I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/La perla nera
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LA PERLA NERA
Certo ve lo avranno detto o l'avrete letto in qualche libro che quelle belle perle che hanno quei bagliori quasi fosforescenti che portano agli orecchi le signore, si pescano in fondo al mare.
Chi le produce sono certe conchiglie rassomiglianti un po' alle nostre ostriche del Tirreno e del mar Jonio e si trovano in abbondanza solamente nei mari dell'India e nel golfo Persico.
Quelle dell'India, che sono le più pregiate pel loro splendore, si pescano presso l'isola di Ceylan in uno stretto chiamato di Manaar.
Tutti gli anni, per due o tre mesi, si radunano in quelle acque parecchie centinaia di battelli montati da abili pescatori o da palombari, i quali non fanno altro che tuffarsi dalla mattina alla sera, portando a galla ostriche.
Lavorano nudi affatto, non avendo che una semplice cintura dove mettono un coltellaccio e dove appendono la rete destinata a contenere le ostriche.
Ai piedi invece si attaccano una pietra in forma di pane di zucchero per poter inabissarsi più rapidamente.
La loro immersione dura ordinariamente un minuto od un minuto e mezzo, però vi sono degl'indiani che resistono perfino tre minuti.
Non crediate poi che tornino sempre tutti a galla. No, quei disgraziati per procurare le perle ai loro padroni, rischiano la vita ad ogni tuffo.
Fra le sabbie dei banchi perliferi si nascondono infatti numerosi nemici avidi di carne umana.
I pescicani vi abbondano soprattutto e ad ogni apertura della pesca, vi accorrono a torme; vi sono anche certe piovre gigantesche, specie di calamari, colle braccia lunghe uno o due metri, munite di ventose.
Questi orribili polipi quando possono avvinghiare un palombaro non lo lasciano più ritornare alla superficie e rapidamente lo dissanguano, per mezzo delle innumerevoli loro ventose.
Due anni or sono, sul banco di Manaar, si era radunata una flottiglia ben più numerosa di quella solita.
Erasi sparsa la voce che le ostriche perlifere erano prodigiosamente aumentate di numero, forse in causa delle poche burrasche scoppiate quell'anno ed i padroni delle barche avevano raddoppiate le loro flottiglie ed i loro equipaggi.
Ed infatti i primi risultati erano stati molto promettenti. Gran parte delle ostriche che i palombari andavano a raccogliere in fondo al mare contenevano delle perline brillantissime, ma poi, non si sa per quale motivo, improvvisamente la raccolta scemò al punto da impensierire gravemente i padroni e gli uomini da loro arruolati.
Il più impressionato di tutti era un vecchio pescatore indiano chiamato Nigala, perché in quella improvvisa scomparsa delle ostriche perlifere vedeva la sua ultima rovina.
Quel povero diavolo pareva che fosse nato sotto una cattivissima stella.
Aveva avuto figli in quantità, mai invece un raggio di fortuna. Aveva fatto dapprima il coltivatore e l'arsura aveva costantemente distrutti i suoi raccolti; poi aveva fatto il negoziante e gli affari gli erano andati a male; quindi il pescatore, ma aveva sofferto più fame che mai perché i pesci non si erano lasciati prendere che ben di rado dalle sue reti.
Da ultimo, disperato, aveva venduto i pochi beni che ancora possedeva per comperarsi una barca più grossa onde recarsi al banco di Manaar.
– Proverò la pesca delle perle – si era detto.
Ed imbarcati i suoi dodici figliuoli, si era portato alle peschiere colla speranza di fare finalmente fortuna.
Come sempre, anche là, la sua cattiva stella lo aveva seguìto, anzi pareva che colla sua presenza avesse messo gravemente a repentaglio la fortuna degli altri, perché come abbiamo veduto, dopo i primi successi, le ostriche erano scomparse.
I pescatori che lo conoscevano, lo avevano subito incolpato.
– È Nigala che ha fatto fuggire le ostriche – dicevano. – Nigala ha la iettatura.
Ed avevano cominciato a guardarlo in cagnesco, borbottando minacce contro il povero vecchio ed i suoi dodici figli.
Nigala, sempre rassegnato non imprecava contro il suo triste destino, anzi tutt'altro.
– È Dio che così vuole – diceva. – Si compia la sua volontà!
I suoi dodici figli, baldi e vigorosi giovani, non cessavano di tuffarsi calandosi ora su quello ed ora sull'altro banco e frugando perfino le sabbie e sempre con poca fortuna.
Era molto se su mille ostriche trovavano una perlina del valore di poche lire e ci volevano parecchi giorni e molte fatiche prima di poterla avere.
Un giorno mentre il povero vecchio lasciava correre la barca al di sopra dei banchi, interrogando cogli sguardi il fondo che si scorgeva benissimo in causa della limpidezza dell'acqua, gli parve di udire una voce che gli dicesse:
– Nigala, fermati qui.
Sorpreso si guardò intorno credendo che quelle parole fossero uscite dalle labbra di qualcuno dei suoi figli, e si vide invece solo.
I suoi garzoni erano tutti radunati a prora e stavano preparando la magra colazione consistente in pochi banani cucinati in acqua.
– Chi di voi mi ha parlato? – chiese.
– Nessuno, padre – risposero i giovani.
Nigala, credendo di essersi ingannato, virò di bordo per continuare la esplorazione, e subito udì la medesima voce a dire:
– Nigala, fermati qui!
Doppiamente sorpreso, il buon vecchio arrestò la barca e guardò attentamente il fondo del mare.
Proprio sotto la chiglia del suo piccolo legno si estendeva uno scoglio circondato da banchi, ma nessuna ostrica si vedeva.
Non fidandosi dei propri occhi, chiamò i figli e tutti furono concordi nel dire che quello non era un luogo da ostriche.
Nigala convintosi di essersi ingannato, lasciò che la barca continuasse la sua corsa diretta dal vento, però di passo in passo che si allontanava, si sentiva insensibilmente spinto a tornare indietro.
Tutta la giornata Nigala percorse i banchi e senza mai trovare una sola ostrica.
Anche gli altri pescatori non avevano avuto maggior fortuna.
Alla notte, mentre dormivano, il vecchio fu svegliato più volte dalla medesima voce che gli diceva:
– Torna al banco!
Deciso a dare ascolto a quella voce misteriosa, l'indomani radunava attorno a sé i figli, raccontando a loro l'accaduto.
– Padre – disse il maggiore. – Noi andremo a visitare quel banco. Forse è Dio che ti manda colà per metter fine alla nostra miseria.
Sciolsero le vele e tornarono là dove il vecchio si era fermato, coll'intenzione di esplorarlo attentamente.
– Io non vedo che uno scoglio – disse il figlio maggiore.
– Anche noi – confermarono gli altri.
– Visitiamolo, figli – disse il vecchio.
Il primogenito si passò nella cintura un coltellaccio, temendo di dover incontrare dei pescicani, si appese la reticella per mettervi dentro le conchiglie e si appese al piede destro la pietra in forma di pan di zucchero.
– Padre, – disse – io vado a tentare la sorte.
– Guardati dai pescicani – disse il vecchio. – Tu sai quanto amano la carne umana.
– Sono armato e non ho paura.
Il bravo giovane s'immerse, scendendo rapidamente.
Il vecchio e tutti gli altri, curvi sul bordo della barca, non lo perdevano di vista, essendo l'acqua sempre trasparente.
Essi lo videro frugare le sabbie, percorrere tutto il banco, poi girare attorno allo scoglio, quindi salire rapidamente.
– Padre – disse, dopo di aver respirato a lungo. – La voce misteriosa ha mentito, perché io non ho veduto una sola ostrica perlifera.
– Proveremo noi – dissero gli altri.
Ed uno ad uno scesero scrutando la sabbia e tutti tornarono ripetendo:
– Non vi sono ostriche.
– Ora proverò io – disse il vecchio.
– Tu sei troppo innanzi cogli anni, padre – disse il primogenito. – Se un pescecane ti assalisse non potresti difenderti.
– Io devo sacrificarmi pel bene dei miei figli – rispose Nigala. – La voce non deve avermi ingannato. Datemi il coltello e la rete e non abbiate timore.
Le rimostranze dei figli non ebbero successo; anzi il contrario.
Il vecchio si appese la pietra, si mise alla cintola il coltello, fece un'ampia provvista d'aria e s'immerse.
Non era già la prima volta che scendeva in fondo al mare. Aveva fatto per parecchi anni il palombaro, anzi era sempre stato uno dei più resistenti.
Invece di scendere sul banco, il vecchio s'era lasciato cadere a picco, dinanzi allo scoglio sottomarino.
Sentiva per istinto che se delle ostriche perlifere ve ne dovevano essere, non potevano trovarsi che in quel luogo.
Aveva appena toccato il fondo, a circa dieci metri sotto la superficie del mare, quando girando intorno gli sguardi, vide che nel fianco della roccia s'apriva una spaccatura da dove l'acqua formava un leggero risucchio.
Ebbe subito il sospetto che quello squarcio conducesse in una caverna sottomarina e sapendo che le ostriche cercano sempre luoghi tranquilli, non dubitò che là dentro se ne trovassero.
– Facciamoci coraggio e andiamo a visitarla – pensò.
Durante la discesa non aveva impiegato più di dieci secondi, quindi poteva disporre d'un minuto o anche di più, tempo sufficiente per tentare l'esplorazione di quella caverna.
Con un colpo di coltello troncò la corda alla quale stava appesa la pietra e nuotando vigorosamente si cacciò senz'altro attraverso la squarciatura.
Non s'era ingannato: lo scoglio conteneva nel suo interno una caverna assai spaziosa, di forma irregolare, a malapena illuminata, essendo l'entrata assai stretta. Le acque però, che rifrangevano i raggi del sole, bastavano a rischiararla.
Il vecchio indiano era rimasto stupito.
Tutto il fondo della caverna era tappezzato di conchiglie splendide, di grandi dimensioni, coi margini rossi come il corallo ed i bordi interni scintillanti di madreperla.
Nel mezzo poi aveva veduta una enorme tridacna, della circonferenza d'un metro e del medesimo genere delle conchiglie perlifere.
Accostarsi rapidamente a quell'ostrica gigante, introdurle il coltello fra i due gusci onde impedire che si chiudessero e cacciarvi dentro una mano, fu l'affare di un istante.
Sotto le dita aveva subito sentito un corpo duro e rotondo, della grossezza d'un pugno.
Era la perla, avvolta fra le membra del mollusco, ma una perla d'una grossezza mai più vista, d'un valore inestimabile.
Quell'ostrica cresciuta nella semioscurità della caverna, fra quelle acque tranquille, nascondeva una fortuna.
Il vecchio s'era provato a strapparla dalla roccia a cui si teneva incastrata ma l'emozione doveva avergli indebolite le braccia, perché non fu capace nemmeno di muoverla. Senza l'aiuto dei figli non vi sarebbe mai riuscito.
– Risaliamo – pensò.
Era tempo perché sentiva anche di non poter più resistere.
I suoi polmoni avevano bisogno d'aria e gli producevano degli acuti dolori.
Il vecchio pescatore, radunate tutte le sue forze, nuotò velocemente verso l'uscita per rimontare poi a galla.
Ad un tratto si rivoltò su se stesso, aggrappandosi alla punta d'una roccia.
Un'ombra enorme era comparsa presso lo squarcio, otturando completamente l'entrata della caverna sottomarina e Nigala l'aveva subito riconosciuto.
Quell'ombra era un pescecane lungo sette od otto metri, appartenente alla specie dei martelli, i più feroci di tutti.
Questi mostri invece di avere il muso arrotondato come gli altri e la testa un po' piatta, hanno la forma di un vero martello, cogli occhi situati alle due estremità, dai riflessi giallastri, che mettono paura.
Al di sotto di quella specie di martello hanno una bocca semicircolare, tanto vasta da poter contenere un ragazzo e armata di parecchie file di denti aguzzi e triangolari.
Quel mostro forse aveva scelto quella caverna per suo rifugio e s'era fermato presso l'entrata, otturandola completamente col suo corpaccio.
Si era accorto della presenza del povero pescatore oppure, scorgendo l'ombra proiettata sul fondo dalla barca, s'era fermato per spiarla? Comunque fosse costituiva un gravissimo pericolo pel pescatore costretto a rimanere celato dietro la roccia e coi polmoni esausti.
Il pescecane non pareva disposto a lasciare libera l'uscita. Colla testa volta al di fuori e la coda entro la caverna, agitava lentamente le sue pinne dorsali, facendo gorgogliare l'acqua e producendo talvolta delle leggere ondate.
Nigala, rannicchiato dietro alla roccia, lo guardava con terrore inesprimibile.
La morte ormai gli pareva certa. I suoi polmoni non potevano più resistere ed involontariamente lasciava che l'acqua entrasse attraverso le labbra increspate.
Negli orecchi sentiva un ronzìo cupo che aumentava di momento in momento ed il naso sanguinava.
Ancora pochi istanti e tutto sarebbe stato finito. Il disgraziato si sentiva morire mentre a due passi da lui la colossale ostrica apriva lentamente i suoi gusci come per mostrargli la perla preziosa che teneva celata...
Mentre il misero vecchio, impotente a nulla tentare per risalire alla superficie a rivedere il sole e riempire i suoi polmoni esausti, agonizzava in fondo alla tenebrosa caverna, i suoi figli, già in preda a sinistre inquietudini, spiavano ansiosamente il fondo del mare. Avevano veduto il padre togliere la pietra e scomparire nel fianco della roccia, poi non lo avevano più veduto a uscire.
Già quasi un minuto era trascorso ed il vecchio non era ancora comparso.
Il dubbio che una disgrazia lo avesse colto, era subito balenato nel cervello del primogenito.
– Fratelli, – disse – nostro padre corre qualche pericolo. Se così non fosse a quest'ora sarebbe già ricomparso. Io suppongo che abbia trovato qualche caverna marina e che le forze lo abbiano tradito.
– Sì, andiamo a cercarlo – dissero gli altri.
– Scenderò io pel primo: sono il primogenito e spetta a me.
Si appese rapidamente la pietra, si passò il coltello nella cintura e si preparò a inabissarsi.
– Se non mi vedete ritornare, – disse – verrete a cercarmi.
Ciò detto si tuffò.
Il primogenito di Nigala, era un robusto giovane di venticinque anni, coraggioso fino alla temerità e anche bravissimo palombaro.
Aveva pescato più volte conchiglie perlifere assieme al padre e sapeva resistere lungamente sott'acqua.
Avendo notato ove il vecchio era scomparso, si calò dinanzi allo scoglio, essendosi già immaginato che colà si aprisse qualche caverna marina.
Appena toccato il fondo aveva subito veduto lo squarcio aperto nella roccia e come aveva fatto il padre, tagliò la pietra onde essere più libero nei suoi movimenti.
Stava per imboccare il passaggio, quando si vide comparire improvvisamente l'enorme pescemartello.
Lo squalo non aveva ancora lasciato il suo posto, quasi avesse indovinato che presto o tardi qualche preda umana venisse a mostrarsi.
Il giovane indiano vedendo che il mostro otturava l'entrata della caverna, si era immaginato per quale motivo il vecchio genitore non era più risalito alla superficie.
– Mio padre è rinchiuso là dentro – aveva pensato. – Se non uccido lo squalo, è perduto.
L'indiano, come abbiamo detto, era forte e coraggioso. Non era la prima volta che era venuto alle prese con quel terribile abitatore del mare, anzi un giorno aveva dovuto sostenere un sanguinoso combattimento contro due di loro.
Estrasse il coltello e gli nuotò risolutamente incontro.
Il pescemartello lo aveva già veduto e con un colpo di coda si era slanciato fuori dalla caverna colla bocca aperta, come se già pregustasse le carni del giovane.
Dapprima tentò di abbatterlo con un colpo di coda, poi non essendovi riuscito, si rovesciò sul ventre per tagliarlo in due.
Era quello che aspettava il giovane.
Rapido come il baleno, colla sinistra si avvinghiò ad una delle pinne pettorali e colla destra, armata del coltellaccio, cominciò a menare colpi disperati.
Lo squalo si dibatteva terribilmente, ora risalendo verso la superficie ed ora lasciandosi cadere a picco e avventando formidabili colpi di coda.
L'indiano non lo abbandonava e non cessava dal vibrare coltellate. Il sangue che usciva da quel corpo crivellato di ferite era tanto da oscurare l'acqua.
Quella lotta durò venti secondi, non di più, ma finì colla vittoria del bravo giovane.
Lo squalo, col ventre squarciato e la pelle a brani, ben presto rimontò alla superficie senza moto.
Era morto.
Il giovane indiano, abbandonato lo squalo, non aveva perduto il suo tempo. Potendo resistere ancora alcuni secondi, si era cacciato velocemente nella caverna, e presso la roccia aveva trovato il vecchio genitore, disteso in mezzo alle conchiglie e senza moto.
L'asfissia era già cominciata.
Lo afferrò strettamente, riattraversò il passaggio rimasto ormai libero e con un potente colpo di tallone rimontò alla superficie in prossimità della barca.
Era così sfinito da non poter più reggersi sopra l'onde ed il sangue gli usciva dagli orecchi e dal naso.
– Fratelli – ebbe appena il tempo di esclamare. – Aiuto!
I più robusti si erano già precipitati in acqua. Il vecchio ed il primogenito furono issati nella barca, dove ricevettero i primi soccorsi.
Il primogenito non aveva tardato a riacquistare i sensi; il vecchio invece, gonfio come un otre, tardava ad aprire gli occhi.
In seguito però ad energiche frizioni, finalmente un lungo sospiro gli sfuggì dalle labbra increspate.
– La tridacna – questo era stato il suo primo grido.
– Padre, non parlare – disse il primogenito.
Il vecchio scosse il capo con un gesto energico.
– La tridacna – ripeté con voce spezzata. – Là... nella caverna... l'ho veduta... la perla... la perla... tre o cinque passi.
Poi, esaurito da quello sforzo supremo, ricadde fra le braccia del primogenito, ripetendo ancora con voce fioca:
– La... per... la... la... perla! Ricchi... tutti... ricchi!...
Il primogenito che era pure penetrato nella caverna dove il vecchio genitore per poco non aveva trovato una morte orrenda, non si rammentava d'aver veduto la tridacna, perciò dapprima credette che il disgraziato avesse così parlato in preda al delirio.
– Aspettiamo che si rimetta – disse ai fratelli. – Vedremo se il genitore ha detto la verità!
Il vecchio pescatore invece peggiorava di momento in momento. La lunga immersione aveva scossa anche la sua fibra robusta.
Ben presto la febbre lo prese, poi sopravvenne il delirio ma anche durante la sua esaltazione non faceva che ripetere le medesime parole:
– La perla... ricchi tutti... la perla... figli... non dimenticate...
Alla notte il disgraziato cessava di vivere. La perla che doveva fare la fortuna della sua famiglia, così duramente provata dal destino, gli era stata fatale.
I dodici figli, sconsolati, portarono a terra il genitore seppellendolo all'ombra d'un gigantesco banano che cresceva sulla punta estrema di Ceylan.
Per parecchi giorni più nessuno pensò alla perla che il moribondo aveva tanto raccomandato di andare a cercare in fondo al mare.
Fu solamente due settimane più tardi che il primogenito si rammentò della caverna marina. Essendo la stagione della pesca quasi terminata, il giovane decise di recarsi senz'altro sopra lo scoglio, certo di non venire seguito dagli altri pescatori.
Il vecchio Nigala non doveva essersi ingannato, tale era la convinzione di tutti i figli.
Attesero una notte oscura per ingannare gli altri pescatori, i quali, avendo già saputo qualche cosa, da parecchi giorni li spiavano e si recarono là dove era avvenuto il sanguinoso combattimento collo squalo.
I tre figli maggiori, tutti robusti garzoni e abilissimi palombari, appena sorta l'alba s'inabissarono entrando risolutamente nella caverna marina.
La gigantesca tridacna era ancora là, in mezzo al banco di conchiglie, mostrando la madreperla del suo interno.
I tre giovani, non senza uno sforzo violento la strapparono dalla roccia e legatala ad una fune già calata dalla barca, tornarono sollecitamente alla superficie.
Quando la tridacna fu issata nella barca ed aperta, venne trovata nel suo interno una superba perla nera, grossa come un uovo, d'un valore certamente inestimabile.
Il povero vecchio era morto ma aveva data la fortuna ai suoi figli.
Quella perla, la più grossa che si conosca, è ora diventata proprietà del Sultano del Mysore, uno dei più ricchi nababbi dell'India.
I figli di Nigala ora sono considerati come i più ricchi armatori di Manaar e ogni anno mandano una flottiglia di cento barche ai banchi perliferi.
Non hanno però dimenticato il loro genitore.
Sulla punta estrema della penisola indiana, nelle vicinanze del capo Cormorin, di fronte ai banchi di Manaar, si vede sorgere uno splendido mausoleo del più puro stile indiano, ombreggiato da un banano gigantesco.
È lì sotto che il vecchio Nigala dorme il sonno eterno.