I predoni del gran deserto/6. Il simun del Sahara

6. Il simun del Sahara

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5. Le leggende del Sahara 7. Un matrimonio nel deserto

Il simun del Sahara


Erano trascorsi vari giorni.

William a poco a poco si abituava alla vita del deserto e, cosa strana, non si sentiva più prendere da quella irresistibile noia che gl’inglesi e gli americani chiamano lo spleen, né più dal desiderio di ritornare nei paesi civili.

Si sentiva più tranquillo, in mezzo alle sconfinate pianure del Sahara e provava un benessere che prima non aveva mai conosciuto. Quasi quasi non si ricordava più né di Odowna, né del suo carissimo Ernesto.

Quella vita selvaggia, primitiva, aveva per lui delle seduzioni infinite e la trovava ben superiore a quella europea ed americana.

Afza e lo scièk d’altronde non gli davano tempo di annoiarsi. Lo conducevano nell’oasi a pascolare i cammelli e le capre, lo addestravano alla caccia dei grossi animali del deserto, gli facevano fare delle lunghe corse sul dorso dei veloci mahari, gl’insegnavano a rizzare le tende, a coltivare il suolo, a raccogliere e conservare i prodotti dell’oasi.

Alla sera, quando stanco da quelle aspre fatiche si sedeva dinanzi alla tenda, la giovinetta gli raccontava le leggende arabe o lo deliziava colla tiorba, cantandogli le migliori canzoni del suo repertorio.

William si stupiva di trovarsi così felice in mezzo a quella tribù selvaggia, lontano dal mondo civile, fra quelle sabbie e quegli orizzonti sconfinati e si stupiva doppiamente della crescente simpatia che provava per la figlia dello scièk.

— Bah! Ciò finirà ben presto — diceva a Weddel, il quale dal canto suo s’occupava dei suoi studi, avendo ormai ricevuto in regalo tutto il suo bagaglio. — Lo spleen tornerà, ed allora penseremo a dare notizia ai nostri amici d’Europa e d’America.

Però s’ingannava: invece di stancarsi di quel nuovo genere di vita, più l’amava. Lo spleen invocato non lo riprendeva mai, anzi invece crescevano le sue simpatie per la figlia dello scièk.

Un giorno che si trovava solo collo scozzese all’estremità dell’oasi, occupato a dissodare un pezzo di terra per piantare dell’orzo, disse al compagno:

— Sapete, Weddel, che io non ho provato tanta tranquillità come ora?... Cosa direste voi, se io vi dicessi che questo deserto comincio ad amarlo e che comincio ad ammirarlo?... Se dovessi abbandonarlo, vi assicuro che rimpiangerei per lungo tempo i suoi silenzi, le sue sabbie ardenti, i suoi orizzonti sconfinati, i suoi abitanti ed anche...

— Chi? — chiese lo scozzese, sorridendo maliziosamente.

— Tanto vale che ve lo dica:... anche Afza.

— Ah!...

— Ha una ingenuità adorabile che le nostre donne civilizzate più non possiedono ed è così buona, così affettuosa da superare tutte quelle che ho conosciute.

— Voi dunque l’amate.

— Comincio a crederlo, Weddel.

— Sposatela e portatela via.

William fece col capo un gesto negativo.

— Questo deserto invita ad amare, ma... fuori di qui, nei paesi della civiltà, temo che mi riprenda lo spleen.

— Volete rimanere qui in eterno?... Volete diventare anche voi un Tuareg?

— E perché no?... Volete che ve lo confessi? Questa vita mi tenta.

— Ed i vostri amici?

— Gli amici del giorno d’oggi non valgono più...

— Ed il vostro Ernesto?...

— Ah! Quello sì, e sento che sarei doppiamente felice se lo avessi qui.

— E Odowna?

— Credo di essere guarito da quella passione.

— Così presto?

— Cosa volete? Trovo che Afza vale molto di più di quella ragazza fin de siècle.

— Allora fate scoppiare il pallone e restiamo qui.

— Non ancora: potrebbe venirmi lo spleen prima del giorno del matrimonio. E poi se Ernesto non viene qui i milioni non potrà mai incassarli e non intendo regalarli al Governo degli Stati Uniti, mentre potrebbero servire a sollevare le sofferenze di tante migliaia d’infelici. Ho un’idea, Weddel.

— E quale?

— Tentare di civilizzare questi Tuareg.

— Una splendida idea, William.

— Ed una occupazione che ucciderebbe per sempre la mia noia. Ritornando in Europa a cosa servirebbe la mia esistenza?... A nulla, mentre qui potrebbe giovare a queste tribù. Cominceremo a convertirli alla fede cristiana, far loro comprendere che la rapina è un delitto, li renderemo a poco a poco mansueti spegnendo i loro sentimenti sanguinari, faremo comprendere i benefici della civiltà, ma della civiltà vera, sana, non quella che impongono gli europei colla violenza. Toh! Non vi sembra bello il mio progetto?

— Bellissimo, William.

— Quante belle idee suscita la tranquillità di questo deserto, Weddel!

— La tranquillità o le bufere del deserto? — chiese lo scozzese, che da qualche tempo guardava verso il sud.

— Perché le bufere, Weddel?

— Non sentite questi soffi d’aria calda?

— Sì, ma non me n’ero accorto.

— E non vedete laggiù le sabbie alzarsi vorticosamente?

— Le vedo.

— È il simun.

— Abbiamo le tende per ripararci.

— Intendo parlare del pallone: è vento del sud, e se perdiamo questa combinazione, chissà quando ne troveremo un’altra.

William alzò le spalle.

— Non ho più alcun desiderio di ritornare né in Europa né in America, ve lo dissi già.

— Ma il vostro Ernesto?

— È vero, Weddel. Se non fosse per quell’affezionato amico vi assicuro che in Europa più mai saprebbero cosa è avvenuto del milionario americano. Ma ci permetterà lo scièk, lasciarlo partire il pallone?

— Fra un’ora sarà notte. Io striscerò fuori della tenda e taglierò la fune. Presto: ecco un foglietto di carta ed una matita.

William si sedette su di un tronco d’albero atterrato, e scrisse:

«Mio carissimo Ernesto,

«La mia scomparsa vi avrà causato angosce profonde, poiché io so quanto mi eravate affezionato.

«Mi avrete certamente creduto morto, annegato nel Mediterraneo o sfracellato sulla cima di qualche montagna od in mezzo a qualche deserta e folta boscaglia; ma invece Dio vegliava su di me e mi ha conservata l’esistenza.

«Sono vivo, più vivo di prima ed anche contento della nuova vita che conduco.

«L’uragano mi ha trasportato nel deserto di Sahara, in una oasi che chiamasi di Kafir, perduta a duecento miglia dalle frontiere meridionali del Marocco, ospite gradito di un capo Tuareg.

«Questo brusco salto dalla vita civile alla vita selvaggia ha prodotto in me un cambiamento inaspettato, insperato: non soffro più lo spleen!

«Cosa volete? Questa esistenza fra genti primitive, che non conoscono la corruzione della nostra civiltà, che ignorano vizi ed infingardaggini, d’una onestà e lealtà a tutta prova, che esercitano l’ospitalità come nel tempo dei patriarchi, ha per me delle seduzioni strane.

«Questo deserto ha pure per me delle attrattive che ero ben lungi dall’immaginare. Quanto sono belli i tramonti fra queste solitudini sconfinate! Come sono maestose le notti qui, fra queste lande sabbiose e queste rupi calcinate dal sole e che sembrano giganti addormentati nell’infinito sudario delle sabbie! Come è imponente questo misterioso silenzio che regna su queste regioni!... Quanta pace, quanta tranquillità, quanta poesia!...

«Se vedeste poi Afza, la figlia del capo!... Quanta ingenuità, quanta!... Basta! Vi spiegherò tutto quando verrete. Il simun soffia e non bisogna perdere tempo.

«Il deserto si risveglia e sta per dare una prova delle sue battaglie ed il pallone corre il pericolo di scappare senza la mia lettera.

«Venite, venite presto... io spero di avervi compagno in questo deserto e per sempre.

Vostro aff.mo

William Fromster».

Chiuse il biglietto con un po’ di gomma staccata da una palma gommifera e sopra vi scrisse in italiano, in francese, in inglese, ed in arabo:

«Da consegnarsi al signor Ernesto Baldi, Castello di Bellosguardo — Francia».

Poi, da vero americano che sa quanto vale il danaro, scrisse sotto:

«Cinquanta dollari di regalo a colui che farà recapitare la presente lettera al destinatario».

— Avete finito? — chiese Weddel.

— Sì — rispose William.

— Datemi la lettera e torniamo subito al campo. Le tenebre calano rapidamente ed il simun infuria con maggior lena.

Abbandonarono il margine dell’oasi e si misero a fuggire in direzione del campo, seguìti dalle prime cortine di sabbia, le quali si rompevano contro gli alberi.

Il simun si scatenava allora con grande violenza. Come già si sa, questo simun, chiamato dagli arabi anche kasmin, è un vento caldissimo che soffia da levante o da scirocco e che viene quindi dalle regioni più ardenti del deserto.

Soffia con furia estrema, sconvolgendo il deserto. Solleva le sabbie in forma d’immense colonne o d’immense cortine, le trascina in una corsa vertiginosa, le accumula or qua ed or là in forma di collina o distrugge le alture già formate in altre epoche.

Esso si annuncia ordinariamente con una nuvola nera, che va man mano dilatandosi finché invade tutto il cielo; e allora diventa biancastra.

Il suo soffio ardente dissecca tutto, assorbe gran parte degli umori vegetali facendo morire molte piante delle oasi e fa rapidamente evaporare l’acqua contenuta negli otri delle carovane. La polvere impalpabile che tiene sospesa in aria, penetra poi dovunque, negli occhi delle persone per quanto le palpebre siano ben chiuse, producendo bruciori insopportabili e si caccia perfino in bocca facendo soffrire una sete inestinguibile.

È il nemico più tremendo delle carovane, poiché le priva della preziosa provvista d’acqua e talvolta le seppellisce sotto le trombe di sabbia. Non sono molti anni che una carovana di milleduecento persone e di tremila cammelli, partita da Tripoli, fu coperta dalle sabbie e rimase sepolta per sempre sotto quel mobile, ma terribile sudario.

Quando William e Weddel giunsero all’accampamento, trovarono Afza e suo padre che stavano per partire, credendo che si fossero inoltrati nel deserto e che corressero qualche pericolo.

Tutti i Tuareg erano in moto per assicurare le loro tende, che minacciavano di venire atterrate dal vento furioso e per radunare i loro cammelli. Le povere bestie accovacciate le une presso le altre, colla testa nascosta fra le gambe, emettevono dei sordi e lamentevoli muggiti.

— Presto, cacciatevi sotto le vostre tende — disse il capo a William ed a Weddel. — Non è prudente rimanere fuori quando infuria il simun.

I due bianchi s’affrettarono ad obbedire, dopo però aver dato uno sguardo al pallone, il quale, essendo stato sbarazzato del primo involucro, tendeva fortemente la fune per risalire.

L’oscurità era diventata profonda, essendo il sole tramontato.

Il vento ruggiva in tutti i toni, salendo dai lontani e sconfinati orizzonti del deserto, cacciando innanzi a sé cortine sempre più dense di sabbia.

Le piante dell’oasi si torcevano come se fossero semplici fuscelli di paglia, con mille gemiti e mille scricchiolìi, mentre le lunghe foglie volteggiavano per l’aria; le tende si piegavano verso terra minacciando di spezzare le deboli armature, e pareva che da un istante all’altro dovessero fuggir via.

Le sabbie cadevano dovunque con degli stridìi strani, accumulandosi qua e là per poi risollevarsi. Alcune trombe turbinavano pel deserto tutto abbattendo sul loro vertiginoso passaggio.

Di tratto in tratto dei branchi di gazzelle spaventate o di superbi struzzi, cacciati dalle regioni meridionali dal simun, apparivano un istante per poi dileguarsi con fantastica rapidità verso il nord.

I Tuareg riparati sotto le tende per difendersi da quella pioggia di sabbia, non osavano più mostrarsi. Di quando in quando però si udivano le loro voci a gridare:

— Non vi è che un Dio solo e Maometto è il suo Profeta!...

Era forse l’unica preghiera che conoscessero, poiché tutti gli abitanti del Sahara, quantunque siano maomettani, all’infuori della grande setta dei senussi, non conoscono il Corano che di nome.

Verso le dieci, quando l’oscurità era maggiore e più infuriava il simun, lo scozzese che spiava il pallone da una fessura della tenda, disse a William:

— Venite: un ritardo di pochi minuti può esserci fatale.

Aveva preso una specie di sacco, entro il quale aveva posto la lettera di William ed una sua che aveva scritto per alcuni suoi parenti che aveva in Scozia, e si era munito d’un coltello e di alcune corde.

Il pallone era legato al tronco d’una palma mediante una grossa fune, ma il vento minacciava di guastarlo. Lo rovesciava violentemente contro terra, lo rialzava e lo faceva girare su se stesso, mentre la sabbia lo investiva da tutte le parti, stridendo sulla seta.

— Aiutatemi, William — disse lo scozzese, aggrappandosi alla fune.

— Cosa volete fare? — chiese l’americano.

— Liberarlo dalla navicella. Scaricato d’un peso così ragguardevole, andrà ben lontano e potrà attraversare facilmente il Mediterraneo.

— Ma le lettere?

— Lego il sacco ad una corda. È di tela impermeabile e l’umidità o la pioggia non guasteranno le carte.

S’aggrapparono alla fune e radunando le loro forze, trassero a terra l’aerostato.

Weddel salì sul tetto della navicella, la quale, come si sa, rassomigliava ad una casetta, legò il sacchetto ad una fune del cerchio, poi tagliò rapidamente tutte le altre corde.

L’aerostato, sentendosi libero, fece un salto immenso nell’aria e sparve verso il nord.

— Buon viaggio — disse Weddel, balzando giù dalla navicella.

— Speriamo che qualcuno lo ritrovi — disse William. — Come sarà contento Ernesto, se riceverà mie notizie!... Povero amico!... Forse mi avrà pianto come morto!...

E rientrarono tutti e due nella tenda, mentre al di fuori il simun si scatenava con orribile violenza.