I naufraghi del Poplador/19. L'isola

19. L'isola

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18. I pescicani 20. Le isole del Grand'Oceano

19.

L'ISOLA


Quello squalo, che il bravo genovese aveva così destramente sventrato, era uno dei più grandi e dei più formidabili. Dall'estremità del capo alla coda misurava undici metri e il suo peso doveva superare i seicento chilogrammi. La sua bocca poi, era spaventevole; era un'apertura di due metri, tutta irta di acutissimi denti. Un uomo vi sarebbe passato colla massima facilità.

— Che bestione! — esclamò don Pablo. — Non ne ho mai visto uno simile.

— Fa paura — disse Josè. — Che bel colpo di navaja, tenente. Gli avete squarciato anche il cuore.

— Lo credo, Josè — rispose Michele. — Ho impiegata tutta la mia forza.

— Ci vuole un bel coraggio per assalire simili mostri.

— Se hanno coraggio gli africani devono ben averne anche i bianchi, vecchio mio.

— Ma gli africani hanno un vantaggio che noi bianchi non abbiamo — disse don Pablo.

— E quale mai?

— Il pescecane non si mostra molto ghiotto della carne nera, Michele, mentre ama assai quella bianca.

— È vero ciò che dite, capitano?

— Si dice, e da uomini degni di fede, che lo squalo preferisce l'europeo, poi l'asiatico e ultimo il negro.

— Però gli squali seguono i vascelli negrieri.

— Non dico di no, anzi li seguono ostinatamente. Narrasi anche che talvolta slanciansi persino sui bordi dei legni, quando si accorgono che i marinai stanno per gettare qualche cadavere in mare. Una volta, non so precisamente in quale parte dell'Atlantico, un feroce pescecane strappò un cadavere che era stato sospeso ad un'antenna alta più di venti piedi dalla superficie del mare.

— Capitano, — disse Josè. — È vero che il pescecane è venerato da talune tribù africane?

— Sì, anzi alcune popolazioni dell'Africa offrono a questo mostro, in certe epoche dell'anno, dei bambini vivi. Ma affrettiamoci a sezionare la nostra preda.

— Ma come conserveremo la carne? Non abbiamo che qualche libbra di sale.

— Se ne incaricherà il sole, che scotta molto.

Si armarono di coltelli e fecero a pezzi la preda la quale aveva un cuore lungo quattro piedi. La carne fu tagliata in lunghe e sottili strisce che furono appese ad alcune corde tese fra la prua e la poppa e sostenute da alcuni remi. Terminato quel lavoro, che richiese quasi tutta la giornata, i naufraghi pensarono ad accontentare il ventre che chiedeva imperiosamente il pranzo.

Michele, dopo qualche smorfia, mise sotto i denti un bel pezzo di carne e quantunque fosse coriacea e di cattivo sapore, la divorò. Don Pablo e Josè, dopo qualche esitazione, lo imitarono.

— Ci abitueremo — disse Michele.

— Lo spero — rispose don Pablo. — Eppoi se mangiano la carne dei pescicani i negri della Guinea, i norvegiani, gli islandesi e gli eschimesi, non so perché non dovrebbero mangiarla anche i messicani.

— Ma la mangeranno cotta però — disse Josè.

— Non tutti, vecchio mio. Ed ora facciamo una buona dormita. Ne abbiamo proprio bisogno.

Si stesero nel fondo del gran canotto, si avvolsero nelle loro coperte e s'addormentarono profondamente.

La notte fu tranquillissima, senza vento e senza onde. L'indomani però, ai primi albori, il vento del nord-nord-ovest incominciò a soffiare con qualche forza sollevando dei lunghi cavalloni che il gran canotto però superava con molta facilità.

Michele, don Pablo ed il mastro si occuparono a pulire l'imbarcazione tutta imbrattata del sangue dello squalo. Erano tutti intenti in questo lavoro, quando udirono in aria un acuto gridio.

— Toh! Degli uccelli! — esclamò il capitano, che aveva subito alzato il capo.

Infatti una grossa banda di volatili dalle penne scure, passava ad una considerevole altezza, dirigendosi verso il sud-sud-est.

— Degli uccelli qui! — esclamò Michele. — Ma allora siamo vicini a qualche terra.

— Forse sono uccelli migranti, tenente — disse don Pablo.

— Che siano uccelli marini?

— Non lo credo.

— Allora si dirigono verso qualche terra.

— È probabile, ma chissà quanto lontana sarà da noi!

— Eppure mi hanno assicurato che di consueto gli uccelli non impiegano più di un giorno nei loro viaggi.

— Può essere vero, ma aggiungerò io che in un solo giorno percorrono degli spazi immensi. I piccioni viaggiatori, per esempio, che non sono i volatili più rapidi, percorrono in media cento chilometri all'ora. Chi mi dice che gli uccelli che or passano non abbiano già percorso un cinque o seicento chilometri e che prima del tramonto non ne abbiano a percorrere altri mille?

— Allora, addio speranze — disse Michele.

— Ditemi, capitano, come fanno a dirigersi gli uccelli, nelle loro migrazioni attraverso i mari? — chiese Josè.

— Sai tu come si dirigono sull'oceano i polinesiani, che talvolta intraprendono sulle loro piroghe dei viaggi di 500 e talvolta di 1000 miglia senza bussola, senza carte e senza cognizioni astronomiche?

— No di certo, capitano.

— Coll'osservare continuamente l'angolo formato dalle loro piroghe colla linea delle onde, le quali onde, in certe epoche, hanno sempre la stessa direzione in causa di venti stabili. Si crede che anche gli uccelli migranti si dirigano così. Senza dubbio, dalle altezze dove volano, essi possono osservare ampie superficie di mare le cui onde non devono a essi apparire disordinate come a noi, ma bensì spiegate in linee parallele. Seguendo queste linee o incrociandole sotto un certo angolo, possono raggiungere la loro mèta senza errare.

— La spiegazione è curiosa, e...

Il mastro non terminò la frase, poiché fu bruscamente interrotto da un acutissimo grido mandato da Michele.

— Cosa avete? — chiese don Pablo.

— Guardate, capitano, guardate dritto la prua del canotto — gridò Michele con agitazione.

Don Pablo e Josè guardarono nella direzione indicata. Là, ove la linea dell'oceano confondevasi col cielo, si vedeva una specie di cono ergersi, d'una tinta leggermente azzurra.

— Terra! Terra!... — urlò il vecchio Josè. — Dio sia ringraziato!

— Sì, quella là è terra — confermò il capitano. — Ai remi! Ai remi!

Michele e Josè si precipitarono sui remi, mentre don Pablo afferrava la barra del timone. Pochi istanti dopo il gran canotto volava sui flutti dell'oceano, spinto innanzi da quattro vigorosi remi.

— Forza! Forza! — gridava incessantemente Michele, arrancando con suprema energia.

— Forza! — ripeteva Josè, che pareva ringiovanito di vent'anni.

Quella specie di cono, che doveva essere il monte di qualche isola, a poco a poco ingrandiva e prendeva una tinta verdastra. In capo ad un'ora apparve la spiaggia, le cui estremità smarrivansi l'una verso il sud e l'altra verso il nord, coperta da una folta vegetazione e riparata da una catena di scogli contro i quali frangevansi le onde, con lunghi muggiti.

Per un'altra buona ora Josè e Michele arrancarono senza dar segni di stanchezza, tanto grande era la loro gioia, poi il gran canotto si cacciò fra gli scogli ed entrò in un piccolo seno, le cui rive erano coperte da superbi alberi. Legatolo solidamente ad una roccia, don Pablo, Michele e Josè, armatisi dei fucili, balzarono a terra.

— Dove siamo noi? — chiese Michele. — Su un'isola o su un continente?

— Senza dubbio su un'isola — disse don Pablo.

— Che sia abitata?

— Chi può dirlo? Vi consiglio tuttavia di non lasciare le armi e di aprire ben bene gli occhi. Forse vi sono dei selvaggi che possono essere antropofaghi.

— E se ne incontrassimo uno? — disse Josè.

— Per Bacco! Sarebbe una vera fortuna — disse Michele.

— Una fortuna! — esclamò don Pablo.

— Sì, capitano.

— E perché?

— Ne faremmo un bravo servitore, una specie di Venerdì di Robinson.

— Io non mi fiderei, tenente — disse Josè. — Avrei paura che una brutta notte mi divorasse una gamba o un braccio.

— Non parli male, vecchio mio — disse Michele ridendo. — Ma dove andiamo ora? Io proporrei di fare una passeggiata sotto questi superbi boschi. Ci devono essere degli animali, e un bell'arrosto mi piacerebbe.

— Accettato, tenente — rispose don Pablo. — Ma occhi aperti e fucile sempre pronto. In cammino!

I tre marinai, col fucile sotto il braccio, gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, si cacciarono sotto gli alberi. La vegetazione di quell'isola sconosciuta era veramente superba! C'erano degli smisurati fichi banani, i cui tronchi, formati da grossi fusti intrecciati, non misuravano meno di trenta metri di circonferenza; dei gelsi papiriferi assai belli, dei palmizi di vago aspetto, dei mori papiriferi giganteschi, degli artocarpi o alberi del pane, le cui frutta in tutta la Polinesia e anche in Malesia surrogano, e forse con vantaggio, il frumento; degli alberi di cocco, dei banani ma intristiti e molti altri che né il capitano né Michele, quantunque avessero più volte approdato nelle isole del Grande Oceano, conoscevano.

Bei pappagalli rossi e verdi cicalavano sulle cime dei grandi alberi, delle upe, volatili grossi come piccioni colle penne verdi, svolazzavano qua e là e dei porci selvatici fuggivano rapidamente attraverso i cespugli.

— Ma quest'isola è un vero paradiso! — esclamò Michele, che respirava a pieni polmoni quell'aria satura di mille profumi.

— Che ci fornirà il necessario per fare un buon pranzo — disse don Pablo. — Ecco là delle noci di cocco che ci daranno dell'acqua eccellente e per di più zuccherata; ecco là un albero del pane che ci fornirà una pasta succolenta e laggiù delle upe che non aspettano che lo spiedo. Mentre io faccio raccolta di frutta, voi sparate qualche fucilata.

— Gli antropofaghi accorreranno — disse Josè.

— Che vengano pure gli antropofaghi — disse Michele. — Arma il fucile, vecchio mio e andiamo a caccia.

Il tenente ed il mastro si cacciarono sotto i cespugli per avvicinarsi ai volatili e don Pablo, armatosi della scure che aveva portato con sé, assalì vigorosamente un superbo albero di cocco che era carico di frutta grosse quanto la testa di un uomo.

Ben presto dopo i colpi di scure si udirono parecchie detonazioni accompagnate da grida di trionfo. I cacciatori non perdevano il loro tempo. Quando ritornarono, carichi di piccioni, don Pablo aveva atterrata la pianta e stava staccando le frutta più belle.

— Che pranzo che prepareremo! — esclamò Michele. — Non manca che il vino.

— Chi lo dice? — chiese don Pablo. — Il vino lo abbiamo.

— Avete scoperta qualche cantina?

— No, ma vi dico che il vino c'è. Ce lo forniranno queste noci di cocco.

— In qual modo? — chiese Josè.

— Vecchio mio, tu non sai quante cose può dare un albero di cocco — disse don Pablo . — Non c'è pianta che renda più di questa. Hai sete? La noce ti dà un'acqua fresca e zuccherata. Vuoi dell'olio? Spremi il gheriglio e ne avrai. Vuoi del vino bianco e inebbriante? Metti il liquido contenuto nella noce al sole e lo avrai. Vuoi del latte? Mescola il liquido colla midolla, filtralo attraverso un panno e l'avrai. Vuoi dell'aguardiente? Fa' distillare il liquido. Vuoi del cibo sanissimo e sostanzioso? Lascia maturare completamente la noce e anche questo l'avrai.

— Ma queste noci sono miracolose!

— Ma questo non è tutto, Josè. I polinesiani colle foglie del cocco fanno delle bellissime stuoie, colla reticella delle giovani frondi fanno delle reti per la pesca, e coi filamenti che avvolgono le frutta, delle corde, delle soffici stuoie e perfino delle vesti. Cosa vuoi chiedere di più ad una pianta?

— E mi farete del vino? — chiese Michele.

— Sì, ve lo farò, ma fra qualche giorno se lo vorrete molto buono.

— Sia pure. Farò una bella sbornia.

— Sarebbe una grande imprudenza — disse don Pablo ridendo. — Se gli antropofaghi vi sorprendessero in simile stato che sarebbe mai di voi?

— E sempre questi antropofaghi fra i piedi!

— Torniamo al canotto a pranzare — disse Josè.

I tre naufraghi carichi di frutta e di uccelli, si diressero verso la spiaggia che non era molto lontana. Lungo la via però fecero anche una buona provvista di frutta d'artocarpo, grosse assai, scabrose al di fuori ma piene dentro di una pasta che arrostita doveva essere eccellente.

Alle cinque del pomeriggio scendevano tutti e tre la spiaggia, presso la quale ondeggiava graziosamente il gran canotto.

Dopo essersi assicurati che nessun oggetto del gran canotto era stato toccato, Michele e Josè, raccolte alcune bracciate di legna secca, accesero un fuoco gigantesco, sufficiente per arrostire un bue intero, indi si misero a spennare i volatili che poi passarono in una bacchetta di fucile. Don Pablo, spogliate le frutta d'artocarpo della loro corteccia rugosa, tagliò la pasta in fette e la mise ad arrostire sui carboni ardenti.