I predoni del gran deserto/4. Una strana proposta

4. Una strana proposta

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3. I predoni del deserto 5. Le leggende del Sahara

Una strana proposta


Ad un ordine del capo fu stesa a terra, all’ombra delle palme e delle camerope, una stuoia di vimini e sopra di essa uno di quegli splendidi tappeti di Rabat, a colori vivaci e con ricami d’oro.

Lo scièk invitò i suoi ospiti a sedersi, mentre i suoi uomini, scaricati i cammelli delle provviste che portavano, si mettevano alacremente al lavoro per allestire il pasto.

Fu subito portata una pelle di capra cucita che serviva d’otre ed il capo invitò i suoi ospiti a bere.

— È acqua? — chiese William. — Preferisco quella del nostro pozzo che è più fresca e più pulita.

— È latte di cammello fermentato — disse Weddel.

— Puah! — fece l’americano.

— Bevete, o lo scièk si terrà offeso. Nulla bisogna rifiutare sotto pena di perdere la vita.

William, che non aveva nessuna voglia di farsi ammazzare per un rifiuto, dovette ingollare parecchi sorsi di quel latte acido e che sapeva di muschio: profumo derivante dalla pelle che lo racchiudeva.

Lo scièk, vedendolo a bere, secondo l’uso, disse:

— Saa!1

— Allah y setmech2 — rispose l’americano che era stato istruito dallo scozzese.

Dopo una seconda sorsata, i Tuareg, trasformati in cuochi, portarono il primo piatto consistente in un agnellino arrostito intero, collocato in una specie di sporta piatta.

Lo scièk lo fece a pezzi servendosi delle dita e d’un coltello, essendo la forchetta sconosciuta presso quei predoni, e servì ai suoi ospiti la pelle brunastra, lucida e croccante dell’agnello che è considerata come il boccone scelto, poi dei grossi pezzi.

L’americano e lo scozzese, che avevano molto appetito malgrado la scorpacciata di datteri e di fichi d’India, fecero molto onore al piatto.

La seconda portata consistette in una vecchia pentola di ferro piena di una salsa giallognola, composta d’un miscuglio di datteri secchi e di albicocche pestate, orribilmente pepato: piatto molto pregiato per i palati degli abitanti del Sahara e anche del Marocco, ma niente affatto da quelli europei ed americani.

Fu con molte smorfie che William e Weddel riuscirono ad inghiottire pochi bocconi.

Assalirono invece con molto appetito il piatto nazionale, il kuskussù, pallottoline composte di farina e di fave macinate, di sugo di carne e di cipolle, servite con una salsa speciale e le torte di miglio e miele.

Terminato quello strano pasto, innaffiato con acqua e latte di cammello, lo scièk fece servire il caffè, che fu trovato squisito, quantunque i Tuareg lo preparino in modo primitivo.

Non lo macinano, ma lo pestano fra due sassi, mescolandovi un’abbondante porzione d’ambra grigia per profumarlo.

Usano servirlo in una vecchia pentola di ferro od in una gamella da soldato, ma lo versano entro delle tazze conservate gelosamente, vecchie di parecchi secoli e perciò screpolate, coi margini rotti, od ammaccate in dieci luoghi se sono di stagno invece di essere di terra o di porcellana.

Il sole stava per tramontare fra una grande nuvola coi margini infuocati, quando lo scièk diede il comando di mettersi in marcia, volendo giungere all’alba al suo duar3.

I cammelli, che si erano sdraiati sull’ardente sabbia, insensibili ai grandi calori del deserto, furono fatti alzare, e due di essi, i più grandi ed i più robusti, vennero legati alle funi della navicella per rimorchiare il colossale uccello.

William e lo scozzese ebbero pure ognuno un mahari, avendo dichiarato che erano troppo stanchi per intraprendere una marcia così lunga.

Alle otto, nel momento in cui la luna sorgeva dietro le alte vette dell’Atlante, rossa come un disco metallico incandescente, la carovana si metteva in moto preceduta dai due cammelli che rimorchiavano l’aerostato.

Un silenzio profondo, che faceva una viva impressione, regnava sull’immensa distesa del deserto. Non un alito di vento soffiava da alcun punto dell’orizzonte, ma dalle sabbie, riscaldate da quel sole ardente, pareva che scaturissero fiamme, le quali lanciavano in viso agli uomini come dei soffi ardenti, soffocanti.

La luna, che splendeva in un cielo purissimo, proiettava i suoi raggi azzurrini, d’una dolcezza infinita, su quelle sabbie, allungando smisuratamente le ombre dei cammelli, degli uomini e del gigantesco pallone che si librava nel vuoto, con un leggero dondolamento.

William era diventato pensieroso e pareva non sentisse nemmeno le brusche scosse che il mahari imprimeva al suo corpo, con quella strana sua andatura che pare zoppicante. Guardava distrattamente la luna, le sabbie e gli uomini che lo precedevano senza parlare.

Lo scièk, che manteneva il proprio cammello a fianco di quello dell’americano, parve si accorgesse dello stato d’animo del suo ospite, poiché ad un tratto gli chiese:

— A cosa pensi?... Forse che sei inquieto perché ti ho portato via il condor?

— No — rispose William.

— Cos’hai?... Sei ammalato?

— Ho lo spleen.

— Non so cosa sia.

— Il tuo deserto mi annoia.

— Lo ha creato Dio così ed io non posso cambiarlo.

— Vorrei andarmene da qui.

— Perché?

— Perché sono innamorato.

— Di qualche figlia del sole?

— Sì — rispose William, sforzandosi a sorridere.

— Buon segno.

— Cosa vuoi dire?

— È bella quella figlia del sole?

— Bellissima.

— Ha i capelli neri?

— No, biondi.

— Rossicci, vuoi dire. Ah!... È vero: se è una figlia del sole deve avere i capelli color dei raggi. Ha la pelle bianca?...

— Bianchissima.

— E la mia invece l’ha bruna.

— Chi?...

— Mia figlia.

— Ah!... Tu hai una figlia?...

— Bella come un raggio di luna: vuoi sposarla?

— Io!... — esclamò William, con sorpresa.

— E perché no?... Io sono un capo e mi piacerebbe imparentarmi con un figlio del sole. Tu sei innamorato ed io ti offro mia figlia: bruna o bianca, che t’importa?...

— Ma non è la tua che io amo.

— L’amerai: Afza è la più bella ragazza del deserto. La vuoi?

— Ma non è una figlia del sole.

— Ma sa ricamare i tappeti meglio di tutte le donne del deserto.

— Ma è bruna ed io non amo le brune.

— Ma nessuna donna sa raccontare meglio di lei le leggende del Sahara.

— Non so cosa farne delle leggende.

— Ti suonerà la tiorba4, e ti assicuro che nessuna donna sa trarre dei suoni più delicati.

— Detesto la musica.

— Ti preparerà il medium5 e ti farà sognare dolcezze sconfinate, poiché nessuno sa manipolarla meglio di lei.

— È inutile...

— Sarà necessario obbedirmi se non vorrai incorrere nella mia collera — disse lo scièk con voce minacciosa. — Mia figlia sarà tua.

L’americano non rispose: ormai sapeva quanto era cocciuto il capo dei predoni, come non ignorava quanto fosse pericoloso ostinarsi con lui.

— Questa avventura comincia a gonfiarmi la milza ed a farmi raddoppiare lo spleen — mormorò. — L’ho sempre detto io che le donne dovevano farmi disperare. Ah! se fosse qui Ernesto!... E quella povera Odowna? Cosa dirà se un brutto giorno mi vedesse ricomparire in Europa con una sposa color cioccolato?... Bisogna far partire il pallone od io finirò collo impazzire.

La carovana intanto continuava ad avanzare attraverso il deserto, sollevando una polvere impalpabile, che penetrava nei polmoni, provocando nell’americano e nello scozzese frequenti colpi di tosse.

Di tratto in tratto incontrava qualche solitaria palma, mezzo intristita, colle foglie rivolte melanconicamente al suolo, o degli sterpi semiaridi o qualche carcassa di un mahari o di un djemel o lo scheletro biancheggiante d’un uomo.

Qualche volta vedevano sfilare, ma rapide come saette, delle gazzelle, le quali forse si recavano in qualche oasi a dissetarsi, o giungere ai loro orecchi lo scoppio di risa d’una jena vagante in cerca di cadaveri.

Alle quattro del mattino, il sole ricomparve all’orizzonte bruscamente, quasi senza alba, saettando il deserto coi suoi raggi infuocati. Quasi nello stesso momento si udì lo scièk a gridare:

— Il duar.

Là dove le sabbie parevano confondersi coll’orizzonte, si vedeva una grande macchia verdastra che spiccava nettamente sulla vasta pianura giallognola. Quella macchia verde doveva essere l’oasi dei Tuareg.

I mahari, che avevano già fiutata la vicinanza dell’accampamento, cominciarono ad allungare il collo ed affrettare il passo. Si sarebbero ben volentieri lanciati innanzi di corsa, ma in causa del pallone, gli uomini che li montavano erano costretti a frenarli.

Un’ora dopo la carovana giungeva all’oasi. Era questa molto vasta, più ricca di piante dell’altra ed in parte coltivata a miglio ed a orzo.

Il duar era composto di quaranta tende alte tanto da potersi tenere appena in piedi un uomo superiore alla statura media, sorrette da pali e coi margini rovesciati in su per lasciare che l’aria circolasse liberamente.

Non erano bianche, non essendo niente affatto di tale colore, come generalmente credesi, quelle degli abitanti del Sahara, come non lo sono quelle dei beduini, ma di grossa stoffa di peli di cammello, di color bruno sporco a strisce giallastre.

I Tuareg dell’accampamento, una sessantina circa, scorgendo la carovana, balzarono sui loro cavalli o sui loro mahari, e si recarono ad incontrarla emettendo alte grida, facendo volteggiare in aria le loro lance ed i loro fucili.

Vedendo il pallone s’arrestarono stupefatti; poi balzarono a terra toccando la sabbia colla fronte. Senza dubbio anche loro lo scambiavano pel sole o per la luna.

Lo scièk lasciò che i suoi uomini spiegassero ai nuovi arrivati cosa era quel fuso gigantesco e spinse il suo mahari a corsa sfrenata, tenendo per la correggia quello dell’americano.

Giunto in mezzo al duar che era ingombro di donne, di fanciulli e di pecore, di capre, di cammelli, di cavalli, balzò a terra invitando William a fare altrettanto, poi si diresse verso una grande tenda che era accuratamente chiusa, dicendo con voce brusca:

— Seguimi.

— Dove mi conduci? — chiese l’americano, con inquietudine.

— Lo saprai dopo.

— E se non volessi seguirti?...

Lo scièk lo guardò con due occhi nei quali balenava un lampo sinistro.

— Vieni! — ripeté. — Vieni, o guai a te!

— Bada che v’è il condor.

— Finché è legato ai cammelli non lo temo.

L’americano cedette e lo seguì sotto la tenda, la quale era divisa in due scompartimenti.

— Aspettami qui — disse lo scièk.

Alzò un lembo dello scompartimento e sparve, lasciando il povero William più che mai sorpreso ed inquieto.

— Ah!... Quest’avventura!... — esclamò. — Al diavolo i palloni ed il mio spleen, che mi ha mandato in questo paese di bricconi. Se avessi almeno una bicicletta!... Ripeterei il tiro birbone giuocato al brigante dei Balkani, ma qui non ve ne sono.

Girò intorno uno sguardo melanconico.

Quello scompartimento pareva la bottega di un rigattiere ebreo. Vi erano accumulati alla rinfusa tappeti, balle di mercanzia, vesti d’ogni specie, arabe, od europee, od algerine, e perfino dei vestiti di soldati francesi, denti d’elefante rubati certamente alle carovane provenienti da Tombuctu, penne di struzzo, chincaglierie, armi d’ogni specie.

Ad un tratto vide lo scièk rientrare conducendo per mano una giovanetta che aveva il viso coperto da un velo, come usano portare le donne mussulmane.

Lo scièk glielo strappò dicendo a William attonito:

— Guarda se Afza non è più bella della figlia del sole che tu ami!... Se lo neghi, ti faccio tagliare la testa!...


Note

  1. Alla salute.
  2. Dio ti salvi.
  3. Accampamento.
  4. Specie di chitarra.
  5. È una pasta dolce, ma inebbriante, essendo composta di burro, di miele e di foglie di kif dalle quali si estrae l’hascisc.