I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Nel paese degli Zulù
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NEL PAESE DEGLI ZULÙ
Paul Carbet, quantunque figlio di poveri contadini delle Ardenne, aveva ereditato, non si sa per quale causa, uno spirito avventuriero, che nessuno dei suoi parenti aveva mai posseduto.
Quel figlio di agricoltori, si era fisso in testa di dare un calcio all'aratro paterno, un addio alle sue montagne e di andarsene pel mondo a cercare miglior fortuna, anche per scoprire nuove terre.
Egli d'altronde asseriva, con la più grande serietà, di sentirsi il diavolo in corpo e di poter emulare i più grandi scopritori del secolo e anche quelli dei secoli passati.
Aveva già letto qualche libro di viaggi prestatogli dal buon Curato della borgatella, e si era esaltato a tal punto da non sognare altro che negri ed indiani e terre ancora vergini che lo aspettavano per essere scoperte.
I suoi compagni, per deriderlo, lo chiamavano il nuovo Colombo e anche Tartarin secondo, persuasi che non avrebbe tardato a lasciare in pace i negri che sognava, e che non avrebbe lasciato l'aratro; eppure s'ingannavano.
Paul Carbet, più cocciuto d'un bretone, maturava i suoi disegni con quella costanza che è particolare dei contadini delle Ardenne.
Un bel giorno, Paul Carbet annunzia improvvisamente la sua partenza. Vende il campicello paterno, la piccola casa, raggranella qualche migliaio e mezzo di lire e fa i suoi fagotti.
– Dove vai, Paul? – gli chiedevano tutti.
– Alla guerra – rispondeva seriamente il giovane contadino. – Vado a combattere i negri.
– E quando tornerai?
– Quando avrò i galloni di capitano.
– No no, vogliamo vederti generale – rispondevano sghignazzando i suoi amici, sempre convinti che quello zuccone, come lo credevano, fosse diventato matto davvero.
Paul Carbet era tutt'altro che pazzo. Era nato per diventare avventuriero e soldato, e doveva dare più tardi una prova luminosa della sua audacia, del suo coraggio e della sua fede nel suo destino.
Quattro giorni dopo Carbet era a Londra, e si presentava in uno dei tanti uffici di arruolamento, che sono così numerosi in tutte le più grosse città inglesi.
La grande Inghilterra aveva bisogno in quei giorni di volontari, da mandare nell'Africa meridionale.
Un re negro, Cettivaio, padrone del Zululand, che disponeva di numerosi reggimenti di negri bene organizzati e anche bene armati, aveva osato intimare la guerra alla possente Inghilterra ed aveva invaso le colonie inglesi del Natal, infliggendo ai suoi nemici già parecchie disfatte.
Quel selvaggio aveva trovato un espediente curioso per rendere i suoi soldati coraggiosi. Aveva fatto proclamare in tutta la Cafreria che gli era sottomessa, che d'ora innanzi più nessun giovanotto avrebbe potuto prendere moglie, se non aveva prima dato prove sicure di valore sui campi di battaglia.
Quell'editto singolarissimo, aveva ottenuto un effetto immediato. I giovani negri si battevano come indemoniati per ottenere il diritto d'impalmare le fidanzate, che da anni attendevano l'unione.
Paul Carbet era ben piantato, robusto come un vero contadino e fu senz'altro arruolato ed imbarcato per l'Africa del sud.
Il suo sogno cominciava e si era anche giurato di farlo finire bene e di non tornare al paesello natìo senza i galloni di ufficiale inglese, non potendo diventare francese.
Due mesi dopo, sbarcava a Durban assieme a molti altri arruolati e veniva mandato nell'interno della Cafreria, dove le colonie inglesi faticavano assai a tenere testa alle bande di Cettivaio.
Quella guerra, che aveva prodotto una grande impressione non solo in Inghilterra bensì anche in tutte le nazioni europee che avevano colonie in Africa, era diventata ferocissima.
I negri resi baldanzosi dalle prime vittorie e reputandosi ormai invincibili, non risparmiavano più nessun uomo bianco che cadeva nelle loro mani e tanto meno le proprietà.
I coloni che riuscivano a sorprendere, fossero inglesi, o tedeschi, od olandesi, li massacravano senza pietà non risparmiando né le donne, né i fanciulli. Le fattorie poi venivano incendiate ed i raccolti distrutti o saccheggiati.
Le colonne inglesi, già più volte battute, retrocedevano dovunque dinanzi agli attacchi di quei barbari, che diventavano sempre più impetuosi e perdevano uomini in gran numero. Guai poi ai feriti ed ai prigionieri! Non tornavano più vivi.
Paul Carbet fu incorporato in una compagnia d'avanguardia e non tardò a farsi segnalare per la sua bravura. Quel contadino, che prima d'allora non aveva conosciuto che l'aratro e la vanga, combatteva come un vecchio soldato e maneggiava il fucile come il miglior fuciliere della fanteria irlandese.
Aveva già affrontato parecchie volte i negri di Cettivaio ed era sempre stato l'ultimo a ritirarsi, dando prove di un sangue freddo inaudito e d'un coraggio che tutti i beffatori del suo paesello gli avrebbero invidiato.
La campagna si trascinava così con varia fortuna da alcune settimane, quando un brutto giorno si sparge la voce che il capitano Tompson, dei fucilieri irlandesi, uno degli ufficiali più stimati e più valorosi del corpo inglese, si trova assediato in un piccolo fortino da diecimila zulù e con soli duecento uomini a sua disposizione.
Un vero panico si era sparso nel campo. Si sapeva che il capitano non aveva provviste che per quindici giorni e che gli aiuti chiesti all'Inghilterra non dovevano giungere che fra venti.
Era necessario quindi avvertirlo di resistere fino a quell'epoca e di ridurre le razioni, onde i soldati non dovessero arrendersi per la fame.
Coi rinforzi che dovevano giungere, erano sicuri di liberarlo; tentarlo colle poche compagnie che vi erano nel campo, sarebbe stato come esporsi ad un nuovo disastro.
Il difficile però era l'avvertirlo.
Chi avrebbe potuto passare attraverso i diecimila negri che assediavano il valoroso capitano?
Nessuno avrebbe avuto l'audacia di tentare una simile prova. Nessuno? No; vi era qualcuno che vi pensava e questi era il nostro contadino.
La notizia era giunta al campo da due sole ore, spargendo la costernazione fra tutti, dall'ultimo fantaccino al comandante in capo, quando Paul Carbet lasciò la sua tenda, dicendo con voce risoluta:
– Ecco il momento di guadagnare i miei primi galloni.
Carbet era una di quelle teste che quando un'idea vi entra non vi esce più.
Senza pensare ai gravi pericoli a cui si esponeva e alla quasi impossibilità di quell'impresa, si presenta al comandante in capo, dicendogli:
– Generale, se vi occorre un uomo che si rechi ad avvertire il capitano Tompson di resistere fino all'arrivo dei rinforzi, eccomi a vostra disposizione.
Il comandante, un vecchio ufficiale che aveva guadagnato le sue spalline sui campi di battaglia, guardò un po' con sorpresa ed un po' con ammirazione quel contadino, che offriva così generosamente la sua vita per salvare il drappello assediato.
– Ti pesa forse la pelle? – gli chiese.
– No, generale, anzi ci tengo a conservarla per poter tornare un giorno al mio paesello coi galloni.
– Pensa che quello che tu proponi è cosa grave. Come vorresti tu passare inosservato attraverso diecimila negri? Sai che gli zulù ammazzano senza misericordia i prigionieri che riescono a prendere.
– Per questo non datevene pensiero, generale.
– Affermi di non aver paura?
– I francesi non sanno che cosa sia, almeno quelli delle Ardenne.
– Tu sei il più valoroso soldato nel nostro campo. Che cosa chiedi Carbet?
– Un buon cavallo ed il mio fucile – rispose il campagnolo.
– E come farai a trovare il forte se non conosci il paese?
– Galopperò finché lo avrò trovato.
– No – disse il generale, dopo un momento di riflessione. – Ti darò io una guida, un negro giovanissimo che finora ha dato prove certe di fedeltà e che saprà condurti e anche aiutarti. Va' a preparare le tue armi e dammi la mano, mio prode.
Mezz'ora dopo Paul Carbet, ancora commosso da quella stretta di mano, lasciava l'accampamento più che mai deciso di guadagnarsi i primi galloni o di morire nell'impresa.
Il negro, datogli perché gli servisse di guida, era un giovane cafro dall'aria furba ed intelligente, che da parecchie settimane serviva da esploratore alla colonna inglese.
Montati su due buoni cavalli, scelti fra i più robusti ed i migliori che si trovavano al campo, bene armati e provvisti anche di viveri, i due giovani si diressero verso una immensa foresta di baobab per giungere fra le montagne fra le quali trovavasi il fortino assediato.
A due miglia dal campo cominciavano a vedersi le tracce della guerra. Villaggi distrutti dalle fiamme, carogne di cavalli e di buoi, furgoni fracassati e abbandonati dai loro proprietari fuggenti sotto le zagaglie, le frecce e le fucilate di quei negri battaglieri.
Paul Carbet non si spaventava però e sognava sempre i suoi galloni, perché era certo di guadagnarli prima che la campagna terminasse. Si vedeva già colla giacca rossa ornata di grosse strisce dorate, il berrettino minuscolo e la sciabola al fianco colla sua brava dragona.
Aveva fede nel suo destino e non dubitava nemmeno un istante di essere nato sotto una buona stella e di tornare al paese natìo a far crepare d'invidia coloro che lo avevano beffato quando era ragazzetto.
Devo però dire che possedeva una grande energia che confinava colla testardaggine e anche una bella dose di coraggio.
Attraversarono la foresta senza aver incontrate le avanguardie del barbaro sovrano e si cacciarono fra le montagne, dove il pericolo doveva diventare sempre maggiore, trovandosi il fortino difeso dal prode capitano in mezzo a quelle gole.
Erano trascorsi due giorni da che avevano lasciato il campo inglese, quando dopo la colazione del terzo udirono improvvisamente delle scariche di fucileria.
– Ci siamo – disse il cafro. – Il forte non si trova che a poche miglia da noi. Raggiungerlo è affare vostro, non avendo da guadagnare io né sterline, né galloni.
– Se tu hai paura torna pure – rispose Paul Carbet. – Io sono di quegli uomini che non retrocedono.
– Voi siete bianco ed io sono nero – rispose il cafro. – Levatevi d'impiccio come potete.
E spronato il cavallo scomparve in mezzo alle piante, prima ancora che Carbet avesse potuto persuaderlo ad accompagnarlo almeno più innanzi.
Il contadino non si era perduto d'animo. La fucileria, che di quando in quando rimbombava fra le montagne, bastava a guidarlo.
Il difficile stava nell'attraversare le linee degli assalitori. Come avrebbe potuto farlo? Il contadino non era uno scimunito e fece subito il suo piano.
Era giunto presso un kraal ossia un villaggio che era stato incendiato. Raccolse delle pietre e si mise a stritolare del carbone.
Frugando nelle capanne semiarse aveva trovato un vaso di grasso di bue di cui si servono gli zulù per dipingersi il corpo, quando vanno alla guerra, e quella scoperta gli aveva suggerita un'idea superba.
– Un bianco non potrebbe avventurarsi nel campo nemico, dove tutti i soldati sono negri – si era detto. – Perché Paul Carbet non potrebbe diventare negro?
Si spogliò della divisa non conservando che le mutande, mescolò grasso e carbone e cominciò a tingersi.
Era tanto sicuro del successo, che non pensò nemmeno un istante che non sapeva mettere insieme dieci parole di zulù, e che se qualcuno lo avesse interrogato, avrebbe fatto subito frittata, e che frittata anche!
La pittura riuscì superba. Due ore più tardi il furbo contadino, in sole mutande e dipinto da capo ai piedi d'un nero magnifico, inforcava il suo cavallo e s'inoltrava risolutamente fra le montagne, dove la fucileria si faceva sempre udire intensissima.
Gli zulù di Cettivaio combattevano con tenacia incredibile, ansiosi di sterminare la piccola guarnigione del fortino e di presentare le teste degli inglesi al loro re.
Da dieci giorni tribolavano senza posa i difensori, tentando di impadronirsi delle trincee che il capitano Tompson ed i suoi uomini difendevano valorosamente, in attesa d'un aiuto da parte del comandante in capo delle forze inglesi.
Cadeva la sera, quando Paul Carbet si mise in cammino risoluto a tentare il suo colpo.
Il campo degli zulù si vedeva di già.
Immensi ed innumerevoli fuochi coprivano le montagne e le vallate, sui quali arrostivano, secondo l'usanza di quei negri, dei buoi interi.
I guerrieri negri erano in festa. Durante la giornata avevano conquistata una trincea avanzata che da quattro giorni causava perdite gravissime agli assedianti e Cettivaio per incoraggiare i suoi guerrieri aveva fatto un'ampia distribuzione di animali e di vasi pieni di birra.
Paul Carbet, quantunque si sentisse tremare il cuore, si era spinto coraggiosamente innanzi e, fortuna incredibile, nessuno lo aveva interrogato.
Forse lo credevano un guerriero in ritardo od un messaggero e quei negri, troppo occupati a empirsi di carne arrostita e di birra, non si erano scomodati per chiedergli da dove veniva.
D'altronde lo vedevano negro al pari di loro e ciò bastava per assicurargli il passaggio senza fastidii.
E poi non regnava quell'ordine che si vede nei campi di soldati europei, e non vi erano sentinelle disposte all'intorno per assicurarsi da una sorpresa.
Paul Carbet poté così non solo attraversare le linee, ma anche bere una mezza zucca di pessima birra offertagli da un negro ubriaco.
Giunto agli avamposti scese da cavallo e si fermò indeciso sul da fare. Era sfuggito al più grave dei pericoli, ma ne aveva un altro da sfidare e questo proveniva da coloro che si proponeva di salvare.
Gl'inglesi dovevano vigilare attentamente sulle trincee, e avanzandosi così, di notte, si esponeva al rischio di prendersi qualche colpo di fucile.
Non vi erano che trecento passi da attraversare ed essendo la notte non troppo oscura, Paul distingueva benissimo i bastioni del forte e udiva nettamente le grida delle sentinelle.
– Avviciniamoci strisciando – si disse. – Quando sarò sotto le mura avvertirò le sentinelle di essere un volontario inglese. Prima che i negri mi giungano addosso, sarò di sicuro entro il forte.
Saltò un fossato che serviva di trincea e dove in fondo udiva delle persone a russare e si gettò a terra mettendosi a strisciare fra le erbe semibruciate dalle bombe e dalle mine.
Il cuore gli martellava in petto e si sentiva bagnare la fronte. Ad ogni istante credeva di udire il chi vive delle sentinelle ed il sibilo di qualche palla.
Aveva percorso una cinquantina di passi, quando si sentì improvvisamente afferrare per le gambe.
Si volse e si vide accanto due negri di statura altissima che lo minacciavano con due coltellacci.
– Spia! Spia! – gridavano in cattivo inglese. – Arrenditi.
Paul Carbet capì di essere perduto e che ogni resistenza sarebbe stata inutile.
Venire preso quando aveva già condotto a termine la difficile impresa che doveva assicurargli i galloni, era troppo amara pel bravo giovane.
Ebbe allora in quel momento una eroica ispirazione, ossia d'avvertire, anche a costo della vita, la guarnigione del fortino.
Mentre i negri lo legavano, raccolse tutte le sue forze e gridò con voce formidabile:
– Sentinelle! Avvertite il capitano Tompson di resistere fino al 25 luglio. Arrivano rinforzi.
Aveva appena finito, che una calciata di fucile piombatagli sul capo, lo faceva stramazzare al suolo svenuto.
Gli parve di udire delle grida, poi dei colpi di fucile, quindi più nulla.
* * *
Quando riacquistò i sensi, il povero Carbet si trovò in una vasta capanna formata di canne, attaccato solidamente ad un palo piantato nel mezzo.
Dinanzi a lui, accoccolato su una stuoia e circondato da alcuni guerrieri armati di zagaglie e muniti di grandi scudi, stava un negro coperto da un ampio mantello di lana rossa e con in capo una specie di mitra ornata da tre piume di struzzo, una sulla punta e le altre due ai lati.
Le gambe invece erano nude e non calzava né stivali, né scarpe.
Quel negro era Sua Maestà Cettivaio. Gli altri invece i rappresentanti dei dodici battaglioni che assediavano il fortino, distinti in neri e bianchi.
I primi erano gli ammogliati, riconoscibili per la tinta nera dei loro scudi e per la capigliatura cortissima, gli altri, i celibi, con scudi dipinti in bianco ed i capelli lunghi.
Paul Carbet vedendosi addosso gli occhi cupi e maligni del sovrano, non poté trattenere un brivido di paura.
– Stanno per decidere la mia sorte – pensò sospirando. – Ecco guadagnati i miei galloni per andarmene a comandare nel regno dei morti.
Cettivaio lo guardò per parecchi minuti con una certa curiosità, poi gli disse in un cattivo inglese, ma che Carbet ormai comprendeva:
– Sei tu che hai gridato alla guarnigione del fortino di resistere ancora?
– Sì, maestà – rispose il nostro contadino.
– Chi ti ha mandato qui?
– Il generale Campbell.
– E tu hai accettato di venire fra le mie schiere? Non sai che i prigionieri si uccidono?
– Lo sapevo, maestà, ma io devo obbedire nella mia qualità di soldato, agli ordini del mio generale. Se tu incaricassi qualcuno dei tuoi guerrieri di recarsi nel campo inglese per tentare di salvare qualche famoso capo, credi che si rifiuterebbe?
– Oh no! – esclamò Cettivaio.
– Ed io ho fatto ciò che uno dei tuoi non avrebbe rifiutato di fare per accontentare il suo re.
Il monarca parve soddisfatto dell'astuta risposta del contadino e le sue labbra si schiusero ad un sorriso.
– Tu sei un valoroso, – disse, – ed io amo le persone che non tremano dinanzi la morte. Ma tu sei un mio nemico e non posso risparmiarti.
– Fa' di me quello che vuoi – rispose Carbet coi denti stretti.
Cettivaio si volse verso i capi dei dodici battaglioni e parlò qualche tempo con loro sottovoce, quindi rivolgendosi al povero contadino che faceva sforzi supremi per nascondere le sue angosce, gli disse:
– Potrei farti torturare per sapere da quale parte dovranno giungere gl'inglesi e quanti sono, ma siccome io non li temo e mi tengo certo di far cadere il fortino e di battere anche gl'inglesi che verranno ad aiutare i loro camerati, non ti affiderò al mio carnefice. E poi, – aggiunse, – penso che tu potrai essermi di qualche utilità per certi miei progetti.
Poi, senza spiegarsi di più, s'alzò e uscì dalla capanna seguìto dai capi dei battaglioni.
Paul Carbet s'era tranquillizzato. Almeno pel momento non gli toglievano la vita, mentre tutti gli altri disgraziati che erano caduti nelle mani di quei barbari e feroci guerrieri non ne erano più usciti vivi.
Era trascorsa qualche ora, quando vide entrare quattro negri armati di zagaglie, di scudi e di certi coltellacci che facevano venire la pelle d'oca solamente a vederli.
Slegarono Carbet e lo spinsero fuori dalla capanna dove si trovavano cinque buoi sellati, usando gli zulù quegli animali invece di cavalli.
Fu messo sul più grosso, gli furono nuovamente legate dietro il dorso le mani, poi i guerrieri salirono sugli altri.
– Dove mi conducete? – chiese Paul ad uno dei suoi guardiani.
– A suo tempo lo saprai – rispose un guerriero che parlava l'inglese abbastanza bene.
I buoi si misero in marcia prendendo il galoppo, essendo quegli animali esercitati alla corsa.
Tutti i guerrieri del campo accorrevano a vedere il prigioniero e non gli risparmiavano ingiurie e minacce.
Alcuni avevano perfino cercato di avvicinarlo per scagliargli addosso qualche zagaglia. Se non vi fosse stata la scorta indubbiamente non sarebbe andato molto lontano.
Attraversate le linee dei guerrieri, la scorta si diresse verso un'alta montagna che si rizzava a poche miglia dal fortino e che era coperta da alberi immensi.
Mentre salivano passando sotto cupe foreste, Carbet udiva di quando in quando nutrite scariche di fucileria e anche qualche colpo di cannone.
Cettivaio aveva ricominciato l'attacco del fortino, premuroso d'impadronirsene prima che agli assediati giungessero dei rinforzi e potessero mettere a mal partito le sue bande.
Che potesse riuscire nel suo intento vi era però molto da dubitare, non avendo quei negri mezzi disponibili per espugnare un fortino.
Verso sera, Paul Carbet ed i quattro guerrieri giungevano sulla cima della montagna dove si trovava, sotto l'ultimo picco, una profonda caverna che un tempo doveva aver servito di sepolcreto ai capi o re cafri.
Ed infatti, ritti contro le pareti, Paul Carbet vide, non senza un certo senso di terrore, numerose mummie mentre altre stavano accoccolate entro enormi vasi di terracotta, non mostrando che il viso incartapecorito e orrendamente raggrinzato.
– Ecco il luogo che ti servirà da prigione – disse il capo della scorta, spingendo dentro il disgraziato soldato.
– Non è molto allegro – rispose Carbet, cercando di celiare.
– Riderai più tardi – gli disse il negro, con un sorriso poco incoraggiante.
Fece portare dai suoi soldati alcune bracciate di foglie fresche che furono deposte in un angolo, entro una specie di nicchia, diede al prigioniero una pagnotta di maiz ed un pezzo di carne fredda e tornò a uscire, dicendo:
– Non seccarci, se ti preme la pelle.
Paul Carbet non aveva certo alcuna intenzione di importunare i quattro guerrieri. Era troppo contento di trovarsi ancora vivo per esporsi a nuovi pericoli.
Mangiò avidamente la cena, poi si gettò sullo strato di foglie, addormentandosi tranquillamente e sognando sempre di avere sulle maniche i suoi famosi galloni.
Una brutta sorpresa lo aspettava al suo risvegliarsi. I quattro negri durante la notte avevano chiusa l'entrata della caverna con una pietra enorme, impedendogli di uscire.
Avevano lasciata però una brocca piena d'acqua ed un paniere pieno di pagnottelle di maiz e di grano d'orzo, viveri sufficienti per campare magramente quattro o cinque giorni.
Il disgraziato Carbet credette dapprima che i suoi guardiani lo avessero rinchiuso per impedirgli di fuggire e che si trovassero ancora nei dintorni.
Dovette invece convincersi che si erano allontanati lasciandolo solo.
Per qualche po' s'abbandonò ad un eccesso di disperazione, credendosi condannato a perire di fame e di sete entro quella caverna piena di mummie, poi a poco a poco si rassicurò.
– Se mi hanno lasciato dei viveri, – si disse, – vuol dire che non hanno intenzione di lasciarmi morire. Forse torneranno di quando in quando a portarmene degli altri.
Poi pensò che avrebbe dovuto approfittare dell'assenza dei guardiani per cercare di fuggire.
La cosa non gli pareva troppo facile. Rovesciare quella pietra enorme che chiudeva quasi ermeticamente la caverna, era cosa impossibile per un solo uomo.
Si decise invece di esplorare la prigione che aveva numerose gallerie, che potevano mettere all'aperto.
Quell'idea gli si cacciò nel cervello in modo da non lasciarlo più tranquillo. Ci sarebbe voluta però una torcia, mentre non possedeva che qualche zolfanello.
Stava cercando il mezzo di accendere qualche cosa, quando si ricordò delle mummie che gli erano parse ben secche e anche unte con una certa resina.
Ne prese una, senza manifestare alcuna impressione per quella profanazione e si provò ad accenderla.
Una viva fiamma si sprigionò subito dal cadavere disseccato del negro, mandando in aria scintille in quantità.
Bruciava meglio d'una torcia, tanto era imbevuto di resina.
Paul Carbet non esitò più a cacciarsi entro una di quelle gallerie.
Dopo una cinquantina di metri, s'accorse che una viva corrente d'aria faceva vacillare la fiamma. Era buon segno.
Qualche apertura ci doveva essere all'estremità; di questo non dubitava.
Si mise a correre; la galleria saliva rapidamente, descrivendo di quando in quando degli angoli.
Ad un tratto la mummia si spense sotto una folata di vento impetuoso. Non era più necessaria; dinanzi al prigioniero si trovava una larga fenditura sufficiente a lasciar passare un corpo umano.
Paul Carbet la varcò in un lampo e si trovò sulla cima della montagna.
Aveva appena girati gli sguardi intorno, quando udì una terribile fucilata poi dei colpi di cannone.
Tutta la pianura era coperta di soldati inglesi i quali marciavano all'assalto del campo zulù.
I negri, presi fra il fuoco degli assediati e quello degli assalitori, fuggivano da tutte le parti fra un clamore immenso, senza cercare di opporre resistenza.
Carbet ne sapeva abbastanza. Scese correndo la montagna e si cacciò sotto la foresta, mentre nella pianura la battaglia continuava furiosa.
Quando giunse al piano, gli inglesi assediati nel fortino ed i loro liberatori bivaccavano nel campo degli zulù.
I rinforzi promessi dal generale Campbell erano giunti tre giorni prima ed a marce forzate erano accorsi in aiuto del capitano Tompson e dei suoi valorosi, sgominando completamente i battaglioni di Cettivaio.
Quando gl'inglesi videro Paul Carbet, che ormai credevano morto, ed a cui la guarnigione del fortino doveva la sua liberazione, avendo già deciso la resa per mancanza di viveri, lo portarono in trionfo pel campo fra interminabili urrah.
L'indomani il generale Campbell lo nominava, in presenza delle truppe, sergente del primo reggimento dei fucilieri gallesi. Erano i primi galloni e non dovevano essere gli ultimi.
Al termine della campagna, finita colla cattura di Cettivaio, e dei suoi battaglioni, Paul Carbet aveva già i galloni di ufficiale. L'umile contadino delle Ardenne poteva andare ben superbo e tornarsene al paesello natìo senza paura che lo deridessero.
Oggi Paul Carbet è capitano, e passa per uno dei più valorosi ufficiali dell'esercito delle Indie.