I pescatori di balene/XII. Bloccati dai ghiacci

XII. Bloccati dai ghiacci

../XI. Attraverso le nevi ../XIII. Alla deriva IncludiIntestazione 18 maggio 2017 75% Da definire

XI. Attraverso le nevi XIII. Alla deriva

XII


BLOCCATI DAI GHIACCI


Il valoroso «Danebrog», guidato dall'abile e robusta mano del non meno suo valoroso capitano, era uscito sano e salvo dalla formidabile tempesta.

Spinto dal vento, era andato ad investire non già contro la scogliera che era stata segnalata e come avevano dapprima creduto il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, bensì contro un gran banco di ghiaccio che era apparso quasi improvvisamente dinanzi la prua.

L'urto era stato così gagliardo da atterrare l'intero equipaggio e da balzare in mare il tenente e il fiociniere, ma non aveva prodotto avarie al solido sperone della nave. Questa, dopo essersi arrestata per alcuni istanti, sollevata da una montagna d'acqua era tornata a cozzare contro l'ostacolo; poi aveva proseguito la disordinata corsa attraverso il nebbione.

Appena accortosi della scomparsa del tenente e del fiociniere, malgrado la furia del vento, il mare sollevato spaventosamente e i numerosi banchi di ghiaccio che correvano disordinatamente in tutte le direzioni, il capitano, che amava assai quei due coraggiosi, aveva audacemente dato il comando di virare di bordo e di allestire la grande baleniera, ma la manovra ardita quanto pericolosa, con quell'imperversare degli elementi, non era riuscita.

Allora diede il comando di poggiare verso la costa, risoluto di non abbandonare quei paraggi senza avere ritrovato vivi o morti i due disgraziati.

Ed infatti, dopo una ostinata lotta contro l'uragano che la trascinava verso est e contro i ghiacci, la nave era riuscita a rifugiarsi in quel profondo «fiord», il quale era stato subito chiuso da un gran banco di ghiaccio staccatosi da un altro ancora più grande. E lì il capitano aspettava che la tempesta si calmasse un pò per rimettersi in cerca del tenente e del fiociniere, che supponeva rifugiati su qualche punto della costa o sulla scogliera intravveduta attraverso la nebbia.

Il signor Hostrup e Koninson a bordo furono accolti con grande festa, poichè tutti li amavano assai per il loro coraggio e per la loro valentìa. Dovettero stringere le mani a tutti quanti e, quando furono ben vestiti ed ebbero calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, furono costretti a narrare le loro avventure.

— Ed ora, che cosa si fa? — chiese il tenente al capitano Weimar, quand'ebbe finita la narrazione.

— Si aspetta che la burrasca finisca per fuggire verso ovest. La stagione della pesca è finita, tenente, e disgraziatamente assai male.

— La scommessa è perduta dunque?

— Sì, tenente! — rispose Weimar con tristezza. — I Danesi sono stati sconfitti.

— Bah! Riprenderemo la rivincita l'anno venturo, capitano.

— Sì, se riusciremo a guadagnare il porto che ci ha veduti partire.

— Temete i ghiacci, capitano?

— Sì, perchè ci siamo spinti troppo innanzi. A quest'ora noi dovremmo essere nel mare di Behring.

— La nave è ancora solida, capitano, e può lavorare di sperone.

— Non dico di no, ma temo che si avanzino i grandi banchi di ghiaccio. Sento per istinto che l'«icefield» non è lontano. Dannata scommessa che forse pagheremo assai cara! Essa sola ci ha trascinati fin qui.

— E anche il destino, capitano. Due urti in una stagione sono stati troppi. E l'uscita dal «fiord» sarà facile? Ho veduto un banco di ghiaccio all'entrata.

— Lo spezzeremo, tenente. Il «fiord» è lungo; possiamo quindi prendere un grande slancio. Ora andate a riposarvi, che ne avete bisogno; io ispezionerò il banco e cercherò di indebolirlo.

Il tenente, che si sentiva affranto per la lunga marcia fatta attraverso le nevi e le rupi, si ritirò nella sua cabina, mentre il capitano scendeva nella baleniera con una dozzina di marinai muniti di grandi seghe, di picconi e di scuri.

Il banco di ghiaccio che chiudeva il «fiord» fu accuratamente visitato. Era lungo duecentosessanta metri, largo centoventi e grosso nove pollici. Per di più, sul dinanzi, spinti dalle onde e dal vento si erano aggruppati parecchi «hummoks», «streams» e «palks» che tendevano a cementarsi rendendo maggiore l'ostacolo.

— Il «Danebrog» avrà un osso duro da spezzare! — disse mastro Widdeak al capitano. — E se non facciamo presto diverrà ancora più duro.

— La tempesta si calma, vecchio mastro — disse Weimar. — Stanotte potremo partire.

— Dobbiamo assalire il banco?

— Assalitelo.

— Non si chiuderà il canale che apriremo, col freddo che fa?

— Speriamo che ciò non accada. Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi.

Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi.

Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del «Danebrog».

Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L'uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi.

Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d'una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo.

Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel «fiord».

Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l'urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e il capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre.

Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull'orizzonte spargendo all'intorno un dolce calore.

Alle 7 e dieci minuti l'ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il «Danebrog», sotto l'azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l'uscita del «fiord», dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio.

C'erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al «Danebrog» lo slancio necessario per frantumare l'ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai.

— Saldi, in gambe! — gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone.

Spinto dal vento che tendeva a crescere, il «Danebrog» si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci.

I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino.

— Attenzione! — gridò il capitano.

Non c'erano che quindici o venti metri. Il «Danebrog», che correva colla velocità di sette nodi all'ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell'equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni.

Il banco colpito in pieno dall'acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii.

Per alcuni momenti il «Danebrog» restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord.

— Urrah! — urlò l'equipaggio che si era subito rimesso in gambe. — Viva il «Danebrog»! Viva il capitano Weimar!

Dinanzi al «fiord» il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall'uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano «ice-blink».

Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro. Solamente in aria, attraverso l'«ice-blink», volavano silenziosamente alcuni gabbiani.

— Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia — disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l'ampia distesa d'acqua. — Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci.

— Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano — disse il tenente. — Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring.

— Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche...

— Che cosa, capitano?

— Tornare in porto sconfitto, mi punge assai.

— Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque...

— Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio.

— Sarebbe un'imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest'anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare?

Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d'un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia.

— La via è lunga assai! — continuò il tenente che non si era accorto di nulla. — Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e...

— Tenente! — esclamò in quell'istante il capitano con voce alterata. — Non vedete nulla voi laggiù, verso est?

— Sì, degli «icebergs» che danzano allegramente.

— No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale.

Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll'orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire.

— Vedete nulla? — chiese Weimar.

— Sì! — rispose il tenente con voce tranquilla. — Vedo un branco di balene.

— La vittoria è nostra, tenente! Anche quest'anno i Danesi trionferanno.

— Cosa intendete dire, capitano?

— Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno.

Il tenente fece un gesto di stupore.

— Perderemo un'altra settimana, signore — disse poi con grave accento.

— Che importa?

— Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare.

— Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l'avranno chiuso.

— Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del «Danebrog», ma di noi tutti.

— Quando si tratta dell'onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo.

— E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci.

— Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi!

— Ma... capitano... — arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo.

— Che vuoi tu dire? — chiese il capitano.

— Siamo innanzi assai colla stagione...

— Sei hai paura, sbarca sulla costa americana.

— Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il «Danebrog».

— Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il «Danebrog» fino al bastingaggio.

Un istante dopo il «Danebrog» virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni.

Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni.

In capo ad un'ora il «Danebrog» era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico!

Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio.

Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti.

I marinai del «Danebrog», entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia.

Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del «Danebrog». Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco.

Già il «Danebrog», spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine.

Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore.

— Cosa succede laggiù? — si chiese il capitano aggrottando la fronte. — Che abbiano paura di noi?

— Non lo credo! — disse il tenente che gli stava appresso. — Scommetterei che sono state assalite.

— Assalite! E da chi?

— Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente.

— Sì, sì, li scorgo.

In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare:

— Abbiamo una truppa di delfini gladiatori!

Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici.

Il capitano fece un gesto di rabbia.

— Dannazione! — gridò. — Chissà quanto dovremo filare!

— Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! — disse Koninson che aveva lasciato la coffa. — I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita.

— Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi.

— Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone!

Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti.

Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del «Danebrog».

Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità.

Il «Danebrog» però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene.

Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il «Danebrog» navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose.

Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte.

La sera dello stesso giorno però, presso uno «stream», fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso.

Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti.

Il 26 l'equipaggio del «Danebrog» notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria.

Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il «blink» che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il «Danebrog» non cambiò rotta.

All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord.

— È un banco solo o sono due divisi dal canale? — si domandò il capitano.

— Sono due senza dubbio — disse Koninson che l'aveva udito. — E le macchie oleose continuano nel canale.

— E cosa vuoi concludere, fiociniere?

— Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato.

— Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale!

Il «Danebrog», che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un «iceberg» immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi.

Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il «blink» rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi.

Il «Danebrog» guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli «streams» e «hummoks» che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero.

Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò:

— Capitano! Il canale è chiuso!

Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra.

Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare.

— Bisogna tornare indietro — disse il tenente.

— Ma le balene dove sono fuggite? — chiese il capitano con i denti stretti.

— Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco.

— Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi — aggiunse Koninson.

— Che fare ora? — chiese il capitano.

— Capitano, — disse il tenente — badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito.

— E la scommessa?

— Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo.

Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il «Danebrog» virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua.

Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'«iceberg», visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!