I naufraghi del Poplador/22. Gli antropofaghi
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22.
GLI ANTROPOFAGHI
L'abitazione dal mutoi destinata ai tre marinai era vasta assai, costruita con solidissimi tronchi d'albero e con una sola e piccola apertura dalla quale entrava pochissima luce.
Qua e là c'erano delle stuoie di fibre di cocco, grosse e abbastanza soffici, dei gusci di tartaruga forse destinati a ricevere l'acqua, dei pacchi di topo, e dei panieri pieni di banani e di noci di cocco. Nel mezzo, fra quattro buche coperte di grandi foglie, si rizzava una statua di legno, orribile, massiccia, con una testa enorme coperta da uno strano berretto di fibre di cocco, con due occhi grossissimi, una bocca informe e due gambe mostruose. Probabilmente era qualche dio.
— È una capanna o un tempio questo? — chiese Michele, guardandosi attorno.
— Un tempio certamente — disse don Pablo. — Quel brutto mostro di legno deve essere il dio Tiki che è adorato in quasi tutte le isole dell'arcipelago delle Marchesi.
— E queste buche cosa contengono? — chiese Josè.
— Sotto quelle foglie ci deve essere qualche cosa.
— Saranno depositi di viveri — disse il capitano. — Leva le foglie, vecchio.
Josè obbedì e subito ai suoi occhi apparve una massa giallognola, spugnosa, che mandava uno strano odore.
— Cos'è questa roba? — chiese.
— Si mangia, Josè — disse don Pablo. — Quella pasta lì è popoi.
— Cos'è questo signor popoli — chiese Michele.
— Ciò che voi chiamate artocarpo. I polinesiani, per conservare le frutta dell'albero del pane, che come sapete formano la base del loro nutrimento, pestano prima per bene la pasta, quindi la ripongono in buche profonde un metro, ove si mantiene abbastanza bene.
— E non inacidisce?
— Sì, ma l'acidità non dà gusto sgradevole.
— Allora vuoteremo queste buche.
In quell'istante entrarono quattro guerrieri carichi di frutta di cocco, di banani, di panieri pieni di popoi, di recipienti di namu e di pezzi di maiale arrostito. Deposero tutto per terra, poi se ne andarono chiudendo l'uscita con una grossa stuoia.
Don Pablo, Michele e Josè, che dall'alba non avevano messo sotto i denti un pezzo di cibo, si sedettero sulle stuoie e assaltarono vigorosamente la popoi, la carne e le frutta, innaffiandole con lunghe sorsate di namu.
— Ora, — disse Michele, — facciamo una passeggiata pel villaggio.
Alzò la stuoia, ma si fermò vedendo una doppia linea di selvaggi armati, stesa dinanzi l'uscita.
— Siamo prigionieri forse? — si chiese.
— Pare — disse il capitano. — Hanno paura che prendiamo il volo.
— Sforzeremo il passo.
— Siate prudente, Michele. Noi siamo tre e i guerrieri sono almeno trenta. Aggiungete poi la popolazione del villaggio, che è numerosa, e che accorrerà senza dubbio al primo allarme.
— Ma io non intendo di farmi imprigionare da questi cialtroni. Vediamo un po'.
Si avvicinò ai guerrieri per farsi largo, ma questi gli puntarono contro le lance e gli intimarono di rientrare nella capanna. Il tenente molto a malincuore obbedì.
— Sia pure — disse. — Ma domani uscirò, dovessi adoperare il mio fucile.
— Calma, Michele — disse don Pablo. — Forse temono che noi fuggiamo senza aver preparata la famosa medicina. Sdraiamoci su queste stuoie e facciamo una dormita.
— Non mi fido più, capitano. Potrebbero approfittare del nostro sonno per legarci e metterci allo spiedo. Rimarrò in osservazione dietro la porta.
Il tenente, che era diventato di cattivo umore, si sedette presso la porta tenendo d'occhio i guerrieri che non lasciavano un solo istante la capanna.
Verso sera due selvaggi recarono a don Pablo un paniere pieno di uova di uccelli e una noce di cocco colma di foltissimo namu, dicendo che il mutoi aspettava la medicina promessa.
Il capitano ruppe le uova e le mescolò al liquore, fece dei segni cabalistici, pronunciò alcune parole, poi consegnò la medicina ai due selvaggi assicurandoli che in pochi giorni avrebbe completamente guarito il malato.
— Dite anche a questi due brutti musi, che domani andremo a visitarlo — disse Michele a don Pablo. — Invece ce la batteremo.
— Ci daranno la caccia, tenente.
— Abbiamo anche noi delle buone gambe, capitano, e tre buoni fucili.
Il capitano lo accontentò.
— A domani, don Pablo — disse Michele sdraiandosi su di una stuoia.
— A domani, tenente — rispose don Guzman.
La notte fu tranquilla. Un silenzio profondo regnò nel villaggio, ma le sentinelle non lasciarono le vicinanze della capanna. Anzi tennero accesi dei grandi fuochi, affinchè i prigionieri non approfittassero delle tenebre per prendere il volo.
L'indomani don Pablo ed i suoi compagni furono improvvisamente destati da un gridìo indiavolato. Temendo un improvviso attacco balzarono sui fucili e diressero le canne verso la porta, pronti a far fuoco.
Alcuni istanti dopo, la stuoia si alzava, e un selvaggio entrava con un grazioso sorriso sulle labbra. Vedendo i tre bianchi in quell'atteggiamento tutt'altro che pacifico, parve sorpreso e si fermò, poi si fece animo, andò a strofinare il suo naso su quello di don Pablo e fece un discorso che terminò con un significantissimo movimento di mascelle.
— Cosa ha detto? — chiese Michele. — Si tratta forse di mangiare?
— Precisamente, tenente — rispose il capitano. — Questo selvaggio ci porta i saluti del mutoi e ci invita ad un grande banchetto.
— Cospettaccio! Bisogna accettare.
— E il mutoi prenderà parte al banchetto? — chiese Josè.
— Sì, vecchio mio. A quanto pare la nostra medicina gli ha giovato assai.
— Ebbene, capitano, accettiamo l'invito.
Don Pablo avvertì il selvaggio, il quale se ne andò dando segni di viva gioia. I tre bianchi per aguzzare l'appetito vuotarono una noce di namu e attesero pazientemente l'ora del pasto.
L'intera mattina passò senza che il selvaggio riapparisse. Si udivano però fuori, sulla piazza, acute grida, fischi e suoni strani. Pareva che una pazza gioia regnasse nel villaggio.
Michele, curioso di sapere ciò che accadeva, tentò parecchie volte di uscire dalla capanna, ma si trovò sempre dinanzi ad una compagnia di guerrieri i quali bruscamente lo respinsero.
Doveva essere il mezzodì, quando il selvaggio tornò ad alzare la stuoia. Stropicciò il naso di don Pablo, quello di Michele e di Josè, poi fece mille smorfie e mille salti mandando urla incomprensibili e finalmente disse che il banchetto era pronto e che il mutoi era già a tavola.
— Seguiamolo — disse il capitano. — Non dimentichiamo però i nostri fucili.
— Temete qualche cosa? — chiese Michele.
— Forse, tenente. Avanti e stiamo bene attenti affinchè non ci si giuochi qualche brutto tiro.
— Il primo che alza la mano è uomo morto, don Pablo — disse Josè.
Si gettarono i fucili in ispalla e uscirono dalla capanna. Attraversata la doppia linea di guerrieri, si arrestarono vivamente sorpresi.
Dinanzi alla capanna del mutoi, all'ombra dei banani, attorno ad una lunghissima stuoia sulla quale vedevansi piramidi gigantesche di frutta, moltissimi gusci di tartaruga contenenti chissà mai quali intingoli e noci di cocco probabilmente piene di bevande spiritose, stavano riuniti quaranta o cinquanta selvaggi.
Ad una estremità era seduto il mutoi semicircondato da una dozzina di mogli. Per l'occasione si era messo sul capo una specie di corona fatta di scagliette di tartaruga riunite con fibre di cocco e si era coperto le braccia e le gambe di conchiglie bianche, di denti di gulù e di braccialetti di peli.
Anche gli altri convitati avevano sfoggiato i costumi di gala. Diademi di penne, braccialetti di tutte le specie, hami ricamati con conchiglie e con foglie di diversi alberi. Dietro a loro poi si affollava l'intera popolazione del villaggio, urlando con quanto fiato aveva in corpo e contendendosi i primi posti. Più lontano, sull'orlo del bosco, ardevano dei fuochi giganteschi, attorno ai quali si affaccendavano due dozzine di cuochi seminudi.
Vedendo comparire il capitano, Michele e Josè, la folla si divise per far a loro posto ed i convitati si alzarono mandando urla di gioia. Tre o quattro anzi, corsero incontro ai bianchi e li condussero dinanzi alla mensa.
Il mutoi, che pareva non stesse troppo male, diede a loro il benvenuto.
— Cominciamo bene — disse Michele. — Questi selvaggi non mi sembrano tanto cattivi come li avevo giudicati a prima vista.
— E sentite che profumo che viene dalla cucina — disse Josè. — Mostrerò a questi selvaggi quanto sia profondo lo stomaco di un marinaio.
— Si faranno di noi una buona opinione, Josè. Ma toh, guarda il monarca che bella cera ha quest'oggi! E sembra molto allegro per di più.
— È già mezzo ubriaco — disse don Pablo. — Domani, caro Michele, farà una ricaduta.
— Gli manderemo delle altre uova, capitano.
Dietro un cenno del mutoi alcuni selvaggi, senza dubbio dei servi o degli schiavi, portarono delle tazze formate con una foglia di cocco ben cucita. Subito i convitati si misero a vuotare i gusci di tartaruga che erano colmi di un liquido verdastro e molto denso.
Don Pablo ed i suoi compagni lo assaggiarono. Era così forte che bruciava la gola.
— Preferisco il namu — disse Michele, tirandosi vicina una noce piena di liquore.
Vuotati i recipienti, i selvaggi si gettarono sulle frutta, divorandole con ingordigia straordinaria. Una parte di esse però, per ordine del mutoi, furono gettate alla folla che se le disputò a pugni ed a calci. Alcuni lottatori caddero addosso ai convitati e tre o quattro altri rotolarono sulle stuoie fracassando le leggere tazze e rovesciando i gusci di tartaruga e le noci di cocco.
— C'è pericolo di farsi schiacciare, — disse Michele, — e anche di prendere qualche calcio sul naso.
— Il primo che mi cade addosso lo concio per bene — disse Josè. — Oh!... Oh!... Che piatto si avvicina?
Due schiere di cuochi si avanzavano verso il desco, portando una dozzina di grandi panieri che mandavano un odore assai appetitoso. Contenevano dodici porci interi, cucinati in forno e circondati da grossi bulbi arrostiti.
La folla si gettò contro i cuochi, ma questi, che erano armati di solidi randelli, la respinsero con una tale grandine di legnate, che più di una testa fu rotta. I porci in brevi istanti furono fatti a pezzi e ogni convitato ebbe una rispettabile porzione. Don Pablo, Michele e Josè, che avevano appena toccate le frutta, lavorarono di mascelle così bene, da destare l'ammirazione del mutoi e dei suoi sudditi.
Dopo quella prima portata vi fu un po' di riposo e una seconda bevuta di liquore.
Ad un tratto verso il bosco scoppiarono urla acute. Quattro schiere di cuochi si avanzavano fra una doppia fila di guerrieri armati di lance e di mazze, portando sei smisurati canestri.
La folla si scagliò verso quella parte e assalì, quantunque inerme, i guerrieri, ma fu subito ributtata lasciando qualcuno molto malconcio sul terreno. I convitati cominciarono ad agitarsi e gridare. Lo stesso mutoi pareva in preda ad una viva eccitazione e faceva segno ai guerrieri di caricare la folla che cercava di sfondare la doppia linea per giungere fino ai cuochi.
— Cosa si avvicina? — si chiese don Pablo, che senza sapere il perché provò una stretta al cuore.
— Che portino dei buoi arrostiti? — disse Michele. — Quei panieri mi sembrano molto grandi.
— Lavoreremo di denti, tenente — disse Josè. — È tanto tempo che non mangio del bue.
I cuochi, sempre scortati dai guerrieri, giungevano allora dinanzi al desco e deponevano i grandi panieri. Don Pablo, Michele e Josè, appena vi ebbero gettato gli occhi dentro, balzarono in piedi mandando un grido di orrore.
Là, in quei panieri, stavano sei uomini, sei polinesiani a giudicarli dalla tinta e dai lineamenti, e quei disgraziati erano stati arrostiti per servire di pasto ai convitati!
— Miserabili! — esclamò Michele, afferrando il suo fucile per la canna e facendolo roteare sulle teste dei suoi vicini.
— È orribile! È orribile! — esclamò don Pablo. — Fuggiamo, compagni, fuggiamo!
Balzarono sopra il desco e si slanciarono verso la folla; ma questa, invece di aprirsi si strinse vieppiù, mandando urla feroci. Quindici o venti guerrieri puntarono le lance contro i fuggiaschi, pronti a ucciderli.
Michele, per nulla spaventato, imbracciò il fucile, ma don Pablo glielo strappò prontamente di mano.
— Che fate, tenente? — gridò. — Volete farvi massacrare?
— Apro il passo, capitano.
— Abbiamo trecento uomini attorno.
In quell'istante il mutoi, facendo uno sforzo che gli strappò un'orribile smorfia, si alzò, e intimato alla folla di tacere, invitò don Pablo ed i suoi compagni a ritornare al desco.
— Obbediamo, compagni — disse il capitano.
— Ma io non mangerò di quella carne — disse Michele.
— Nessuno vi obbligherà. Riprendiamo il nostro posto, tenente!
— Ah! Se avessi venti uomini con me! Ma fuggiremo, ve lo giuro, capitano, dovessi perdere un braccio.
Si sedettero all'orribile desco. Allora cominciò una spaventevole scena fra quei feroci convitati che parevano in preda ad una vera frenesia. Don Pablo, Michele e Josè, nauseati, pallidi, frementi, guardavano senza muoversi, chiedendosi se erano in preda ad uno spaventevole sogno. Quale orgia! Con quale ingordigia quei mostruosi convitati divoravano quei cibi!
Ma il mutoi ad un tratto fu visto vacillare, stralunò gli occhi e cadde all'indietro mandando un urlo acuto.