I rossi e i neri/Primo volume/II

II

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II.

Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia a venir sempre buon frutto.

Il primo a dir ciò, sebbene con diversa immagine, è stato Orazio Flacco, in uno di quei versi, che vincono il bronzo al paragone. Verrà il giorno, pur troppo, che in Italia non si saprà più il latino; ma in qualche altro paese non lo avranno dimenticato; i versi del nostro amico Orazio si leggeranno ancora, e si citerà sempre il suo aureo dettato: fortes nascuntur fortibus et bonis.

Questo ricordo classico avrà fatto intendere al lettore il nostro proposito. In quella che Lorenzo Salvani va a ricever quell’altro, che ancora ignoriamo chi sia, non sarà male che diciamo qualche cosa intorno alla famiglia del nostro giovine amico.

Il colonnello Salvani, già da due anni dormente il gran sonno, era stato a’ suoi tempi uno di quegli uomini che ad una mente eletta e ad un cuor di leone accoppiano una squisita delicatezza di sentire. Grande sventura, essere cosiffattamente dotati dalla natura; perchè queste splendide virtù, con le quali si potrebbe fare il mondo, se fosse ancora da fare, e soprattutto se francasse la spesa di farlo, non riescono in quella vece se non a cozzar le une con le altre, o a [p. 9 modifica]renderci sventurati, in un mondo già fatto, anzi così mal fatto come ognun vede. Rigo Salvani, andando molto diritto sulla via del dovere, seguendo il bene e propugnandolo in ogni occasione, aveva avuto di molte amarezze, perfino nella ristretta cerchia de’ suoi amici e compagni di lavoro. In politica il cuore è un viscere inutile, spesso anche dannoso; ed egli era così venuto, per una lunga trafila di disinganni, a disdegnare il genere umano, con tutta la migliore intenzione che aveva di amarlo.

In assai giovine età Rigo Salvani aveva preso a congiurare, ed era uno dei più animosi soldati di quella falange sacra, decimata prima dai patiboli di tutti quanti i governi della penisola, poscia dai campi di battaglia, e schernita più tardi da una generazione di sconoscenti, i quali si figurano di aver fatta essi la patria, perchè hanno comperato cartelle del debito pubblico molto sotto alla pari, o perchè hanno messo mano in laute imprese industriali. Ai tempi di Rigo Salvani l’amor di patria non fruttava nulla in quattrini; e neanche in onori, salvo alle volte il cordone dell’ordine riverito di mastro Impicca.

Ma lasciamo da parte queste malinconie. A Bologna, in una di quelle spedizioni di carbonaro, o giù di lì, Rigo Salvani si era invaghito di una nobilissima donna, e l’aveva fatta sua, nè parve che quelle nozze scemassero l’audacia e la costanza del congiurato. Profondamente innamorata di lui, animosa e paziente, Luisa Salvani fu una forza nuova, non già un ostacolo ai propositi dell’intrepido uomo.

Il primo processo lo trovò padre d’un figliuoletto, e la dolcezza degli affetti domestici fu turbata poi dall’esilio. La sua Luisa rimase sola, sposa e vedova ad un tempo, senz’altra consolazione che quella creaturina, di cui ella doveva custodir l’esistenza, innanzi di poterla educare ai nobili esempi paterni.

Così visse Lorenzo Salvani dal 1832 fino al ’47, sempre accanto a sua madre, e non vedendo suo padre se non rarissime volte, allorquando l’esule interrompeva i suoi sconsolati viaggi per venire a salutar di soppiatto la moglie e fuggirsene da capo innanzi che la polizia avesse sentore della sua presenza: mesti ritorni e meste dipartite, che poi risplendevano come altrettanti fari luminosi sul mare tenebroso della sua vita raminga.

Nè più riposato per lui fu il tempo succeduto all’esilio; perchè, ritornato del ’47 in Italia, Rigo Salvani partecipò ai moti di Genova, che dovevano finire con la promulgazione [p. 10 modifica]dello Statuto e con la dichiarazione della guerra santa, come la chiamarono allora; nè valse a mutarle il nome che il papa Pio IX, dopo aver benedetta l’Italia, la maledicesse pentito.

Non è nostro intendimento raccontare quel che operasse allora il Salvani. Uomini come lui non potevano stare inoperosi, o mancare, dovunque fosse da menar le mani; e quando le fortune d’Italia si trovarono ridotte allo stremo sulle sacre mura di Roma, minacciate dai fratelli di Francia, il Salvani era maggiore, e contava le sue quattro ferite.

Era la sera del 29 aprile del ’49, e il maggiore occupava coi suoi legionari la porta di San Pancrazio, quando gli venne annunziata la presenza di un giovinetto, il quale chiedeva di lui. Rigo Salvani stava in quel punto scrivendo; però, fatto entrare il visitatore, gli chiese, senza alzar gli occhi dal foglio, chi fosse e che cosa volesse.

L’adolescente, ch’era vestito di rosso, e ad onta della tenera età portava molto fieramente il cappello di feltro a larghe falde con la penna tricolore, salutò militarmente e rispose:

— Sono Lorenzo Salvani. —

Immagini il lettore che senso facesse sull’animo del maggiore quella breve risposta. Rigo Salvani balzò dalla sedia, corse ad abbracciare il figliuolo, e tirandolo con dolce violenza sotto il lume d’una candela, gridò:

— È lui, proprio lui! —

Ma l’ebbrezza di quell’amplesso paterno non fu lunga; il maggiore, lasciata la bruna testa del figlio, che teneva stretta nelle palme, ripigliò con accento di rimprovero:

— E tua madre, disgraziato?

— Mia madre, — rispose l’adolescente, — mi ha data la sua benedizione, trovando giusto che dov’era il padre potesse stare anche il figlio. —

Il maggiore stette un istante a guardare quel sedicenne che ci aveva le risposte così pronte, e che stava lì ritto e rispettoso davanti a lui nella posizione del soldato senz’armi; poscia borbottò tra i denti:

— Infine, ha ragione, ci può stare anche lui. — Abbracciò allora una seconda volta suo figlio, e dopo averselo fatto sedere vicino, e chiestogli le nuove di casa, proseguì:

— E adesso, in che compagnia sei?

— In nessuna, signor maggiore. Desidero di servire sotto il vostro comando, se non vi è discaro. [p. 11 modifica]

— Sta bene; e quando sei giunto?

— Oggi stesso; vengo da Civitavecchia, e precedo i signori Francesi, dei quali ho veduto lo sbarco, liberamente operato. —

Dicendo queste ultime parole, l’adolescente batteva de’ piedi sul pavimento, in segno di dispetto.

— Chétati! — rispose sorridendo il maggiore. — Non entreranno così liberamente di qua.

— Lo credo; qui ci siete voi, padre mio. E poi, penso che i cittadini di questa repubblica ricorderanno gli esempi dell’antica. Furio Camillo era ben nato da queste parti. —

Lorenzo, sebbene in quell’anno avesse cominciato a studiare filosofia, non aveva già dimenticati i due di rettorica. Parlava volentieri dei Fabii, dei Manlii, dei Quinzii, e d’altri somiglianti semenzai d’uomini prodi. Ancor egli aveva cantato a squarciagola per le vie di Genova:

Fratelli d’Italia,
     L’Italia s’è desta;
     Dell’elmo di Scipio
     S’è cinta la testa.
     Ov’è la Vittoria?
     Le porga la chioma;
     Che schiava di Roma
     Iddio la creò.

Rigo Salvani era tutt’occhi a contemplare suo figlio; ne ammirava lo sciolto linguaggio e il piglio marziale. Lorenzo era ancora un ragazzo, ma già in lui si sentiva l’uomo. Le prime schioppettate avevano da compiere la trasformazione, e da porvi il suggello.

— Tu, dunque, sei venuto a tempo; — gli disse il maggiore. — Credo che domani i signori Francesi, ai quali mi sembra che tu porti già un grande amore, saranno alle viste.

— Hannibal ad portas. Ma noi, babbo, non istaremo a piagnucolare come la plebe romana dopo la rotta di Canne, e muoveremo loro incontro.

— Se questo sarà il comando dei capi.

— S’intende, signor maggiore. Ma poichè oggi, entrando in Roma, ho già imparato a cantare: Anneremo in Campidojo — A saluta’ er berretto, non mi spiacerebbe cambiar domattina di musica. A proposito, padre mio, dicono che il primo fuoco fa paura....

— Secondo i casi, ragazzo mio; — rispose il maggiore, che se la spassava ad ascoltare la gaia parlantina del figlio. — Ed anche dipende molto dalla compagnia in cui uno si trova. [p. 12 modifica]

— Orbene, padre mio, se non vi spiace, starò vicino a voi, farò di non tremare. Se mi vedrete una brutta cera, ditemelo subito; la vergogna mi farà diventar rosso come questa camicia.

— Te lo darò io, il rimedio contro la commozione del primo fuoco; — disse il maggiore. — Mettiti a cantare la Marsigliese, e ti sentirai un cuor di leone.

— Avete ragione, padre mio; ma io non la canterò certamente in francese.

— E perchè?

— Perchè non mi pare ben fatto cantarla nella stessa lingua di chi viene ad assalirci. Voi avete detto ch’io porto amore ai Francesi, e, sebbene celiando, avete colto nel segno. Io amo molto i Francesi, perchè sono un gran popolo, ed hanno fatto di grandi cose nel mondo; ma la lingua della patria innanzi tutto. Ed io, per far le schioppettate con loro, come dobbiamo, essendo assaliti, vedrò di scordare che hanno fatta la rivoluzione dell’89 e promulgati i diritti dell’uomo.

— Ecco, tu parli come un uomo di Stato, mio buon Lorenzino; — disse Rigo Salvani, accarezzando i neri capegli del figlio. — Ma perchè non vorrai tu cantare la Marsigliese nella sua lingua nativa? È il canto della libertà, e la libertà è patrimonio di tutte le nazioni. D’altra parte, mi dicono che sia impossibile voltarlo in italiano, conservando tutti quei tronchi che sono nell’indole della lingua francese.

— Oh! — rispose Lorenzo con la baldanza spensierata che è propria dei giovani. — Se la difficoltà è tutta nei tronchi, non è cosa da spaventarsene; e poichè l’essenziale è di poterla cantare, io ne sono venuto a capo. Non ci sarà la forza dell’originale; ma la musica supplisce al difetto. Sentite un po’.

E l’adolescente cominciò in questo modo a cantare:

Prodi, orsù; per la terra natia
     Il bel dì della gloria spuntò.
     Contro noi la tirannide ria
     Lo stendardo sanguigno levò.
     Udite voi? — L’empie coorti
     Van ruggendo per l’arso terren;
     Vengono, vengono, sul vostro sen
     A sgozzarvi figliuoli e consorti.
          All’armi, cittadini
     Stretti a drappel moviam!
     Corriam, d’un sangue vil
     Que’ solchi abbeveriam!

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— Benissimo! va innanzi: — gridò il maggiore Salvani. — La musica ci si adagia abbastanza bene, in questa tua strofa. Sentiamo l’altra. —

Lorenzo, incuorato dalla lode paterna, proseguì con accento più concitato:

Che vuol mai questa folla di schiavi,
     Questa lega di perfidi re?
     Per chi mai questi ceppi da ignavi?
     Quelle pronte catene perchè?
     Forse per noi? — Su, ti disfrena,
     O gran tempo represso furor!
     Siam noi che pensano nell’imo cor
     Di ridurre all’antica catena?
          All’armi, cittadin!
     Stretti a drappel moviam!
     Corriam, d’un sangue vil
     Que’ solchi abbeveriam!

— Lascio stare le altre, — soggiunse l’adolescente, com’ebbe finito il ritornello, — e vengo subito all’ultima, a quella che ogni buon repubblicano usa cantare in ginocchio.

Santo amor della patria, tu incita,
     Tu sostieni la vindice man;
     Libertà, libertade gradita,
     Co’ tuoi figli combatti sul pian,
     E volga a noi — i passi suoi
     La Vittoria, al tuo forte chiamar;
     E i vili veggano, presso a spirar,
     La tua gloria e il trionfo de’ tuoi.
          All’armi, cittadin!
     Stretti a drappel moviam!
     Corriam, d’un sangue vil
     Que’ solchi abbeveriam!

— Bene! — gridò il maggiore, stringendo il giovinetto nelle sue braccia. — Tu sei davvero sangue del mio sangue.

— Ah! questo bel legionario è vostro figlio? Me ne rallegro con voi, maggiore Salvani. —

Queste parole erano proferite da un nuovo personaggio, entrato allora allora nella camera. Portava egli pure la tunica rossa e il cappello di feltro nero colla penna dei tre colori, e sebbene non contasse ancora i ventidue anni, aveva già aspetto d’uomo maturo. Il pensiero è quella certa lama, così spesso adoperata a raffronti poetici, che a lungo andare logora la guaina. Il viso pallido, lo sguardo e l’atteggiamento malinconico, la fronte prominente e spaziosa sotto l’onda dei [p. 14 modifica]lunghi capelli biondi, mostravano a prima giunta il pensatore; e il pensatore a quell’età non poteva essere se non un poeta.

— Sei tu, amico? — disse il maggiore, muovendo incontro al nuovo venuto. — Eccoti mio figlio, per l’appunto, Lorenzo Salvani: un tuo concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.

— Bello, e animoso, in verità! — soggiunse quell’altro. — Ed è probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.

— L’hai dunque udito?

— Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È molto difficile voltare quell’inno nella lingua nostra, senza mettersi in guerra dichiarata colla musica. C’è sopra tutto la prosodia del quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a proposito, l’ultima strofa non ce l’avete mica fatta sentire. Sapete bene che la Marsigliese ha un’ultima, ultimissima strofa, dove sono i fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; Nous entrerons dans la carrière....

— Ah sì, dite benissimo; — replicò il giovinetto; — e questi sono i versi che stanno meglio sulle labbra d’un ragazzo par mio. Infatti, ho tradotto anche questi:

Noi verremo secondi a riscossa,
     Che i maggior non saranno già più;
     Ma là sparse sarannovi l’ossa,
     Ad esempio d’antica virtù.
     A quelli eroi — sopravvivendo,
     O con essi caduti sul pian,
     — «Hanno voluto» tutti diran
     «Vendicarli, o seguirli morendo».
          All’armi, cittadini
     Stretti a drappel moviam!
     Corriam, d’un sangue vil
     Que’ solchi abbeveriam!

— Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti, — disse l’altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare, — perchè venite animoso a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo caduti. —

Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi della gangrena, e le palle di [p. 15 modifica]cannone ch’entravano per le finestre a turbar l’agonia del Tirteo genovese.

Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era Goffredo Mameli, l’autore dei Fratelli d’Italia e di tanti altri bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della sua sconciatura, e più del coraggio con cui s’era fatto a metterla in mostra.

Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l’arrivo del generale Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo si pose sull’orme del padre.

L’eroe di Sant’Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell’animo del giovinetto. Tutto ciò ch’egli aveva udito e letto intorno a quel maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della riverenza che gl’inspirava la vista del grand’uomo dalla camicia rossa, coperto il petto e le spalle dal poncho americano, onde il braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento dell’òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.

A quell’aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma, terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d’un subito tutta la possanza di quell’uomo sulle moltitudini; comprese allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui cenno altri si precipitasse senza esitare dall’alto d’una torre, siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.

Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese; indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:

— Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più dispotismo sulla terra. —

Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte mura di Roma, [p. 16 modifica]sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.

Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov’era già la moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all’Università genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le carezze di sua madre.

Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l’acerbità gli amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti. Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia: l’Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il Fratelli d’Italia; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima grande rivoluzione d’Italia, soldati d’ogni paese e strumenti d’ogni tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.

Lorenzo si pose con tutta l’anima allo studio. Lo sconforto che gli occupava lo spirito gli nutrì quell’amore della solitudine che già rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l’anno scolastico, volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin dalla sua prima giovinezza diventato maestro.

Egli soleva dire a Lorenzo:

— Impara a leggere ne’ tuoi codici; impara a scrivere le tue prose e i tuoi versi; ma impara anche a dare in tempo la botta diritta, e a piantare di primo lancio una palla di pistola in un palo, a quaranta passi discosto. Il coraggio l’hai; abbi ancora la destrezza, perchè gli uomini in maggioranza son tristi, e dai tristi bisogna sapersi far rispettare. [p. 17 modifica]Ama la patria, perchè essa, che ti ha dato i natali, è schiava dello straniero, e perciò non devi patire questa vergogna, non già per alcun bene che tu ti possa riprometter da lei. Così devi amare il tuo simile, senza dolerti delle sue doppiezze e de’ suoi tradimenti. Se trovi una donna sincera, amala come io ho amato ed amo tua madre. Se trovi un amico che sia schietto e generoso, stendigli la mano. Se la donna o l’uomo non risponderanno alla fede che avevi riposta in essi, non ti accorare oltre il bisogno; sarà tanto peggio per loro; tu ara diritto, e non ti dar pensiero del resto. —

Questi insegnamenti, misti alle conversazioni politiche, ai ricordi del campo, alla lettura di Plutarco e alle lezioni di scherma, avevano fatto opera gagliarda nell’animo sensitivo di Lorenzo. A quarant’anni, ammaestrato ad una simile scuola, sarebbe riuscito uno stoico; ma non aveva ancora diciott’anni, e lo aspettavano certe battaglie, alle quali si mostra inerme quel petto che era pur dianzi tetragono ad ogni avversità della vita.

La madre di Lorenzo era una di quelle donne, non troppo rare, la Dio mercè, presso noi, cresciute nel culto del bello, del buono e del vero. Ella aveva molto sofferto per la lontananza del marito, che fortemente amava, e al quale aveva consacrato quel ragionevole ossequio che si merita la virtù presso gli animi virtuosi. Egli, poi, la ricambiava di pari affetto, la sua nobilissima Luisa; per lei si spianavano le rughe della sua fronte; e quando ella parlava. Rigo Salvani trovava pure il modo di comporre ad un sorriso quelle sue labbra chiuse. L’amor loro poteva assomigliarsi a que’ fiumi, i quali son tanto più profondi, quanto alla superficie vi appariscon più calmi.

E nondimeno taluni si argomentavano di sapere che negli anni dell’esilio il signor colonnello avesse fatte le sue. Ignoravano costoro che per la donna amata Rigo Salvani era tornato di sovente a casa, sotto mentite spoglie, arrisicando la libertà e la vita. Non erano questi davvero i diportamenti di un uomo, che mettesse i suoi affetti fuggevoli in paese straniero. Tuttavia, ed eccettuato quel tanto che vuolsi ascrivere al bisogno naturale della maldicenza, ecco da dove quelle ciarle avevano potuto prendere una mezza apparenza di vero. Al suo palese ritorno, che fu nel ’47, Rigo Salvani aveva condotta con sè una bella fanciullina di forse otto anni, collocandola in casa come una sua propria figliuola.

Ora, siccome i Salvani vivevano piuttosto appartati, non [p. 18 modifica]si poteva a tutta prima capire che cosa significasse quella ascosaglia. Le poche domande che in un lungo spazio di tempo si poterono fare da qualche curioso, erano accortamente deluse. Ne seguì naturalmente che quanto non si sapeva di certo, si affermasse audacemente per vero, attinto da buonissima fonte, e che presto non ci fosse più alcuno, tra i conoscenti e i vicini della famiglia, il quale non credesse esser quella una figlia naturale di Rigo Salvani. La cosa era chiara; non poteva essere altrimenti; e qui taluno, di fantasia più ferace, rimpolpava di qualche particolare la chiacchiera, accennando, coll’aria di chi sa più che non voglia dire, a certo amorazzo di Spagna, e compiangendo sinceramente la povera signora Luisa, costretta a tenersi in casa quel frutto degli illeciti amori del vagabondo consorte.

Ma la povera signora Luisa non pareva dolersene, come tutta quella brava gente avrebbe desiderato, per accattar fede ai suoi benevoli sospetti. Essa amava teneramente la fanciulla; ed anche Lorenzo, di sette anni maggiore in età, l’aveva in conto di sorella. Quante volte ritornava a Genova in vacanze, ci aveva sempre il suo presente per la cara Maria, che d’anno in anno cresceva in bellezza, affinandosi in grazia, in gentilezza, in bontà, tutta amore e devozione per quella che aveva preso a chiamare anche lei col dolce nome di madre. Presentiva ella, tenendosi così stretta al fianco della pietosa signora, che troppo breve spazio di tempo le sarebbe avanzato per dimostrarle tutta la sua gratitudine?

Nel ’55 la signora Luisa morì: il colonnello, d’allora in poi, fu più taciturno, più chiuso del solito: Lorenzo per quell’anno lasciò le Pandette e il Digesto da banda, e non si mosse da Montobbio, perchè, oltre il suo proprio dolore che lo aveva abbattuto, c’era l’accoramento del babbo, che gli faceva paura.

Tutte le mattine, sull’alba, Rigo Salvani era al camposanto a salutare la tomba di sua moglie, quella tomba che racchiudeva la miglior parte di sè, tutte le ricordanze profumate della sua giovinezza, gli amori, le gioie, i patimenti in ugual misura divisi tra due nobili cuori. Nè l’amore dei figli poteva più bastare a quell’anima sconsolata. I figli nostri son nati per la vita del futuro, nè ci compensano della perdita di chi ha vissuto con noi amorosamente il passato.

Un giorno. Rigo Salvani, andato secondo il costume al camposanto, non ne fu più visto ritornare. Lo trovarono freddo irrigidito sulla tomba della moglie. Le due parti [p. 19 modifica]d’una sola esistenza, che tali si potevano dir veramente, divise per breve ora dalla morte, si erano nella morte ricongiunte. L’orfano pianse a lungo i parenti, ed allorquando le lagrime cessarono, il suo cuore era già largamente abbeverato di quella amarezza, che è il viatico degli onesti nel mare procelloso della vita. Dei cari estinti gli rimaneva pur qualche cosa; il culto dei severi insegnamenti, il sacro debito di dar sesto alle non prospere cose domestiche, e di essere a sua volta come un padre per la giovine Maria.

Lasciò allora la campagna, e pose dimora in Genova, dove sperava di cavare in qualche onesta maniera il vivere, pure attendendo a finire i suoi studi. Delle sostanze paterne ben poco si potè sottrarre ai creditori ed ai vampiri giudiziarii. Intanto due anni passarono, e salvo l’esser giunto a conseguir la licenza in leggi, il povero Lorenzo non era venuto a capo di nulla. E di sovente pensava al triste futuro, alla sua vita senza indirizzo, senza speranze, con pensieri a contrasto coi fatti, come con le necessità urgenti del giorno. Vero figlio del suo secolo, si lagnava del padre suo che lo divorava, come Saturno la prole.

Che cosa avrebbe egli fatto? L’avvocato? Era una bisogna troppo lunga, nè egli aveva modo di aspettare un altr’anno per la laurea, poi due per le pratiche, e dio sa quanti altri per sudarsi una clientela. C’erano i pubblici uffizi; ma in questi si comincia sempre dal lavorare per nulla, e a farsi avanti occorre poi sempre una legione di santi intercessori, Darsi al commercio? Peggio che mai. Anche a cominciar da scritturale, da commesso, da galoppino, gli sarebbe bisognato rifar da capo tutta la sua educazione, e aver conoscenti che sapessero e volessero raccomandarlo caldamente qua e là, dove e quando il posticino si potesse trovare. Intanto, il bisogno di lavorare incalzava. Lorenzo era giunto a quell’ultimo stadio dell’agiatezza, allorquando dall’oggi al domani si casca nelle strette della necessità, perchè si è vissuti con gli ultimi avanzi di una modesta sostanza, e non si sa ancora che cosa sostituirvi.

Egli tuttavia non si era perduto d’animo, vagheggiando in buon punto un modesto disegno. Apertosi schiettamente coll’amico Assereto, aveva finalmente, nè senza fatica, trovato qualche cosa. L’Assereto era uomo di partiti, e di facile entratura; amava anche molto Lorenzo Salvani, col quale discorreva volentieri di letteratura. Il che non deve far maraviglia ai lettori non genovesi. Essi hanno da sapere, infatti, che da noi le Camene son tenute in conto più che a prima [p. 20 modifica]vista non sembri. La necessità fa l’uomo industrioso, perciò il genovese, quando sia giunto all’età di dover pensare ai casi suoi, si mette a lavorare con tutte le sue forze; ma non dimentica le panche della scuola, e gli studi geniali della adolescenza gli sorridono sempre, come l’immagine dell’òasi al viaggiatore del deserto. S’ingegna tutto il giorno sulla piazza de’ Banchi e sulla popolosa calata del porto; ma si riposa alla sera discorrendo d’arte, mettendo a confronto drammi e commedie, teatri di prosa e teatri di musica, ed accettando la discussione su tutti i rami dello scibile.

L’Assereto, voleva ad ogni costo trovar modo di aiutare l’amico Salvani. A grossi guadagni non c’era da pensare, pur troppo; ma occorreva procacciargli tanto da tirar avanti la barca, aspettando una giornata di buon vento. Quel tanto, gli pareva di averlo trovato presso un ricco bottegaio, il quale «sapeva poco di lettera», e aveva bisogno di uno, che ogni sera gli mettesse a segno i suoi conti.

Non arriccino il naso certi lettori schizzinosi, al sapere che Lorenzo Salvani, uno dei più ragguardevoli personaggi della nostra storia, teneva i libri d’un bottegaio. Se hanno essi un’altra occupazione più nobile da offrirgli, ci usino la cortesia di avvisarcene, e noi lo accomoderemmo subito al loro servizio. Di meglio non s’era trovato allora; ma era pur sempre il principio di qualche cosa. Ottanta lire al mese, pagate in sedici scudi d’argento, non erano una spregevole moneta, e Lorenzo Salvani la guadagnava con due orette di lavoro notturno, che neppur l’aria aveva a risaperlo.

Quelle ottanta lire, messe insieme con qualche avanzo delle antiche sostanze e con alcune gioie di famiglia, vendute alla spicciolata, aiutavano tre persone a vivere. Lorenzo, la giovine Maria, ed il vecchio Michele, veterano di Montevideo e di Roma, il quale, a sua volta, si acconciava all’umile ma gradito ufficio di servitore. La pigione di casa, al tempo in cui comincia il nostro racconto, era pagata ancora per tre mesi.

E adesso, che abbiamo fatto intendere un poco lo stato delle cose nella famiglia Salvani, non sarà male proseguire la narrazione interrotta.