I rossi e i neri/Primo volume/III
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III.
Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni, e di una spasimata voglia che aveva di scendere in campo per la sua dama.
Abbiamo lasciato Lorenzo nel punto che egli era per entrare nel salottino, chiedendo a sè stesso chi fosse mai l’importuno che veniva a cercare di lui. L’importuno era un giovinotto sui trenta, lungo e magro, con una testa volgare, capelli rossigni e ruvidi, corti e radi i peli sul viso, la guardatura fosca. Non bello, adunque; ma non per niente è stata inventata la moda, che anco d’un ceffo di cane può farvi una faccia da figurino di Parigi.
I capelli rossigni del nuovo venuto erano dunque tagliati a spazzola sulle tempia, con la divisa tirata ben diritta e bene impomatata sul cranio. La barba rada, che traeva un pochettino al castagno, si stendeva tra gli orecchi e gli zigomi in due ventole smilze. Il labbro superiore e il mento accuratamente rasi, lasciavano risaltare una bocca sottile, ornata di denti bianchissimi, ch’egli faceva spesso vedere, con notevole compiacenza. La magrezza delle membra, coll’aiuto d’un vestimento all’inglese, simulava sveltezza di forme. I guanti perlati, coi tre cordoncini neri sul dorso, che era mezzo coperto dai manichini insaldati, lo stivalino inverniciato, e l’occhialetto cerchiato di tartaruga, davano il compimento a questo esemplare della grazia posticcia d’allora, e di poi. C’era insomma tutta la parte materiale della eleganza aristocratica; e l’aspetto dell’uomo, così ridotto a forme di consuetudine, poteva riuscir tollerabile ai più, e, crepi l’avarizia, parer grazioso a parecchi.
Lorenzo Salvani non seppe trattenere un atto di maraviglia, quando vide costui nel suo salottino. L’inarcamento delle ciglia e la testa tirata indietro significavano il più grosso dei punti ammirativi, e una filza di puntini per giunta.
— Collini! — esclamò egli, senza muoversi ancora dal suo atteggiamento.
— Sì, Collini, per l’appunto; — rispose l’altro con un sorriso ch’egli si studiava di rendere amabile. — Vi maraviglia forse?
— Forse; lo avete detto voi stesso; — ripigliò Lorenzo, con accento malizioso, ma senza cattiveria. — Ma che buon vento vi sbalza quassù?
— Non troppo buono, per verità; — disse il Collini. — Comunque sia, non vi dispiaccia che io sia venuto da voi per chiedervi un servizio da amico.
— Non potevate farmi cosa più grata, — disse di rimando il Salvani. — Son così lieto quando posso renderne uno, che ciò mi consola della mia pochezza, e della mia povertà. Accomodatevi, prego, e veniamo all’essenziale.
— Eccolo; — rispose il Collini, sedendosi sulla scranna che Lorenzo gli offriva. — Questa notte, alla veglia del Ridotto, sono stato insultato.
— Oh diamine! e da chi?
— Dal marchesino di Montalto. Un tale che non ha il becco d’un quattrino! Lo conoscerete; è quel coso biondo, tutto superbia, che va sempre ritto impalato, nell’eterna compagnia del Pietrasanta.
— Voi sapete che io non ho dimestichezza con questi signori del patriziato. Vivo così fuori del mondo!
— Ah, è vero; e forse è il meglio che si possa fare; — concesse con un mezzo sospiro il Collini, — Ma a noi la professione comanda di viverci dentro, e bisogna adattarsi. Io dunque vi dicevo che questa notte, al ridotto del Carlo Felice, sono stato insultato dal signor Montalto, e alla presenza di una signora, di una dama.
— Perdio! la cosa è grave. Ma dite.... in che modo?
— Oh, si andrebbe per le lunghe; — rispose il Collini, con aria impacciata.
— Scusate; — si affrettò a dire Lorenzo. — Non domandavo del modo, se non per misurare la gravità dell’offesa, e non pensavo affatto alla persona che era presente. Le donne, in questi casi, van nominate il men che si può. Ma bisognerà pure, se debbo darvi consiglio, bisognerà pure ch’io sappia la frase, la parola di cui vi ritenete offeso.
— Avete ragione, Salvani; ed ecco qua tutto il necessario. Accompagnavo la signora, che era mascherata. La signora bisbigliò alcune parole, certamente di grazioso motteggio, come è l’uso, al marchese di Montalto, il quale stava insieme col marchese Pietrasanta, in un angolo della sala dove c’è il camino. Non udii le parole della signora; ma quali si fossero, non dovevano meritare una dura risposta, alla quale essa ribattè prontamente ch’egli non era cortese. Notate, Salvani, che la signora è di buonissima nobiltà, e le smorfie del Montalto, che non potrà poi far risalire la sua al tempo delle Crociate, erano veramente fuori di posto, e un grazioso motteggio della contessa.... Oh, perdonate, quasi mi lasciavo sfuggire il suo nome.
— Non importa, — disse Lorenzo. — Io non soglio ricordarmi di ciò che debbo dimenticare. Proseguite pure.
— Orbene, — soggiunse il Collini, — a quel piccolo rimprovero della signora, il Montalto fece un inchino impertinente, accompagnato da un sorrisetto sarcastico.
— E voi?
— Io non potei ritenermi dal fargli notare la sconvenienza del suo ghigno. Ma egli allora, rialzando il capo e guardandomi in atto sdegnoso, mi disse: «Voi badate ai fatti vostri». Volli replicare; ed egli da capo: «Mi provocate voi forse?» — «Sì, perchè no?» — «Voi?» ribattè egli, beffardo. — «Signore» dissi allora, «io non so di che cosa possiate ridere, quando io vi parlo in questo modo; ma penso lo direte a coloro che avrò l’onore di mandarvelo a chiedere». — «Saranno i ben venuti» rispose; e ci separammo. Eccovi tutto l’accaduto. Che cosa debbo fare? —
E il giovinotto dai capelli rossigni stette ansioso ad aspettar la risposta.
— Perbacco! — esclamò Lorenzo Salvani. — Non trovo altro modo di uscirne, se non mandando i padrini a questo marchese di Montalto. La ragione del duello mi sembra assai lieve; ma probabilmente c’è sotto qualche ruggine colla signora....
— Colla signora? Oh no; — rispose il Collini. — Ella mi disse di non conoscere il Montalto altrimenti che di vista, e di non avergli detto se non cose gentili, e molto innocenti.
— Allora ci sarà una ruggine del Montalto con voi.
— Eh, qui penso che abbiate ragione, Salvani. Egli deve volermi un mal di morte, perchè gli ho lasciato sempre intendere di non stimarlo gran che.
— Male! — esclamò Lorenzo. — Consentite a me, più giovine di voi, ma vostro antico compagno alle medesime scuole, di sgridarvene un poco. Gli uomini bisogna stimarli tutti, senza accarezzarne nessuno. Ora a noi; in che cosa posso esservi utile?
— Già lo immaginate, poichè vi ho detto d’esser venuto chiedervi un servizio. Fatemi da padrino.
— Sta bene; — disse Lorenzo, accennando del capo. — Siete pratico d’armi?
— E di sciabola e di spada ho tre anni di scuola, da Licurgo Cavalli.
— Ce n’è d’avanzo. E di pistola?
— Mi son sempre esercitato.
— Ottimamente! Due grammi di coraggio, di cui non patirete certamente difetto; due di sangue freddo, che è proprio dell’arte vostra, e siete armato di tutto punto. Dove abita questo Montalto?
— In via Balbi.
— Palazzo?...
— Oh, non abita in un palazzo, il marchese di Montalto. La nobiltà ce l’ha tutta in boria. Non ricordo più il numero dello stabile; ma non vi sarà difficile trovarlo, prendendo lingua dai bottegai di là dal palazzo Reale. Aspettate; ricordo che c’è un portinaio, e ch’egli abita al secondo piano.
— Bene, bene, lo troveremo; — conchiuse Lorenzo. — Ma, a proposito del mio plurale, non avete un compagno da darmi, per questa bellica impresa?
— Non ne ho; non saprei.... — disse impacciato il Collini.
— Come? E non siete voi sempre in fiorita compagnia, nella quale potrete sempre trovar l’uomo che occorre? — chiese Lorenzo, che non poteva più stare alle mosse. — I vostri antichi compagni li avete sempre trascurati un tantino, per andare con altra gente, e di maggior levatura. Non dico ciò per farvene un rimprovero. Dio guardi. Accenno il fatto, e ripeto lagnanze di vecchi amici, che forse, confessatelo, da un pezzo in qua non v’accorgevate nemmeno che fossero al mondo.
— È un’accusa che non merito; — gridò il Collini, arrossendo. — La mia professione di medico, l’onesto desiderio di tirarmi innanzi, mi hanno condotto a vivere più in un ceto che in un altro; ma io vi giuro....
— Oh, non giurate nulla; — interruppe Lorenzo. — Capisco tutto, e vi ripeto che non parlavo per farvi rimprovero. Io, finalmente, debbo riconoscere che nel momento del bisogno avete pur fatto capo alla mia modesta persona. Sapete da quanto tempo non ci troviamo insieme? Da due anni.
— Credete? — balbettò il Collini, arrossendo ancora.
— Se lo credo! ne son certo. Ma andiamo, via! Non avete tra i vostri magnati l’uomo che vi possa servire? Lo cercherò io tra i miei fedeli del buon tempo e del gramo. Pregherò l’Assereto di darmi man forte.
— L’Assereto? Mi par di conoscerlo.
— Certamente, lo conoscerete. Studiava filosofia con me, all’Università, quando voi eravate ai primi anni di medicina. Ma noi altri non ci siamo perduti di vista, sebbene egli abbia mutato strada. Ordunque, ai fatti. Aspettatemi due minuti, e sono ai vostri comandi. —
Come il lettore ha veduto, questo signor dottor Collini, che veniva a chieder servizi di tanto rilievo, non si faceva notare per costanza nelle sue amicizie. Inoltre, viveva in un ceto di persone, e andava a cercare assistenza fraterna in un altro, in quello, per l’appunto, che aveva abbandonato.
Il dottor Collini (lo diciamo ora, poichè ci viene in taglio) era un ambizioso di tre cotte, e della modesta sostanza che aveva ereditata dai suoi, si era giovato accortamente per frequentare i gran signori. Esercitava la medicina, nella quale era versatissimo e già famoso per qualche cura fortunata, sebbene ancor giovine: ma si diceva che quel giovine medico s’aiutasse più con la sottigliezza dei raggiri che con la bontà delle ricette. E taluno, anzi, più addentro in certi misteri della vita cittadina, lo accusava d’imprestar denaro ai figli di famiglia, ai troppo vivaci rampolli delle nobili casate con le quali era entrato in relazione, per farselo poi restituire raddoppiato dai frutti, o triplicato, o quadruplicato, col savio metodo delle rinnovazioni. Ahi, la calunnia! Ma egli in questi negozi non entrò mai per suo conto: parlava, faceva parlare da altri, e non domandava nemmeno di essere ringraziato della sua cortese intromissione. Al più, volendo malignare ad ogni costo, si sarebbe potuto dire che egli sapesse collocar bene il suo denaro, essendo uno dei socii occulti del banco Cardi Salati e C., del quale a suo tempo racconteremo vita e miracoli. Brutta cosa, non è vero? Ma questa non si sapeva, e quanto a certe chiacchiere di gente malevola, il Collini le poteva disprezzare. Dotto e virtuoso per molti, non aveva agli occhi loro altro difetto che l’ambizione, anzi la forma più tenue dell’ambizione, la vanità. E se ne rideva un pochino, senza perdergli stima. Si sa bene, chi non ha il suo difettuccio? La vanità è il piede di creta di tanti colossi! Ma bisognava anche dire che la vanità del Collini, non che un piede, fosse una gamba a dirittura.
Per avere un titolo di conte, il giovinotto avrebbe sacrificato Dio sa che cosa, e, stiamo per dire, battuto moneta falsa. Però invidiava al marchese di Montalto le sue pergamene, come gl’invidiava la bellezza (un po’ sciocca, la chiamava egli tuttavia) e i sospiri delle belle signore. In teatro gli davan noia gli applausi prodigati ad un tenore, come di cosa che gli levassero a lui: sulla pubblica piazza avrebbe augurato il capitombolo ad un saltatore di corda, ad un mattaccino, per tutte le prodezze che sapevano fare, e che tiravano troppo l’attenzione della folla.
Lorenzo Salvani non sapeva niente di ciò. Nel Collini non vedeva altro che un semplice vanerello, e, da buon filosofo com’era, gli perdonava facilmente quel suo peccatuccio. Era d’altra parte contento che nell’ora della necessità, in una di quelle occasioni che provano gli amici, il Collini si fosse ricordato d’un vecchio compagno di scuola, da gran tempo a mala pena salutato per via.
Così risoluto di rendergli servizio, si vestì in fretta, mise nel taccuino alcuni biglietti di visita, e uscì di casa in compagnia del Collini, suo Pilade improvvisato.
L’Assereto fu presto scovato tra piazza dei Banchi e il vicolo de’ Cartai, ragguagliato d’ogni cosa e persuaso a dare una mano. Due ore più tardi, egli e il Salvani erano al caffè della Concordia, dove il Collini stava aspettando l’esito della loro visita al marchese di Montalto.
— Ebbene? — chiese egli ansioso.
— Tutto fatto; — rispose Lorenzo.
— Come, fatto?
— Eccovi tutto per filo e per segno. Abbiamo trovato il signor marchese, assai garbato nei modi, quantunque ne trapelasse un poco della sua alterigia. Saputo del nostro incarico, ci domandò se sapevamo anche le condizioni dell’alterco tra lui e voi. Io, come potete immaginare, risposi di no; che infatti siamo ancora adesso a non saperne nulla. Parve meravigliato, e mormorò tra i denti: «Tanto meglio; vorrei essermi ingannato». Gli chiesi allora che cosa significassero quelle sue parole di colore oscuro. «Niente, niente che vi possa dispiacere, nel vostro delicatissimo ufficio» si affrettò egli ad aggiungere colla maggior compitezza. «Voi bene intenderete, signori, che per andarmi a incontrare sul terreno col signor Collini io non sono certamente costretto a pensare di lui come ne pensano i suoi amici. La sua riserbatezza, del resto, gli fa molto onore, e voi vedete che amo rendergli giustizia. I miei padrini sono il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, capitano nel settimo reggimento di fanteria». Infatti, quei due signori erano in casa sua, e ce li presentò. Sono due compitissimi cavalieri, e c’intendemmo subito. Noi abbiamo lasciato loro, com’era giusto, secondo gli usi nostri, la scelta dell’arma, ed essi hanno scelta la spada. —
Un sottile osservatore avrebbe potuto notare un lieve mutamento sul volto del Collini, una cosa da niente, ma di quelle che bastano a far sentenziare sommariamente di un uomo. Lorenzo tuttavia non si addiede di nulla, e la faccia del Collini si ricompose prontamente. Che paura, del resto? Una piccola scossa, a tutta prima, sentendo nominar l’arma che si dovrà maneggiare. Ma le armi son tutte pari, davanti alla fortuna che le guida.
— Domattina, — proseguiva Lorenzo, — alle ore cinque dobbiamo trovarci in Albaro, presso la chiesuola diroccata di San Nazaro. È un ottimo luogo. Le armi le porterò io, che sono di Toledo, col Christi inciso sul forte della lama. Siete contento?
— Contentissimo: — rispose il Collini; — e vi ringrazio di cuore.
— Anch’io sono contento, — disse il Salvani. — Non già del duello. Ma poichè bisognava farlo, preferisco la spada. È un’arma meno chiassosa, e di antica nobiltà italiana.
— Così penso ancor io; — riprese il Collini. — Io dunque faccio assegnamento su voi altri.
— State sicuro. Ma, a proposito, e il ritrovo? Verremo da voi alle quattro, se vi conviene....
— No, no; — interruppe il Collini. — Non venite da me; ci ho le mie buone ragioni; temo che s’indovini dove vado. Per una visita medica, che fingerò di aver da fare, non è proprio necessario che si vedano due gentiluomini al mio uscio di casa. Farò dunque in modo da non dar sospetti in famiglia, e alle quattro e mezzo sarò io stesso a’ piedi della collina, sotto la villa del Paradiso.
— Vi aspetteremo dunque lassù. E adesso dove andrete?
— Dal Cavalli, a rifare la mano.
— Benissimo; a domattina. —
I due amici, salutato il Collini, andarono pei fatti loro. Ma come furono giunti sulla piazza delle Fontane Amorose, l’Assereto si fermò sui due piedi, guardando il compagno.
— Ebbene? — disse Lorenzo. — Che c’è?
— Sai una cosa? — disse di rimando quell’altro. — Questo Collini non mi pare un uomo solido.
— Baie! e perchè?
— Perchè più volte ho cercato di guardarlo nel mezzo degli occhi, e non ne sono mai venuto a capo.
— Sai che è una sua abitudine non guardar mai fissamente. E voi altri lo tartassavate sempre per ciò, dandogli del gesuita a tutto pasto.
— Sì, quello che vuoi; ma la sua faccia mi persuade meno che mai. Credo che sia pentito d’essersi messo in questo impiccio.
— E in questo noi non ci abbiamo da entrare; — rispose il Salvani. — È venuto a chiederci un servizio; glielo abbiam fatto, e penso, mettendo la modestia da banda, che non avrebbe potuto trovare altri due che lo servissero meglio. Sul terreno farà il debito suo. Li conosco bene, questi uomini: non hanno il coraggio impetuoso, ma il sentimento della loro dignità li sostiene. E poi, questo non è il suo primo duello.
— Credi? Ebbene, si vedrà domattina. Addio; sarò da te questa sera. Così dicendo, l’Assereto se ne andò a casa sua, per la salita di Santa Caterina, crollando il capo come l’Apostolo del dito; benedettissimo uomo, che voleva vedere e toccare.
Lorenzo Salvani discese dai Ferri della Posta verso Luccoli, e rientrando in casa ordinò al fido Michele che spiccasse le spade dal trofeo, per dar loro una ripulita. Poi si mise da capo a tavolino, ripigliando a scrivere nel suo zibaldone, con la voluttà dell’uomo povero, che ha tutti i suoi feudi nel regno della fantasia.