra sè, già insensibile a’ suoi dolori, mentre scendeva per andare alla tomba di sua madre. - Egli almeno sarà felice, se io non son tale. Non sono? E perchè? Non me ne vado, io? - Tutto era silenzio e buio nella cappella, quando egli vi scese; ma il luogo gli era noto, ed egli corse, volò senza esitanza verso uno dei lati, dove un occhio avvezzo all’oscurità avrebbe potuto veder biancheggiare una lapide sepolcrale. Antonio, che lo aveva accompagnato fino all’uscio della sagrestia, diè tosto mano ad accendere una lampada che pendeva dall’arco dell’altare. Fornita questa bisogna, alla luce che egli stesso aveva fatta in quel mesto recinto, rimase immobile a contemplare il padrone, che era inginocchiato davanti alla tomba materna, colla fronte appoggiata sul marmo. Aloise, senza pure voltarsi a lui, gli accennò col gesto di andarsene, e il vecchio, sebbene a malincuore, e sospirando, si mosse per obbedirlo.

La cappella dei Montalto era di poca ampiezza e assai scarsa d’ornamenti, come sogliono essere tutti questi edifizi annessi alle villeggiature signorili dei nostri antichi, con un solo altare nel fondo, e due nicchie sui lati. Una di queste era vuota; nell’altra sorgeva un monumento di marmo, sormontato da un angelo in atto di preghiera. Sull’imbasamento, dintornato da semplici riquadrature, si leggeva scolpita questa iscrizione:


QUI DOVE ELLA SI SPENSE
IGNOTA AL MONDO NON AL DOLORE
IL GIORNO XX DI NOVEMBRE DEL MDCCCLIII
RIPOSA NELLA PACE DEL SEPOLCRO
LA NOBIL DONNA EUGENIA DI MONTALTO
NATA DEI VITALI
UNICO AMORE PERENNE MEMORIA
DEL SUO POVERO FIGLIO ALOISE.


Unico amore! Aloise, che, come avranno già inteso i lettori, era l’autore dell’epigrafe, aveva proprio scritto così. Ed era vero, diffatti, allorquando la sua angelica madre era scesa nel sepolcro; perchè il giovine era stato bensì colpito dalla sovrumana bellezza di Ginevra, e così fieramente da non poter più accogliere l’immagine di un’altra donna nel [p. 266 modifica]cuore, ma certo non pensava allora che il giorno sarebbe venuto, in cui egli, avvicinatosi a quella divina, l’avrebbe fatta arbitra della sua esistenza. Ma se sua madre morta non era più l’unico amore, ben era durata perenne memoria nell’anima sconsolata del figlio, e presso la tomba materna egli veniva a metter l’ultimo lamento del suo cuore ferito.

Ciò ch’egli disse colà in due ore di sommesso colloquio coll’estinta adorata, non ci attenteremo noi di ripetere. I ragionamenti d’un figlio con sua madre, come quelli d’una madre col suo bambino allorchè questi incomincia a balbettare le sue prime sensazioni, hanno alcun che di teneramente infantile, che è sublime nella intimità, ma che perde ogni suo pregio ove si commetta ad orecchi profani.

In quel suo colloquio, Aloise riandava di certo quei giorni che fanciulletto aveva passati daccanto a lei; com’ella in lui solo, nelle sue infantili carezze, paresse trovar conforto ad ascose pene, sollievo a taciuti rammarichi. Sempre accigliato, burbero o noncurante il padre; ella sempre buona, sempre soave, sempre tenera, sempre pari a sè stessa; più soave, più buona, più tenera quando il padre fu morto, quasi paresse amar meglio, darsi più liberamente all’amore del figlio. Povera madre! Ella avvezza a vederlo ogni giorno, a invigilarne con occhio del pari benevolo gli studi e i trastulli, aveva un giorno veduta la necessità di ritrarsi in quella solitudine campestre, perchè il suo vivere ristretto consentisse al marchesino di Montalto una certa agiatezza patrizia. Povera madre! Come s’era ella adoperata, quante amorose e sapienti fatiche (sapienti appunto perchè amorose) aveva ella durate per farlo uomo, veramente uomo, per trasfondere in lui la severa alterezza della sua anima, la sensitiva bontà del suo cuore!

Ah il cuore! triste dono! O non sarebbe meglio averne l’apparenza soltanto? Non basterebbe all’uomo, per vivere lodato, riverito ed amato nel civile consorzio, la benevolenza misurata, la soavità tranquilla, la cortesia riguardosa, e tutto il cortéo delle mezzane virtù, che hanno bensì il nome dal lago del cuore, ma in verità derivano l’origine dalle scarse vene del raziocinio? L’uomo, così privilegiato dalla natura, riuscirebbe amabile senza danno della sua esistenza, godrebbe i frutti della sua forza senza gli smarrimenti d’uno spirito che si va logorando nell’attrito. E di tal fatta son molti, i cui pregi vanno assai facilmente per le bocche di tutti; uomini e donne la cui bontà discende da un sillogismo, la cui gentilezza sgocciola da un sorite, i cui sacrifizi, quando [p. 267 modifica]essi ne fanno di tali, si sprigionano, meditati a lungo, dalle corna d’un dilemma. Ma costoro, dirà taluno, non operano le grandi cose nel mondo. Che importa? Per uno, tra cento di quei grandi infelici, che meriterà una statua dai posteri, novantanove spendono vanamente il loro affetto nelle oscure battaglie della vita privata, e muoiono senza compenso di gratitudine. Qui, poi, è da vedersi se la statua sia davvero un compenso, e se l’ammirazione dei superstiti valga la felicità non ottenuta vivendo. Che importa egli chiamarsi Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Giacomo Leopardi, e durare estinti sugli altari della fama, se vivi s’è patito dieci volte più della comune degli uomini? La gloria è come una vetta solitaria che tutti vedono e ammirano da lontano; ma lassù durano eterne le nevi; i fianchi ignudi si sfranano, corrosi dall’acque, flagellati dal fulmine.

Il colloquio d’Aloise con sua madre era finito. Baciò, ribaciò commosso quel marmo che la contendeva a’ suoi occhi; tese le palme, quasi implorando una benedizione; mormorò il saluto di chi promette tornare tra breve; scoccò un ultimo bacio in quell’aria che gli pareva tutta piena di lei, e s’involò rapidamente dalla chiesuola.

Giunto a piè della scala interna che metteva al primo piano del palazzo, gli venne veduto Antonio che se ne stava accoccolato sul primo gradino, coi gomiti puntellati sulle ginocchia e la fronte sulle palme, in atto di meditazione.

- Che fai tu qui? - disse Aloise.

- Aspettavo; - rispose il vecchio gastaldo, togliendosi prontamente da quella postura. - Vostra Eccellenza avrà bisogno di qualche cosa....

- Non ho bisogno di nulla; vattene! -

Così disse asciuttamente Aloise; ma ravvedutosi tosto, pose una mano sul braccio del servo, che mogio mogio si muoveva per obbedirlo, e con accento carezzevole soggiunse:

- Va, buon Antonio, va a riposarti. È tuo costume di alzarti sempre per tempo. E poi, domattina, avrò bisogno di te. -

Dicendo queste ultime parole, non si potè trattenere dal porgli le braccia al collo. Il vecchio gastaldo diede in uno scoppio di pianto.

- E adesso, che hai? che cosa sono queste lagrime?

- Nulla, nulla, padrone! - rispose tra i singhiozzi il poveretto. - Sono vecchio, e la tristezza dei giovani mi fa male al cuore.

- Non temere; - disse Aloise, a cui quelle schiette parole [p. 268 modifica]facevano tenerezza; - la Montalda mi farà passare ogni cosa.

- Che Iddio ascolti Vostra Eccellenza! - soggiunse Antonio, rasciugandosi gli occhi col dosso delle sue ruvide mani.

Erano le nove di sera, quando il marchese di Montalto potè finalmente essere solo. Ridottosi nel suo quartierino, richiuse l’uscio del salotto dietro di sè, ed entrò nello studio, che precedeva la sua camera da letto. Il povero giovane era travagliato dalla febbre, a lui derivata dalle ansietà, dalle cure svariate, dai contrasti di quella negra giornata. Dal mattino egli non aveva preso alcun ristoro, e si sentiva riardere le fauci. Tracannò un bicchier d’acqua, e gli parve di sentirsi meglio; passeggiò un tratto nella camera, ventilò sottilmente il pro e il contro di ciò che stava per fare, e una serenità solenne gli si dipinse sul volto.

Andò allora alla mensola su cui era posata la busta che aveva eccitata l’attenzione del vecchio gastaldo, e aperto quell’astuccio ne cavò due pistole. Erano due armi stupende, uscite dalla riputata officina del Lepage, e da lui comperate nella sua gita a Parigi. Sorrise amaramente nell’atto di recarsele in mano e di sperimentarne il grilletto. La marchesa Ginevra si era degnata di ammirare quelle armi, e colle sue dita affusolate ne avea tocchi i congegni.

Caricò le sue armi colla tranquilla accuratezza di un padrino di duellanti, le depose quindi sulla scrivania, dinanzi la quale risedette, per vergare una lettera. Ed ecco ciò che gli uscì dalla penna.


«Mio ottimo Enrico,

«Perdonami il dolore che ti arreco; quando tu riceverai questa lettera, io avrò finito di vivere. Non ho saputo resistere all’affanno, sopportare pazientemente una vita nella quale ogni giorno è un ricordo, ogni ora, uno struggimento delle speranze perdute. È egli bene o mal fatto l’uccidersi? Siamo noi i padroni della nostra esistenza? Io credo di no; se il suicidio non è per avventura un delitto, è sempre una viltà, quando non è una follia. Ma tu non porterai, spero, un così aspro giudizio di me; ho troppo patito, non ne posso più, mi sottraggo ad una pena che supera le mie forze.

«Non mi difendere, se udrai lacerar la mia fama; è questa l’ultima grazia che io domando alla tua schietta e leale amicizia. I soliti cianciatori diranno che io mi sono ucciso pei debiti. L’accusa volgare mi duole; ma meglio così; credano costoro e facciano credere altrui ciò che loro talenta. [p. 269 modifica]

"A te, amico del cuore, dovrei dire la verità tutta quanta. Ma tu non hai bisogno di una confessione, tu che hai vissuto tanti anni con me. La carta è infedele. Chi sa dov’ella andrà, sotto quali occhi sarà costretta a cadere, se pure ti giungerà inviolata?

"Addio, mio ottimo Enrico. Qui, sul punto di morire, sento di averti amato come e quanto è possibile amare un fratello d’elezione. Stringi la mano per me a Lorenzo Salvani, a Giorgio Assereto, a Carlo Giuliani, nobili giovani coi quali mi sarà caro che tu parli qualche volta di me. Non mi dimenticate; è dolce il vivere nella memoria dei buoni. Ad altri non dir nulla, io non lascio un ricordo, una parola per altri.

"Ah no; dimenticavo un nome. Brutta cosa l’essere ingrati in un’ora solenne come questa! Mando un saluto al duca di Feira, a quell’uomo di cuore che mi ha stesa la mano, che m’ha sovvenuto generosamente in una trista congiuntura. Digli che muoio benedicendolo, poichè a lui sono debitore di poter morire onorato.

"Addio, fratello; desidero d’esser sepolto vicino a mia madre. Tutte le cose mie (ben poco per verità) al mio vecchio Antonio; a te un bacio e l’ultimo pensiero del tuo povero amico

"ALOISE."


Ciò scritto, piegò la lettera; la chiuse in una sopraccarta su cui vergò il nome del marchese Pietrasanta; si alzò da sedere, levò gli occhi al cielo, e si fece scorrere la sinistra mano sulla fronte, quasi volesse cacciarne un’immagine, un pensiero molesto; indi stese la destra per impugnar la pistola.

A quell’atto, l’uscio della camera da letto, che era socchiuso, si aperse, ed una voce severa disse ad Aloise, che s’era voltato rapidamente all’improvviso rumore:

- Fermatevi, signor di Montalto; voi non avete il diritto di uccidervi.