I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il deserto di ghiaccio

Il deserto di ghiaccio

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I cacciatori di lupi Perduti fra i ghiacci del Polo

IL DESERTO DI GHIACCIO


La stagione della pesca delle foche e delle morse, era terminata sulle coste della Groenlandia, quella grande penisola coperta quasi sempre di nevi e di ghiaccio, che si estende dall'Oceano Artico fino al polo boreale.

Tutte le navi, per la maggior parte danesi, americane ed inglesi, completato il loro carico di pellicce e di grasso, si erano affrettate a porre alla vela per giungere nei loro porti, prima che le montagne di ghiaccio avessero sbarrato la via del ritorno.

Solamente una aveva tardato, in causa d'una grave avaria sofferta per aver urtato malamente contro un banco di ghiaccio, trascinato dalla corrente polare.

Quel veliero, uno dei più piccoli, era il Karasi, al comando del capitano Alnò.

Dopo d'aver cacciate le foche durante quattro lunghi mesi e d'averne preso oltre cinquecento, aveva dovuto arrestarsi in una delle tante baie della costa groenlandese per riparare i suoi guasti.

L'ora della partenza era però suonata anche per l'ultimo veliero.

Turato alla meglio il buco aperto dal banco di ghiaccio, proprio presso la ruota di prua della nave, il comandante aveva dato l'ordine di lasciare la baia che gli aveva servito di rifugio.

La prudenza lo aveva consigliato ad affrettarsi. Già da qualche giorno la neve era cominciata a cadere in grande abbondanza e delle nebbie erano comparse verso il nord, segnalando la imminente comparsa dei ghiacci.

Già le ancore erano state levate dal fondo e le vele erano state spiegate, quando dal pilota venne segnalato un gigantesco orso bianco, comparso bruscamente sulle rive della baia.

Durante tutta la stagione della pesca, mai uno di quegli animali s'era fatto vedere nei pressi della nave, con molto rincrescimento del capitano, il quale aveva promesso ad un suo amico una di quelle superbe pellicce.

Vedendo quell'orso, un irresistibile desiderio lo aveva preso: cioè quello d'impossessarsene.

– Qualche ora di ritardo, non sarà fatale alla mia nave – si era detto. – Giacché si presenta l'occasione, cerchiamo di accontentare l'amico.

Poi volgendosi verso l'equipaggio, aveva domandato:

– Chi vuol seguirmi?

Un marinaio di statura quasi gigantesca, un vero ercole, forte come un toro, già valente cacciatore, si era subito fatto innanzi, dicendo:

– Io, capitano.

– Sono ben contento che tu venga, Torp – rispose il capitano. – L'orso sarà ben bravo se vorrà sfuggirci.

Fece calare nuovamente in acqua le ancore, raccomandò all'equipaggio di fare buona guardia ed approfittando d'un banco di ghiaccio che si estendeva fino alla costa, abbandonò la nave in compagnia del giovane gigante.

Entrambi si erano armati di carabine con abbondanti munizioni, e di una scure, arma necessaria per aprirsi il passo attraverso i ghiacci, e per precauzione, avevano preso con loro alcuni viveri ed una fiaschetta di rhum.

L'orso, vedendoli prendere terra, aveva voltate le spalle, poco amando di fare conoscenza colle carabine e si era allontanato dalla costa, scomparendo in mezzo ad un gruppo di colline nevose.

Il capitano Alnò non era uomo da abbandonare subito la caccia; anzi in fatto di testardaggine poteva dare dei punti ai muli spagnoli. Preso un partito, buono o cattivo, voleva andare a fondo, a qualsiasi costo.

Vedendo l'orso andarsene, si era bravamente slanciato dietro le orme molto visibili, risoluto a raggiungerlo nella sua tana ed ucciderlo.

Il marinaio non aveva creduto di dover frenare quell'ardore bellicoso, che poteva avere gravi conseguenze, anzi lo aveva aizzato, dicendo:

– Giacché l'orso corre, allunghiamo il passo anche noi. La nave aspetterà!

Un'ora dopo, avevano percorso tanto cammino, da non poter più distinguere il veliero. Pure non si erano arrestati ed avevano continuata la corsa con crescente celerità.

L'orso era scomparso, però le sue tracce erano sempre visibili, essendo la neve ancora molle. In qualche luogo si sarebbe ben arrestato ed allora avrebbe avuto da fare coi cacciatori.

Il capitano ed il suo compagno, camminarono tutto il giorno attraversando colline, burroni, laghetti coperti di ghiaccio, senza riuscire a raggiungerlo.

La sera si avanzava e colle tenebre si era alzato un vento del nord così rigido, da intorpidire le loro membra.

Ritornare alla nave con quell'oscurità e con quel freddo che aumentava di momento in momento, era cosa impossibile. Sarebbero certamente caduti a mezza via e probabilmente per non più rialzarsi.

– Abbiamo commessa un'imprudenza – disse il capitano. – Non dovevamo allontanarci tanto dalla nave.

– Cerchiamo un ricovero, – rispose Torp, – tanto più che mi pare voglia scoppiare una bufera di neve. Domani cercheremo di ritornare alla nave.

– Dannato orso!... Non credevo che ci trascinasse così lontano!

Era il meglio che potessero fare, essendo poco pratici di quella regione desolata che mai avevano percorso fino allora e anche per non lasciarsi sorprendere dal freddo notturno.

Dopo molte ricerche, trovarono un'ampia caverna scavata sotto una rupe enorme e vi si cacciarono dentro, coll'intenzione di fare una buona dormita.

Otturarono l'entrata con massi di ghiaccio per paura di venire assaliti dagli orsi bianchi, e si sdraiarono sul nudo terreno, mettendosi al fianco le armi.

Non faceva freddo in quel rifugio; sicché non tardarono ad addormentarsi.

Quanto dormissero, non poterono mai saperlo. Il fatto sta che quando aprirono gli occhi e si provarono ad uscire, con loro viva sorpresa, videro che era ancora oscuro.

Avevano riposato ventiquattro ore o si erano alzati troppo presto? Non potevano credere di essere rimasti là dentro tanto tempo e si riaddormentarono, invitati dal tepore che regnava in quella caverna che contrastava straordinariamente colla temperatura gelata dell'esterno.

Quando tornarono ad aprire gli occhi, la neve cadeva a larghe falde ed un vento freddissimo soffiava dalle regioni settentrionali, spazzando quelle aride pianure.

– Bisogna partire – disse il capitano. – I nostri compagni saranno assai inquieti di questa lunga assenza.

– Non sarà facile ritrovare la via – rispose Torp. – La neve ha cancellato le nostre tracce, e per di più, non abbiamo presa la precauzione di fornirci d'una bussola.

Si coprirono alla meglio, presero le armi e affrontarono coraggiosamente la bufera di neve, cercando di dirigersi verso la barca.

Il freddo era diventato così intenso, da rendere penosissima la marcia e le folate di neve impedivano ai due disgraziati di mantenersi sulla buona direzione.

Per maggior sventura, era calata anche la nebbia nascondendo ai loro sguardi le colline che avrebbero potuto servire a loro per guidarli dalla parte del mare.

Le loro inquietudini aumentavano, prevedendo che non avrebbero potuto spingersi molto lontani. Era anche sorto a loro il dubbio tremendo che l'equipaggio, non vedendoli comparire, li avesse supposti perduti e che avesse abbandonato l'ancoraggio.

Camminarono così a casaccio qualche ora, lottando penosamente contro l'uragano, acciecati dalla neve che turbinava a loro intorno, ed intirizziti dal freddo; poi il capitano si arrestò dicendo che non si sentiva più in caso di proseguire.

Il disgraziato pareva in procinto di cader assiderato. Il suo naso era diventato bianco per un principio di congelazione e le sue gambe si rifiutavano di sorreggerlo.

– Coraggio, capitano – disse Torp. – Se noi ci arrestiamo morremo.

– Le forze mi vengono meno – rispose il povero uomo, articolando a malapena le parole. – Lasciami qui e cerca invece di raggiungere la baia.

– Se vi abbandonassi in questo luogo, esposto ai venti e alla neve, non vi ritroverei più vivo. Cerchiamo un rifugio ed intanto vi porterò io.

Come abbiamo detto, Torp aveva una forza più che gigantesca. Presa della neve, strofinò vigorosamente il volto del capitano per ritardare la congelazione che lo minacciava, poi se lo prese fra le braccia e si rimise in cammino quasi correndo.

La bufera invece di diminuire aumentava la sua rabbia. Turbini di neve, spinti innanzi da un vento impetuosissimo, piombavano sui due disgraziati avvolgendoli ed acciecandoli, mentre le piramidi di ghiaccio in causa di quel repentino gelo, si spaccavano con orrendi scrosci, come se scoppiassero dentro di loro delle mine.

Il capitano, quasi interamente assiderato, non dava più segno di vita; le sue labbra erano diventate azzurre, mentre la sua pelle diventava sempre più bianca come se tutto il sangue si fosse ormai congelato.

Anche il marinaio si sentiva a poco a poco intorpidire. Faceva sforzi sovrumani, però si trovava nell'impossibilità di continuare quella lotta con quel pesante carico che lo fiaccava non ostante il suo vigore straordinario. Se non trovava un rifugio, era la morte di entrambi.

Ad un tratto ebbe un'idea.

– Facciamo come gli esquimesi, – disse – è l'unico mezzo che ci resta per tentare di fuggire alla congelazione.

Depose a terra il capitano e si mise a scavare frettolosamente la neve, là dove il vento l'aveva accumulata formando un monticello d'una certa altezza.

Non essendosi ancora gelata, in meno di dieci minuti scavò una galleria profonda tre metri e sufficientemente vasta per contenerli tutti e due, poi vi trascinò dentro il capitano.

Al riparo del vento, si possono sfidare freddi intensissimi nella regione polare. Quaranta gradi sotto zero furono sopportati senza troppi fastidi anche da esploratori non abituati a quei climi, sempre senza vento però; Torp ed il capitano non si trovarono quindi a disagio in quella galleria scavata nella piena neve, anzi dopo pochi minuti, la temperatura era diminuita notevolmente in causa del calore emanato dai loro corpi.

– Gli esquimesi non avevano torto a vantarmi la comodità di questi letti da cacciatori, come usano a chiamare queste buche – disse Torp. – Se il calore aumenta ancora, il capitano sfuggirà alla minacciata congelazione.

Mentre parlava, non rimaneva però inoperoso. Aveva imbevuto uno straccio di lana con un po' di rhum contenuto nella sua fiaschetta e si era messo nuovamente a stropicciare il viso ed il petto del povero uomo.

Quelle frizioni energiche diedero un risultato insperato. Non era ancora trascorso un quarto d'ora, che il capitano apriva gli occhi.

– Siamo sulla mia nave? – chiese.

– Lo volesse Iddio, signore – rispose Torp. – Credo invece che la vostra nave sia ormai tanto lontana, da non potere far alcun calcolo su di essa.

– M'hai portato in una capanna esquimese?

– Sì, in una capanna che ho scavato io, capitano, ma dove ci troveremo egualmente bene.

– Infatti non mi trovo male, qui dentro. E la bufera?

– Continua più violenta che mai ed ha turato perfino l'ingresso di questo rifugio.

– Torp, io ti devo la vita – disse il capitano, dopo un po' di silenzio. – Senza di te io sarei morto.

– Non potete dire che siete ancora vivo, o meglio, che siamo vivi. Se la nave è partita, noi saremo condannati a morire in questo deserto di ghiaccio.

– Non disperiamo così presto, Torp.

– Oh no, mio capitano! – rispose il marinaio. – D'altronde noi non siamo ancora certi che la nave abbia lasciata la baia. Quando la tempesta sarà cessata, andrò ad accertarmene.

Non avendo nulla da fare pel momento, si sdraiarono l'uno a fianco dell'altro per meglio riscaldarsi, attendendo pazientemente che quell'uragano si calmasse e permettesse a loro di uscire.

Le ore passavano e la bufera non accennava a scemare. Al di fuori si udiva il vento del nord a ruggire tremendamente e la montagna di ghiaccio a spaccarsi.

La neve si accumulava dinanzi l'apertura della galleria, costringendo Torp a forarla col suo fucile, onde l'aria non venisse a mancare.

Solamente verso le dieci della sera, quel ventaccio cominciò a scemare di violenza e la neve cessò di turbinare.

Era però troppo tardi per mettersi in marcia, quindi i due cacciatori decisero di attendere l'alba, quantunque quel nuovo ritardo aumentasse le loro inquietudini.

L'equipaggio non vedendoli ritornare poteva aver lasciato definitivamente la baia per non farsi bloccare dalle montagne di ghiaccio che il vento doveva aver respinte al sud in numero straordinario.

Non ostante le loro angosce, avevano finito coll'addormentarsi l'uno presso all'altro.

Sognavano già di aver ritrovata la loro nave e di veleggiare verso l'Atlantico, quando Torp fu svegliato da un soffio caldissimo ed appestato.

Non sapendo a che attribuirlo, si alzò sulle ginocchia per vedere di che cosa si trattasse e sentì sottomano un pelame ruvido e folto.

– Capitano! – gridò. – All'erta! Un orso si è introdotto nel nostro rifugio!

Il comandante svegliato bruscamente da quelle grida, s'era sbarazzato prontamente della coperta ed aveva afferrato il fucile che s'era messo a fianco.

– Dov'è, Torp? – chiese.

– È uscito, signore. Non vedo più nessuno dinanzi a noi e l'entrata è libera.

– Era proprio un orso?

– L'ho veduto confusamente, è vero, ma non posso essermi ingannato, scommetterei anzi che era lo stesso che noi abbiamo inseguito.

– Che ci spii?

– Lo sospetto, capitano. Forse vorrà assediarci.

– Non ci mancherebbe altro! Per nostra fortuna abbiamo fucili. Usciamo, Torp, e diamo battaglia al mostro.

Stavano per strisciare verso l'uscita, quando videro un enorme corpaccio otturare il passaggio.

– È l'orso che cerca di sorprenderci – disse Torp.

– Fuoco, marinaio.

Due colpi di fucile rintronarono. L'orso, probabilmente colpito rinculò ruggendo fieramente, seguìto da vicino dal marinaio e dal capitano. Quando questi si trovarono fuori, videro la belva ritta sulle gambe posteriori, pronto per l'attacco.

Era una bestia di dimensioni gigantesche, una delle più grosse che il capitano avesse veduto durante i suoi numerosissimi viaggi in quelle gelide regioni.

– Guardati, Torp! – gridò il comandante, vedendo che il marinaio, fiducioso della propria forza, stava per scagliarsi sulla belva, armato del coltello da caccia.

Disgraziatamente l'avvertimento giungeva troppo tardi. Il marinaio aveva assalito l'orso con coraggio disperato, tentando di piantargli nel petto il coltello, ma la belva con una mossa rapidissima aveva evitato il colpo, poi allungando le zampe, aveva afferrato l'avversario stringendoselo al corpo con forza terribile.

Il capitano si era subito slanciato in soccorso del compagno. Avendo il fucile scarico e mancandogli il tempo di introdurre nella canna una nuova cartuccia, aveva pure impugnato il coltello.

Torp, soffocato da quella stretta, invano si dibatteva, urlando. Le unghie dell'orso gli si erano conficcate nelle carni, producendogli orribili ferite.

Il capitano s'era messo a colpire come un pazzo, ma era ancora troppo debole per impegnare a sua volta la lotta con quel gigante dei ghiacci.

Tuttavia l'orso, sentendo la punta del coltello penetrargli più volte nelle carni, abbandonò finalmente la preda per scagliarsi contro il feritore.

– Fuggi, Torp! – gridò il capitano.

– No, mio comandante – rispose il valoroso marinaio. – Ora questo briccone me la pagherà.

Aveva raccolto il coltello che durante la lotta gli era sfuggito e si era nuovamente gettato addosso al nemico, guardandosi bene però dal lasciarsi prendere.

La sua lama scomparve tutta intera nel corpo della belva, spaccandole il cuore.

– Va', bruto! – gridò, atterrandolo con una spinta furiosa.

L'orso aveva mandato un urlo terribile. Agitò per alcuni istanti le villose zampacce, tentando di rimettersi in piedi, poi la morte lo sorprese e stramazzò al suolo per non più rialzarsi.

Era appena caduto, che anche Torp s'abbandonava fra le braccia del suo capitano.

Il povero marinaio aveva riportate due profonde ferite presso la spina dorsale e perdeva sangue in tale quantità, che il capitano temette dapprima di vederlo morire presto dissanguato.

Radunando le proprie forze, s'affrettò a trascinarlo nella galleria e stracciato un pezzo della propria giubba ed un fazzoletto, medicò meglio che poté le ferite, riunendo la carne ed arrestando quella pericolosa emorragia.

Il marinaio, non ostante quell'atroce mutilazione, non aveva perduto i sensi e si era lasciato medicare senza mandare un lamento.

– Datemi un sorso di rhum, capitano – disse. – Mi farà bene e mi rimetterà in gambe.

– Non te la caverai tanto presto, mio povero Torp – rispose il comandante. – Ne avrai per parecchie settimane.

– Volete un consiglio, capitano? Lasciatemi qui e andate alla baia. Forse la vostra nave non è ancora partita.

– E non pensi tu che può sopraggiungere qualche orso?

– Caricatemi il fucile e lasciatemi; se verrò assalito, farò il possibile per difendermi. Andate, capitano, non perdete altro tempo. La nostra salvezza sta nei nostri compagni.

Il capitano esitava, eppure non vi era altra speranza. Un nuovo ritardo poteva riuscire funesto ad entrambi.

Caricò la carabina, trascinò, dopo sforzi indicibili, l'orso entro il rifugio onde il marinaio si coricasse su quel corpo ancora caldo, quindi dopo d'averlo rassicurato che sarebbe tornato molto presto, si mise animosamente in cammino.

Camminava rapidamente, ansioso di giungere alla baia. Se la nave non era partita, il marinaio avrebbe potuto guarire molto più presto, avendo a bordo medicamenti d'ogni specie e anche un abile dottore.

Diversamente, cosa sarebbe accaduto di loro, perduti su quell'immenso deserto di ghiaccio, lontani parecchie centinaia di miglia dagli stabilimenti danesi e col terribile inverno polare alle spalle? Avrebbero potuto sfidare le bufere ed i freddi intensi della lunga notte che in quei climi dura tre o quattro mesi e senz'altro ricovero che quella galleria che le nevi potevano seppellire assieme ai ricoverati?

Il capitano, in preda a questi tristi pensieri, raddoppiava sempre più il passo, parendogli che qualche ora di ritardo dovesse essergli fatale.

Finalmente raggiunse le colline che dominavano la baia. Le salì ansiosamente e quando giunse sulla cima percorse con un solo sguardo la spiaggia che si delineava a meno di mezzo miglio.

Un grido gli sfuggì! La baia era deserta e non si vedevano che massi enormi di ghiaccio e al largo dei banchi natanti.

La nave li aveva abbandonati. Forse l'equipaggio, dopo averli attesi due o tre giorni, li aveva creduti morti e per non farsi rinchiudere dai ghiacci, aveva lasciati quei paraggi.

Era la morte per quei due disgraziati, e chissà quale morte angosciosa. Pure, in quel supremo istante, il capitano non perdette interamente il suo coraggio.

– Dio ci assisterà – disse. – Lotteremo finché ci rimarrà un atomo di forza.

Avendo scorto sulla spiaggia un'antenna che doveva essere stata piantata dai suoi marinai, scese verso la spiaggia. Forse era un segnale o indicava qualche deposito di viveri.

Non si era ingannato. L'equipaggio, prima di partire, nella speranza che il suo comandante non fosse stato divorato dall'orso, aveva lasciato in quel luogo dei viveri, delle coperte, delle armi e delle munizioni sufficienti per qualche mese.

Era una vera fortuna per quei due infelici.

Il capitano prese le coperte, alcune bottiglie di liquori, dei viveri e si rimise in viaggio per informare Torp di quella scoperta.

Quando giunse al rifugio, il marinaio stava sparando fucilate contro una torma di grossi lupi i quali volevano disputarsi il cadavere dell'orso.

Vedendo giungere anche il capitano, quei feroci predoni si erano subito allontanati dopo d'aver lasciato alcuni di loro sul terreno.

– Era tempo – disse il marinaio. – Non ne potevo più, mio capitano.

– Consolati, mio bravo; ti porto viveri, coperte e anche un paio di bottiglie di rhum. I nostri compagni sono partiti, ma non ci hanno abbandonati senza lasciare a noi delle risorse, che ci saranno di grande giovamento. Non perdiamoci d'animo, mio bravo Torp, ed aspettiamo fidenti la prossima primavera.

– Assieme a voi non temo nulla, capitano – rispose il marinaio. – Contate interamente su di me, quantunque per ora non valga assolutamente nulla.

– Guarirai, Torp, e mi sarai di grande aiuto.

L'indomani il capitano si poneva all'opera per prepararsi il quartiere d'inverno. Non poteva pel momento contare sul marinaio, ma non era uomo da scoraggiarsi.

Non essendo quella galleria abitabile, intraprese la costruzione d'una capanna di ghiaccio, ricoveri facilissimi a fabbricarsi e che riparano ottimamente contro i terribili freddi della lunga notte polare.

Ed infatti gli esquimesi che abitano la Groenlandia e le isole più settentrionali del continente americano, non hanno altri ripari che case di ghiaccio e vi si trovano benissimo.

Colle coperte che aveva, il capitano tapezzò il suolo sovrapponendovi la pelle dell'orso bianco; poi avendo trovato anche una lampada fra gli oggetti lasciati dall'equipaggio, la sospese nel mezzo.

Le foche dovevano procurare l'olio necessario per la illuminazione e pel riscaldamento.

Entro quella dimora, riparata dai venti e abbastanza calda, la guarigione di Torp guadagnava a vista d'occhio. Non erano trascorse tre settimane che il gigante si trovava in caso d'aiutare il capitano.

Aumentando i grandi freddi, i due abbandonati si recarono alla baia per raccogliere le provviste lasciate dai marinai e per procurarsi dell'olio.

Avevano vedute parecchie foche sui banchi di ghiaccio e si impadronirono, non senza fatica, di parecchie.

Quando l'inverno sopraggiunse, erano pronti a sfidarlo.

Avevano aumentato le loro provviste uccidendo parecchi lupi, due altri orsi che avevano sorpresi nei pressi della capanna e possedevano una considerevole provvista di grasso e d'olio per alimentare la lampada.

La lunga notte polare era cominciata. Il sole ormai più non si mostrava all'orizzonte e tenebre foltissime, che di rado venivano rotte dagli splendori sanguigni delle aurore boreali, avevano avvolto l'immenso deserto di ghiaccio.

Bufere tremende si succedevano, aumentando sempre più il freddo, diventato ormai tale da costringere i due disgraziati a rimanere settimane e settimane rinchiusi nella loro prigione di ghiaccio.

Pure non si annoiavano. Passavano le giornate preparandosi nuove vesti colle pelli degli animali che avevano uccisi, o chiacchierando e progettando.

Quando le tempeste si calmavano, facevano qualche corsa sui campi di neve per mantenersi robusti.

L'inverno finalmente passò, ed il sole, dopo centosessanta giorni, fece nuovamente la comparsa, salutato da un caloroso evviva dai due abbandonati.

Era giunto il momento di andarsene.

Il freddo diminuiva e la neve si scioglieva.

Il capitano e Torp, un bel mattino lasciavano, non senza rincrescimento, la loro capanna per raggiungere uno degli stabilimenti danesi dove speravano di trovare qualche nave baleniera che li conducesse in patria.

La traversata di quel deserto di ghiaccio fu una delle più terribili, nondimeno, dopo sei settimane di marce attraverso a ghiacci orribili, a burroni pieni di neve, il capitano ed il suo compagno giungevano a Iuliasbiad, una delle più piccole colonie della Danimarca, ma anche una delle più frequentate dai balenieri.

È inutile descrivere lo stupore di quei buoni abitanti nel veder giungere quei due uomini dall'interno di quella immensa penisola, mentre li avevano creduti da lungo tempo in patria.

Il capitano e Torp, che vi erano conosciutissimi, ebbero la più lieta accoglienza nella casa del governatore dove rimasero finché giunse la prima nave baleniera.

Tre mesi dopo rivedevano la loro città natìa, dove apprendevano con profondo dolore che della loro nave non si aveva più alcuna nuova, mentre avrebbe dovuto esservi giunta da ben nove mesi.

Probabilmente il Karasi, stretto da ghiacci al largo della baia, era stato stritolato assieme al suo equipaggio e quindi inghiottito senza aver lasciato alcuna traccia.