I predoni del gran deserto/7. Un matrimonio nel deserto

7. Un matrimonio nel deserto

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Un matrimonio nel deserto


La calma era ritornata nel grande deserto.

Le sabbie dopo d’essere state sconvolte in tutte le direzioni, di essersi accumulate qua e là in forma di collinette o di ondulazioni più o meno elevate, riposavano, rifrangendo i raggi di quell’ardente ed implacabile sole.

Nel duar tutti avevano ripreso le loro solite occupazioni, dopo d’aver sbarazzato molti tratti dell’oasi da quella tempesta di sabbie. I coltivatori lavoravano nei campi d’orzo e di miglio ed i pastori conducevano ai pascoli le pecore, le capre e le cammelle, mentre i guerrieri percorrevano il deserto per prelevare sulle carovane il solito tributo di passaggio.

S’avvicinava rapidamente l’epoca fissata dal capo pel matrimonio di sua figlia coll’americano. Già la giovinetta aveva allestito pel futuro marito uno splendido costume di Tuareg, ricamato colle proprie mani e già William aveva regalato alla futura sposa tutto il mobilio contenuto nella navicella e la seta del primo involucro del pallone, la quale aveva servito per la costruzione d’una vasta e bellissima tenda.

Tutti i sudditi del capo già avevano cominciato ad accumulare regali per gli sposi, come si usa fra le tribù del deserto. Dovevano servire di dote alla figlia dello scièk, ossia dovevano servire ad ingrossare quella destinatale dal padre, che ammontava già a trecento pecore, duecento capre, a venti schiavi Tibbù ed a sessanta grossi capi di bestiame fra mahari e cammelli.

Non mancavano che due giorni al matrimonio, ma William pareva che cominciasse a mostrarsi malcontento, quantunque amasse veramente la brava figlia del deserto. Il motivo era, che prima di decidersi al grande passo, voleva ricevere qualche notizia di Ernesto.

Da un mese il pallone era partito, ma nulla erasi più saputo.

Tutte le mattine e tutte le sere, William e lo scozzese, montati su veloci mahari si spingevano per molte miglia verso il settentrione, colla speranza di scoprire da lontano qualche carovana, ma invano.

Alle domande dello scièk su quelle gite misteriose, rispondevano sempre che andavano a vedere se ritornava il loro gigantesco uccello, la cui scomparsa aveva destato molte apprensioni fra i Tuareg, credendo che quell’enorme mostro fosse volato via per chiamare degli altri e distruggere la loro tribù.

Il grande giorno finalmente venne. Il capo, seguìto da un grande numero dei suoi guerrieri vestiti coi costumi di gala e armati come si recassero alla guerra, si recò di buon mattino alla tenda di William, dicendo a questi:

— Afza compie oggi quindici anni: l’ora di darle un marito è giunta.

— Ascoltami, capo — disse William. — Io amo ormai tua figlia e più non penso alla figlia del sole, ma io ti domando di protrarre questa unione fino al ritorno del condor o dei suoi messi.

— Cosa attendi da lui?... — chiese lo scièk, corrugando la fronte.

— I regali per la sposa.

— Ne può far a meno. Non le hai regalato la tenda e le mobilie, che sono le cose più belle che esistano nel deserto?... A mia figlia bastano.

— Ma io qui non ho un parente, né un amico che assista alla cerimonia.

— L’amico non ti manca: è l’uomo bianco che ti fa compagnia.

— Non basta; non è mio parente.

— Per me è sufficiente.

— Concedimi un giorno.

— Nemmeno un’ora: oggi il matrimonio si farà. La sposa è pronta ed i miei cavalieri si preparano per la fantasia della polvere.

— La potranno fare domani.

Lo scièk guardò William con due occhi che avevano dei cupi lampi.

— L’uomo che manca alla promessa data, nel deserto lo si uccide — disse con voce aspra. — Se ti preme la vita devi obbedire e mantenere la parola. Afza è la più bella fanciulla del deserto, ed io la dò a te che sei uno straniero senza fortuna, e tu oseresti rifiutare la di lei mano?... Uomo bianco guardati!...

— Io non la rifiuto, capo, poiché io l’amo, ma aspetta che ritorni il mio condor.

— Basta!... — tuonò il Tuareg. — Si cominci la cerimonia del matrimonio.

Lo scièk, ciò detto, risalì sul mahari e ritornò nel campo seguìto da tutti i suoi guerrieri, lasciando William e Weddel soli.

— Non vi rimane che d’indossare il costume che vi ha regalato la sposa e d’obbedire — disse lo scozzese. — I Tuareg non ischerzano, William.

— Lo so — rispose l’americano che era diventato pensieroso.

— Vi spaventa forse ora il legame?

— No, Weddel, anzi vi dico che io l’amo assai quella buona Afza, ma...

— Che cosa?...

— Se venisse qui Ernesto con Odowna?...

— L’amate ancora la vostra compatriota?

— No, ve lo giuro, l’ho quasi dimenticata per Afza; ma se venisse a chiedermi conto della promessa fattale e mi trovasse sposato?

— Colpa delle circostanze.

— Lo so, ma avrei desiderato attendere prima notizie di Ernesto per sapere cosa è avvenuto di Odowna.

— Scommetterei che ormai vi ha dimenticato. Lo sapete come sono le nostre donne e specialmente quelle americane. Guariscono presto dalle passioni. Orsù, indossate il vostro costume, William, se vi è cara l’esistenza.

— Ma quell’Ernesto!... Che mi abbia dimenticato?

— Chi vi assicura che il pallone sia stato spinto in Europa?... Potrebbe essere stato colpito da un fulmine o travolto in mare o spinto su qualche alta montagna disabitata, o può essere caduto in qualche regione del nord dell’Europa.

— È vero: allora diventiamo Tuareg e dimentichiamo tutti. Dopo tutto amo meglio questa vita selvaggia che quella civile.

Rientrò nella tenda, si spogliò delle vesti che indossava e che ormai erano ridotte in uno stato deplorevole, e indossò quelle pittoresche dei figli del deserto.

Stava mettendosi sul capo l’ampio turbante, quando vide avanzarsi verso la tenda un lungo corteo formato dalla tribù dell’oasi.

Dinanzi, scortata da dodici uomini a cavallo, adorni di lunghi mantelli bianchi ed indossanti caffettani rossi, azzurri od aranciati, si avanzava Afza montata su di un cammello adorno di nastri e di stoffe di seta.

La giovanetta, secondo il costume, era avvolta in una grande cappa turchina ed era stata profumata abbondantemente. Le sue unghie erano state dipinte col succo dell’henné, le sue sopracciglia erano state annerite col sugaro bruciato, i suoi occhi coll’antimonio, e le sue trecce erano adorne di zecchini e di fiori d’aloè.

I cavalieri che le servivano di scorta, caracollavano attorno al suo cammello sparando colpi di fucile, mentre la turba che la seguiva urlava incessantemente:

— Bal-ak!... Bal-ak!... (Largo!... Largo!...).

William si era collocato sulla soglia della tenda per riceverla. In quel momento egli sentiva di amarla più che mai quella buona ed ingenua fanciulla, e non rimpiangeva più né la civiltà americana, né quella europea, né Odowna, e si sentiva pronto ad abbracciare quella vita nuova in mezzo al deserto che ormai esercitava su di lui dei fascini misteriosi.

Quando la cavalcata giunse dinanzi alla tenda, il cammello s’inginocchiò e Afza, più leggera d’una gazzella, balzò a terra dicendo a William con voce tremula:

— Mio signore: sono tua!...

William la prese per mano e la fece sedere sulla sella d’un cammello, riccamente adorna di nastri, di perle e di sonagliuzzi d’argento, che era stata colà appositamente portata da alcuni Tuareg.

Un caic, specie di mantello bianco, venne steso dinanzi a lei, e tutti gli uomini e le donne della tribù andarono a gettare delle monete, ballando e cantando.

William si era seduto accanto alla sposa su di un’altra sella adorna di fronzoli e di fiori, ma non poteva ancora né levarle il grande mantello, né rivolgerle parola. Mancava la fantasia della polvere e la benedizione dello scièk perché potesse considerarla sua moglie.

Ad un cenno del capo i dodici cavalieri della scorta uscirono dalle file e cominciarono la fantasia fra le grida ed i canti delle donne e gli spari dei guerrieri.

Questa fantasia è una specie di ballo figurato che finisce con una finta battaglia. I cavalieri s’incrociavano in tutti i sensi, formavano gruppi, stelle, circoli, caracollavano, si slanciavano innanzi fermandosi poi tutto d’un colpo, facevano inalberare i destrieri già bianchi di spuma; si inseguivano emettendo urla selvagge, facevano volteggiare le armi, svolazzare i lunghi mantelli e le larghe fasce e scaricavano le armi, mentre gli astanti entusiasmati urlavano a pieni polmoni: iii!.... iii!...

Ad un tratto lo scièk con un gesto imperioso reclamò silenzio, fece sgombrare il suolo dai cavalieri, e disceso dal suo mahari si diresse verso gli sposi per impartire su di loro la benedizione del Profeta.

Già aveva posate le mani sulle loro teste, quando fu visto rialzarle, mentre i suoi occhi si fissavano sulle sabbie del deserto, verso il nord.

— Padre — disse Afza.

— Chi osa interrompere le feste del matrimonio! — tuonò lo scièk con voce terribile. — Quali nemici osano avanzarsi verso la mia oasi? Laggiù le sabbie s’alzano... vedo delle armi scintillare sotto i raggi del sole... A cavallo, miei prodi, e che il Profeta disperda ed annienti coloro che vengono a turbare le gioie della mia famiglia!...

Verso il nord, a due o tre miglia dall’oasi, una grande nube di sabbia s’alzava ed in mezzo ad essa si vedevano scintillare delle armi ed apparire confusamente degli animali e degli uomini. Pareva che una numerosa carovana marciasse rapidamente verso il campo dei Tuareg.

Lo scièk ed i suoi uomini erano risaliti sui cavalli e sui mahari, mentre William in preda ad una viva ansietà, aveva abbandonato rapidamente la sposa spingendosi verso l’orlo dell’oasi.

— Dove vai? — gli chiese lo scièk, raggiungendolo.

— Dammi un cavallo — rispose l’americano. — Se sono nemici, io, che ora sono tuo figlio, voglio combattere al tuo fianco.

Gli fu condotto un cavallo, e balzato in sella lo lanciò al galoppo verso quella carovana, seguìto da tutti i guerrieri dell’oasi.

Dieci minuti dopo la banda giungeva di fronte alla carovana, la quale, credendosi assalita, si era schierata su due file per resistere all’attacco.

La guidava un uomo giovane e vestito alla europea, ed era composta di cento soldati marocchini e di alcuni berberi di Rif, uomini questi assai valorosi ed indomabili.

Appena William si vide dinanzi il capo della carovana, balzò a terra gridando:

— Ernesto!... Ernesto!...

Un grido di gioia vi rispose:

— William!... Voi!...

Un istante dopo i due amici si trovavano l’uno nelle braccia dell’altro.

— E miss Odowna?... — chiese William. — È qui?...

— Lei!... — disse Ernesto. — L’ingrata!...

— Mi ha dimenticato?

— Peggio, amico.

— Parlate, Ernesto.

— Si è sposata un mese dopo la vostra scomparsa, con un vostro compatriota di Kentuchy.

— Grazie, Ernesto, grazie di questa notizia! — esclamò. William. — Ora posso io essere lo sposo di Afza, senza rimorsi per la parola data a quella miss Odowna. Ah!... Amico mio!... Io essere pienamente felice.

— Afza!... Voi siete felice!... Ma cosa significa ciò, William?

— Lo saprete più tardi... venite.

Lo prese per la mano e conducendolo dinanzi allo scièk, che li osservava con sorpresa:

— Ti presento mio fratello — gli disse. — Ora vieni a benedire la mia unione con tua figlia.

I guerrieri del deserto e la carovana dei marocchini si unirono e mossero tutti insieme verso l’oasi, avendo lo scièk offerto ospitalità a tutti i nuovi arrivati, onde rendere più brillanti le feste del matrimonio.

Ernesto si era messo a fianco di William e lo subissava di domande. L’americano s’affrettò a raccontargli tutto, il suo arrivo nel deserto, l’incontro con lo scozzese e poi coi Tuareg, i suoi amori con la buona Afza e l’ultima scena del matrimonio.

— Voi sarete sorpreso, Ernesto, — concluse l’americano, — di aver io dato un addio alla civiltà europea, ma, mi credete, sono molto più felice che laggiù: questa vita quasi primitiva ha per me delle seduzioni che non avevo mai sognate, e quello che più importa per me è che qui io non soffrire più lo spleen. Date anche voi un addio alla vecchia Europa, Ernesto: qui avere noi una grande missione da compiere: la civilizzazione di questi abitanti del grande deserto. Ditemi: non vi tentare questa nuova vita?...

— Lo vedremo, William — rispose Baldi.

— Ora ditemi, credevate che io essere morto?

— No, non l’ho creduto mai, William. Una voce interna mi diceva che voi eravate vivo e non ho mai disperato di ricevere un giorno vostre notizie.

— Essere caduto in Europa il pallone?...

— In Spagna, presso Siviglia. Informato dal console italiano di Madrid, radunai i duecentomila dollari che mi rimanevano e partii. Appena ebbi letta la vostra lettera, m’imbarcai a Cadice per Tangeri, poi mi recai a Fez, dove potei organizzare una carovana scortata da soldati marocchini. Ho viaggiato senza quasi mai fermarmi, e sono ben felice di avervi ritrovato.

— Ed io, Ernesto, essere doppiamente contento.

— Ma siete proprio deciso a rimanere qui, Willam?

— Sì, Ernesto, io essere più che mai deciso a sposare la mia buona Afza ed a diventare un benefattore della tribù del Sahara. Rimanete con me, amico, a meno che...

— Che cosa?

— Non contate di ritornare in Europa per sposare miss Blackburn.

— Ohimè!

— Vi ha abbandonato?

— Spariti i milioni, poiché senza la vostra firma non potevo riscuoterli, mi ha piantato.

— Ecco le donne del giorno d’oggi! — esclamò William, ridendo. — Meglio così, Ernesto: io troverò fra le tribù del Sahara un’altra Afza, e voi vedere che nel cambio non avere a pentirvene.