I pescatori di balene/XIII. Alla deriva
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XIII
ALLA DERIVA
Il «Danebrog», la valorosa nave del capitano Weimar, altro non aspettava che lo spezzamento di quei tre banchi per uscire dal canale, o il loro squagliamento, cosa questa assai difficile ad avverarsi in quell'alta latitudine e in una stagione così avanzata.
Tutta la polvere della Santa Barbara, tutte le braccia dell'equipaggio e lo sperone, per quanto solido, sarebbero stati impotenti ad aprirsi un varco. Dinanzi, l'«iceberg» colla sua torre e la sua alta vetta era inattaccabile; a destra, a sinistra e dietro i tre banchi, ormai solidamente uniti, colla loro immensa superficie, non lo erano meno. C'era il pericolo di dover svernare in quello stretto braccio di mare. E quali orrori allora! Lo stesso tenente Hostrup, che di nulla si sorprendeva e di nulla si spaventava, provò un fremito al solo pensarlo.
Sulla coperta della nave baleniera, dopo le prime imprecazioni, regnò un funebre silenzio. Tutti i marinai, quantunque già abituati ai terribili freddi del polo e quantunque parecchi di essi fossero usciti salvi da più di uno svernamento, erano atterriti.
Il capitano, dopo aver dato il comando di virare di bordo onde non infrangere la nave contro quelle solide pareti di ghiaccio, si era portato sul castello di prua e di là, colle braccia incrociate, lo sguardo torvo, silenzioso, scoraggiato e irritato ad un tempo, si era messo a contemplare l'«iceberg» che gli chiudeva l'uscita. Forse cercava un modo qualsiasi per uscire da quella prigione che poteva anche cambiarsi per lui e per il suo equipaggio in una tomba.
La voce del tenente Hostrup, tranquilla anche in quel terribile frangente, lo strappò alle sue meditazioni.
— Signore, che intendete fare?
— Non lo so ancora, tenente! — rispose il capitano. — Ah! Perchè non ho seguito i vostri consigli? E il cuore me lo diceva che la fortuna avrebbe finito col volgersi contro di noi. Ci aveva protetti troppo in questa campagna, che per ogni altro sarebbe stata fatale.
— Lasciamo i rimpianti, capitano. Cerchiamo invece se è possibile uscire di qui.
— Ma in qual modo?
— Forse possiamo aprirci un passo attraverso l'«iceberg».
— Tutta la nostra polvere non basterebbe.
— Forse non presenta una grande solidità. Le mine prima e lo sperone dopo potrebbero riuscire a qualche cosa.
— Andremo a visitare quella dannata montagna. Ma se non si riuscisse a nulla?
— Aspetteremo.
— Cosa mai? Non dimenticate, tenente, che siamo al 28 di settembre e che in questa epoca il sole non ha più tanta forza da sciogliere un campo di ghiaccio.
— Sullo scioglimento non calcolo, capitano.
— E allora?
— Calcolo invece sull'incontro di qualche «icefield». Nell'urto che accadrebbe, i campi di ghiaccio potrebbero fendersi e permetterci l'uscita.
— Debole speranza, signor Hostrup.
— Lo so, ma non ne abbiamo un'altra migliore. Fate ancorare la nave, signore, e andiamo a visitare l'«iceberg».
Mastro Widdeak, ad un ordine del capitano, diresse il «Danebrog» verso una specie di «fiord» che formava il banco di sinistra e lo fece ormeggiare con doppie gomene ad un solido «hummock». Ciò fatto, Weimar, Hostrup, Koninson e sei marinai si imbarcarono in una baleniera e si portarono sotto l'«iceberg», in un punto ove l'approdo non era difficile.
La montagna di ghiaccio fu minutamente visitata. Misurava novanta e più metri di larghezza e milleduecento di lunghezza con una vetta di almeno quattrocento. Da una parte combaciava perfettamente con un banco, ma dall'altra lasciava un canaletto, così piccolo però da non permettere nemmeno il passaggio ad un canotto.
— È inattaccabile! — disse il capitano. — Occorrerebbero cinque tonnellate di polvere e cento uomini per aprire un passo capace di permettere l'uscita al «Danebrog».
— Lo riconosco — rispose il tenente.
— E se si tentasse di tagliare l'uno o l'altro dei banchi? — disse Koninson.
— I grandi freddi ci sorprenderebbero prima di aver scavato un canale di cinquecento braccia — rispose Weimar.
— Allora non c'è più speranza di riguadagnare lo stretto di Behring.
— Lo temo, Koninson.
— Dannate balene! Mi vengono i brividi al pensare che forse dovremo qui svernare.
— Torniamo a bordo; non abbiamo più nulla da fare qui — disse il capitano.
— Cammina il banco?
— Sì, verso sud-sud-ovest. La corrente polare lo porta.
— Ma allora finiremo nello stretto di Behring.
— Sì, se non verremo arrestati da altri banchi o da qualche isola della costa americana. A bordo, amici, e fidiamo in Dio.
La baleniera in pochi colpi di remo li ricondusse al «Danebrog», dove li attendevano con viva ansietà i marinai. Il capitano in poche parole li informò del vero stato delle cose, lasciando però intravvedere delle speranze che forse più non esistevano, poi diede ordine di ammainare le vele che per il momento diventavano inutili e di assicurare vieppiù la nave, ma in modo da tenerla in mezzo al «fiord».
Quelle diverse manovre erano state appena eseguite, che il sole scomparve dietro una massa di vapori di un color plumbeo. Era un nebbione che avanzava stendendosi al disopra dei grandi banchi, ma così fitto da oscurare perfino il «blink».
— L'inverno procede a grandi passi — disse il tenente a Koninson. — Temo che per il «Danebrog» sia proprio finita.
— Anch'io ho questo timore, signor Hostrup — disse il fiociniere. — Fra pochi giorni avremo intorno a noi tanti ghiacci da sfidare lo sperone di cento fregate. Tò! Ecco quegli uccelli che volano verso sud. Fortunati volatili!
Verso le 10 il nebbione che avanzava rapidissimamente, spinto innanzi dal vento che aveva cambiato già direzione, era giunto sopra i grandi banchi avvolgendo il «Danebrog» in un velo umidissimo e freddissimo. Quasi subito il termometro scese a 4° sotto zero.
L'equipaggio, dopo aver acceso per ogni precauzione i fanali e collocato due sentinelle armate di fucile, onde impedire che qualche orso bianco si avvicinasse alla nave, cosa del resto non difficile stante la vicinanza dei banchi, si ritirò sotto coperta.
Durante la notte nulla accadde di straordinario. Il «wacke» — tale è il nome che i balenieri danno ai banchi contenenti un bacino d'acqua — navigò lentamente verso sud-sud-ovest, spinto dal vento e dalla corrente polare, aggregando alla già sua enorme mole i ghiacci che incontrava sul suo cammino.
L'indomani, 29, il sole non si fece vedere, nascosto come era dal nebbione sorto alla sera, e il termometro scese di due altri gradi sotto lo zero. I ghiacciuoli, che ingombravano il canale, in parecchi luoghi si unirono formando dei sottili lastroni di ghiaccio. Quel principio di congelamento impressionò non poco l'equipaggio del «Danebrog». Parecchi marinai cominciarono a perdere ogni speranza di poter riguadagnare il porto da cui erano partiti.
Il capitano e il tenente, durante la giornata, fecero una visita all'«iceberg» e notarono con dolore che si era cementato ancor più solidamente ai banchi e che il canaletto era interamente gelato.
Il 30 fu una giornata orribile. Una nevicata abbondantissima cadde dal cielo coprendo i banchi di un lenzuolo alto parecchi palmi e la coperta del «Danebrog». Il termometro scese di un altro grado.
Il capitano fece accendere le stufe e, per non tenere i suoi uomini in ozio, che in quelle fredde regioni influisce assai sul morale, ordinò di procedere alla depurazione dell'olio di balena.
Per questa operazione si adoperano sacchi di flanella ripieni nel frammezzo di carbone in polvere distribuito su uno strato grosso un mezzo pollice e trattenuto da trapunti, onde impedire che si raccolga tutto nel fondo.
Entro questi sacchi si versa l'olio, dopo averlo liquefatto, se il freddo l'ha già fatto gelare, e si lascia filtrare entro un vaso contenente una certa quantità d'acqua mescolata con solfato di rame. Quando il vaso è quasi pieno, si lascia riposare l'olio tre o quattro giorni, indi si estrae col mezzo di una chiavetta posta alcune linee sopra il livello dell'acqua.
Se si vuol avere un prodotto purissimo, che non sappia di pesce rancido, basta ripetere l'operazione due o tre volte.
L'equipaggio, impedito di uscire per la neve che cadeva senza posa e per il gran freddo che regnava in coperta, accettò di buon grado quel passatempo.
Verso sera la burrasca di neve si calmò e apparve attraverso le bigie nubi un raggio di sole di una bellezza incomparabile, il quale tinse di rosso l'immensa distesa di ghiacci accavallati attorno alla nave.
Il tenente e Koninson ne approfittarono per scendere sul banco e abbatterono una mezza dozzina di oche e alcune procellarie. Videro anche, a non molta distanza dalla nave, una foca, ma questa appena scorse gli uomini si cacciò nel buco che aveva scavato nel ghiaccio per venire a respirare.
— Se non è oggi, ti prenderemo domani! — disse il fiociniere.
— Non sarà però cosa facile, Koninson. Ora che ci ha scoperti diventerà prudente assai.
— Ci nasconderemo dietro qualche «hummock» e appena uscirà dal buco le manderemo una palla nella testa. Che ci siano anche degli orsi bianchi su questo «wacke»?
— Non è improbabile. Sovente, spinti dalla fame, questi feroci carnivori si imbarcano sugli «icebergs» colla speranza di sbarcare in una contrada ben fornita di selvaggina. Non sarei sorpreso se domani ne vedessi giungere qualcuno.
— Niente di meglio, signor Hostrup. La carne degli orsi è eccellente.
— Non dico di no, ma quelle bestiacce non temono di assalire una nave.
— Bah! Siamo in molti noi, e fucili ne abbiamo in quantità. Ventre di balena! Guardate laggiù, signor Hostrup! Guardate, guardate!
— Vedi un orso forse?
— Le nostre balene vedo, ventre di foca!
Il fiociniere non si era ingannato. Dall'altra parte del banco, undici balene, comprese tre balenottere, nuotavano verso sud aprendosi a gran colpi di coda il passo fra i ghiacci.
— Si direbbe che vengono a deriderci — disse il tenente.
— Eh! Vorrei essere fuori di qui col mio rampone, per insegnar loro a ridere! — esclamò il fiociniere che seguiva cogli occhi fiammeggianti quei superbi giganti. — E invece siamo qui, chiusi dappertutto, e anche colla brutta probabilità di restarvi un bel pezzo.
— Puoi dire colla certezza, Koninson.
— Non avete alcuna speranza voi, tenente?
— Nessuna, fiociniere.
— E lo dite così tranquillamente! Si direbbe che uno svernamento non vi spaventa.
Il tenente alzò le spalle.
— Bisogna prendere le cose come vengono, mio caro — disse. — Torniamo a bordo, che comincia a soffiare un vento indiavolato e rigidissimo. Prevedo per domani una burrasca.
— Bisognerebbe che fosse così formidabile da spezzare questo dannato «wacke».
— Sarà tremenda, te lo assicuro. Guarda che brutte nubi si accavallano in cielo.
— E spezzerà il banco?
— È probabile, Koninson.
Quando tornarono a bordo, il vento aveva cominciato già a soffiare con furia estrema, spazzando la neve che copriva il banco e sollevando a grande altezza l'acqua dell'oceano. Pareva che portasse con sè una legione di demoni; ora fischiava attraverso gli alberi e le corde della nave, ora ruggiva tremendamente sulle vette degli «icebergs», ora muggiva ancor più forte delle onde che già s'infrangevano con grande impeto contro i ghiacci, abbattendoli e frantumandoli contro il «wacke».
Il capitano, temendo che la nave non resistesse a quei poderosi soffi, la fece maggiormente assicurare con altre e più grosse gomene, e ordinò che si raddoppiassero gli uomini di guardia.
La notte fu spaventevole. I ghiacci dell'oceano, cacciati dalle regioni settentrionali, venivano a cozzare contro il banco a centinaia, con un fracasso indicibile, accavallandosi gli uni sugli altri, spezzandosi, frantumandosi.
Ondate mostruose, spinte dal vento, si sfasciavano incessantemente contro il banco e, cacciandosi sotto di esso, malgrado il suo enorme peso e la sua grande estensione, lo facevano traballare e scricchiolare. Dei larghi crepacci si aprivano di quando in quando, ma tosto si riunivano come se avessero paura che la nave fuggisse per di là.
Anche nel canale l'acqua era agitatissima e molti ghiacci, strappati alle rive o rovesciati dal ventaccio, galleggiavano correndo disordinatamente ora qua ora là.
Il «Danebrog», quantunque solidamente assicurato, tre volte si spostò minacciando di urtare contro le rive del piccolo «fiord». I marinai, malgrado la profonda oscurità, furono costretti a gettare nuove funi e a portare sul banco due ancore che furono cacciate entro profonde fessure.
Alle 2 del mattino, quando maggiore era la furia dell'uragano, il banco, come se fosse stato mosso dal terremoto, ondeggiò fortemente da sud a nord e una grande apertura si manifestò in quella direzione con uno scroscio così forte da poter essere udito a dieci chilometri di distanza.
L'«iceberg» che chiudeva il canale fu visto un istante dopo staccarsi e oscillare. Un urlo di gioia si alzò fra l'equipaggio del «Danebrog», salito tutto in coperta.
Credette di essere finalmente libero!
Disgraziatamente quella gioia fu di breve durata. Il colosso, dopo essersi allontanato di poche decine di braccia, spinto dalle onde tornò a urtare contro il banco, incastrandosi ancor più fortemente di prima dentro il canale.
Anche la grande fenditura manifestatasi attraverso il «wacke» si chiuse in seguito alla straordinaria pressione esercitata dai ghiacci che scendevano a migliaia dal settentrione.
— Tutto è finito per noi! — disse il capitano al tenente. — Bisognerà svernare.
— Forse — rispose Hostrup, che da qualche istante guardava con un cannocchiale verso sud.
— Su che sperate?
— Ho scorto or ora laggiù una vetta oscura che s'innalza in mezzo ad un banco di ghiaccio.
— Ebbene?
— Il vento ci spinge verso quella terra, capitano.
— Ma siete certo che sia una terra?
— Non m'inganno.
— Ma è impossibile che siamo già giunti presso la costa americana.
— Sono già due giorni che il vento ci spinge verso il sud, aiutando la corrente. Può essere anche, invece della costa americana, un'isola.
— E cosa sperate nell'incontro di quella terra?
— L'uragano ci porta con una velocità non indifferente.
— Ah! Voi sperate in un urto.
— Sì, capitano.
— Infatti il banco potrebbe infrangersi. E non correrà pericolo il «Danebrog»?
— Il canale è largo.
— Lo so, ma i ghiacci potrebbero accumularvisi dentro e stritolarci.
— Se ci mettessimo alla vela?
— Avete ragione. Ehi, mastro Widdeack! Fa spiegare le vele e sciogliere gli ormeggi.
C'era il tempo necessario, essendo la terra scoperta dal tenente assai lontana. I marinai, che avevano compreso di che si trattava e su quale speranza calcolava il capitano, in un batter d'occhio portarono in coperta le vele, le infierirono ai pennoni e le spiegarono, mentre mastro Widdeack, assieme a Koninson e ad Harwey, scesi sul banco, liberavano le ancore e scioglievano le gomene.
Mezz'ora dopo il comando dato, il «Danebrog» usciva dal «fiord» infrangendo i ghiacciuoli che lo ingombravano e si portava in mezzo al canale, allontanandosi dall'«iceberg» che doveva essere il primo a sostenere l'urto. La terra segnalata non distava allora che un miglio. Era una roccia di mille metri di estensione e alta un trecento o quattrocento. Tutto intorno si estendevano grossi banchi di ghiaccio e grande numero di ghiacci galleggianti.
Il «wacke», che filava con una velocità di tre o quattro nodi all'ora, in brevi istanti fu addosso all'isolotto. Si udì uno scroscio cento volte più forte di quello avvenuto poche ore prima, seguito, poco dopo, da un tonfo sordo causato dalla caduta di alcune montagne di ghiaccio.
Il «wacke», fracassati i ghiacci che circondavano dal lato nord l'isolotto, andò a cozzare contro lo scoglio con tale impeto da ritornare indietro. Due larghe fessure si aprirono, le rive del canale si restrinsero e in parte diroccarono, le piramidi, le arcate, le colonne crollarono, ma il «Danebrog» rimase prigioniero. L'«iceberg», quantunque avesse sopportato quasi tutto il cozzo, non aveva ceduto. Solo la sua torre aveva oscillato e si era screpolata, ma senza cadere.
Sul ponte del «Danebrog» si alzò un urlo di rabbia. Questa volta per i balenieri era proprio finita. Più non restava che svernare.