I naufraghi del Poplador/17. Una nave in vista
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17.
UNA NAVE IN VISTA
Durante la giornata il capodolio non si fece più vedere. Senza dubbio, persuaso di non poter più ritrovare i feritori, aveva continuato la sua via verso il nord, in cerca di qualche compagno.
Verso il mezzodì soffiò un po' di vento, ma dall'est, allontanando sempre più il gran canotto dalle già tanto lontane coste americane. Michele tentò bensì di alzare ancora una vela servendosi di una coperta, colla speranza, correndo bordate, di guadagnare alcune miglia, ma dovette in breve rinunciarvi per l'imperfezione delle manovre.
— Tutto è inutile, tenente — disse don Pablo. — Bisogna dare un addio all'America e volgere la prua verso qualche altra terra.
— Ma che non si riesca a spuntarla? — disse Michele un po' irato.
— Ci vorrebbe una macchina a vapore.
— Dove trovarla? O come costruirla? Se continua a soffiare il vento dall'est e colla corrente che ci porta pure all'ovest, andremo a dar di cozzo...
— Contro qualche isola della Polinesia.
— Ecco una cosa che mette i brividi.
— Perché, Michele?
— Vi piacerebbe forse terminare la vostra vita infilzato in uno spiedo o in un tegame colla salsa verde? Nella Polinesia vi sono ancora certe persone che hanno il brutto gusto, di mangiare i poveri diavoli che l'oceano spinge sulle loro isole.
— Ma vi sono anche delle isole incivilite, Michele. Le Sandwich, per esempio.
— Ma la corrente ci porterà verso le Sandwich?
— Non lo so, questo.
— Credete che abbiamo passato l'equatore?
— Non ho visto ancora la Croce del Sud.
— Tenente — disse in quell'istante Josè. — Guardate che magnifico spettacolo!
Michele si volse. Una numerosa banda di pesci-volanti s'alzava sull'oceano, sfiorando le onde.
Era qualche cosa di bello vedere quei bei pesci slanciarsi fuori dall'acqua, vibrare rapidissimamente le pinne, poi tenerle aperte come fanno i falchi e percorrere una distanza talvolta superiore ai duecento metri, mantenendosi ad un'altezza di settanta od ottanta centimetri.
Quei pesci parevano in preda ad un vivissimo panico. Infatti, appena toccata l'acqua, con una vigorosa vibrazione della coda tornavano subito ad alzarsi, con un angolo acutissimo, e ripetevano sempre la manovra.
— Qualche vorace pesce dà la caccia a quei poveretti — disse don Pablo.
— Sapete cosa mi sembrano quei exocoetus? — disse Michele. — Dei lunghi uccelli con quattro ali.
— Infatti tengono aperte anche le pinne centrali. Non credo però che queste siano di molto aiuto.
— Ehi, Josè, quei pesci sono eccellenti, se tu nol sai — disse Michele. — Cerchiamo di pigliarne qualcuno pel pranzo.
Il tenente e il vecchio lupo di mare spinsero il gran canotto verso i pesci, ma questi non si lasciarono prendere. Cambiarono subito direzione e si allontanarono verso il sud e così rapidamente che in breve tempo non furono più visibili.
Nella notte vi fu un salto di vento che cacciò il gran canotto verso l'est, ma l'indomani il vento soffiò dal nord-nord-est con una certa violenza, trascinandolo verso il sud-sud-ovest. E da quel giorno si mantenne così con una ostinazione strana, allontanando sempre più i disgraziati superstiti del Poplador dalle coste americane.
Il capitano, Michele e Josè, man mano che i giorni passavano, diventavano sempre più inquieti. Le provviste calavano a vista d'occhio e invece di avvicinarsi alle terre abitate venivano sempre più spinti in mezzo al Grande Oceano, colla probabilità di terminare il viaggio su qualche isola selvaggia.
Il 15 maggio un avvenimento inatteso accadde sull'oceano. Il sole calava lentamente all'occidente tingendo di rosso i flutti, quando Michele che stava seduto a poppa, facendo il suo quarto di guardia, scorse verso il nord un sottile pennacchio di fumo. Un grido gli irruppe tosto dalle labbra.
— Una nave! Una nave!...
Don Guzman e Josè, che sonnecchiavano in fondo al gran canotto, balzarono subito in piedi.
— Dov'è? — chiese il capitano con ansietà.
— Guardate laggiù — disse Michele. — Non vedete quel fumo?
— Sì, sì, lo vedo.
— È un piroscafo, don Pablo.
— O un vulcano? — disse Josè.
— Non è possibile, mastro — disse Michele. — Quel fumo esce dal camino di una nave a vapore.
— Ai remi, ai remi! — gridò don Pablo. — Forse quel vascello viene verso noi.
Michele e il vecchio lupo di mare afferrarono i remi, mentre il capitano si metteva alla barra. Il gran canotto si diresse verso il nord con una notevole velocità.
Ben presto, sotto quel pennacchio di fumo si scorse un punto nero che a poco a poco prese la forma di un bastimento di non piccola portata, attrezzato a brigantino, a quanto pareva.
Veniva dal nord e si dirigeva verso il sud-ovest, ma non doveva passare vicino al gran canotto.
— Arranca, Josè! Arranca! — gridò Michele. — Si tratta della nostra salvezza.
— Bisogna spiegare qualche cosa — disse don Pablo.
Prese una coperta, la legò ad un remo e l'alzò più che potè, facendola ondeggiare. Il piroscafo non era allora che a sei o sette miglia, ma continuava la sua rotta.
Senza dubbio gli uomini di bordo non avevano ancora scorto il gran canotto.
— Presto! Presto! — gridò don Pablo.
Michele e Josè raddoppiarono gli sforzi. Il gran canotto avanzava con furia, fendendo le onde, ma non poteva gareggiare col piroscafo che filava come un uccello.
Don Pablo gettò tre tuonanti chiamate, ma senza alcun esito. Il piroscafo continuava il suo cammino e ormai si allontanava mantenendo sempre la rotta sud-ovest.
— Maledizione! — urlò Michele.
— Tutto è ormai perduto — disse Josè, gettando il remo nel canotto.
— Non ancora — gridò don Pablo.
Afferrò il fucile, l'armò e fece fuoco.
Tutti tesero gli orecchi rattenendo il respiro, ma nessuna detonazione si udì. Michele e Josè. scaricarono pure i loro fucili, ma senza miglior esito.
Il piroscafo, che pareva avesse molta fretta, proseguì la sua strada e in breve tempo sparve sull'orizzonte.
— Non abbiamo fortuna! — esclamò Michele, con collera.
— Si direbbe che il cielo è contro di noi — disse don Pablo.
— Ma che non ci abbiano veduti? — chiese Josè.
— È probabile, amico — rispose il capitano. — Quel piroscafo era lontano sette od otto miglia per lo meno.
— Ma da dove veniva?
— Forse da qualche porto della Cina e forse da qualche isola del Grand'Oceano.
— Come filava bene! — esclamò Michele. — Pareva un uccello marino. Ah! La gran bella invenzione è stata quella dei battelli a vapore.
— E a chi si deve il merito? — chiese Josè.
— A Roberto Fulton e Stevens — rispose don Pablo. — Ma prima di questi, molti altri avevano costruito dei battelli. Anzi, se si deve credere alle vecchie cronache, i primi tentativi risalirebbero nientemeno che ai tempi di Carlo V.
— Ai tempi di Carlo V! — esclamò Michele.
— Sì, tenente. Dicesi che nel 1543 un capitano spagnolo, certo Blasco di Garey, inventasse una macchina da applicarsi ai battelli per rimorchiare le navi attraverso i passaggi difficili. Si aggiunge anzi, che il suddetto capitano fece vedere a Barcellona, a Carlo V, una nave di 200 tonnellate, camminare colla macchina che aveva inventata.
— E perché si abbandonò la grande scoperta?
— Per colpa dell'Inquisizione che in quella macchina vedeva una diavoleria.
— Ma era a vapore?
— Le cronache non lo dicono, Michele.
— E chi riprese dopo il tentativo?
— Papin, un grand'uomo, ma che non aveva fortuna. Nel 1707 costruì un battello che camminava solo, ma i battellieri del Weser, temendo che ciò arrecasse a loro molto danno, glielo distrussero. Lo sfortunato inventore si scoraggiò tanto che non volle più ritentare la costruzione della macchina. Quella era stata la prima spinta. Due celebri meccanici inglesi, Dikens e Hulls, nel 1736 si misero all'opera. Il primo non riuscì, ma il secondo trovò che la macchina a vapore Newcomen potevasi applicare ad un battello. Espose il suo progetto all'ammiraglio inglese, ma questi, incredibile a dirsi, ebbe il coraggio di dire che quell'applicazione non poteva essere di alcuna utilità.
— Che ammiraglio cretino! — esclamò Michele.
— Anche il duca di Bredgewaters e Gautier tentarono di fabbricare un battello a vapore, ma l'impresa andò fallita. Fu allora che l'Accademia delle Scienze di Parigi offrì un premio a chi presentava una macchina capace di supplire il vento. Daniele Bernouilli propose l'applicazione della macchina Newcomen e vinse il premio, ma non fece alcun esperimento. Dopo di lui Watt e Perier fecero dei tentativi, ma senza buoni risultati. Nel 1772 il conte Ausciron e Monin di Follenoi costruirono un battello con la macchina Watt e lo vararono dall'isola dei Cigni. Nel 1776 il marchese Jouffroy varò sul fiume Doubs un battello a vapore di piccola portata e lo fece navigare. Incoraggiato da questo primo risultato, ne costruì un secondo nel 1783, ma assai più grande, e si recò da Saona a Lione senza incidenti. Allora cercò dei capitalisti, ma non fu fortunato; cercò di ottenere il brevetto d'invenzione, ma fu deriso, schernito e chiamato persino intrigante, dall'Accademia delle Scienze di Parigi. Ottenutolo finalmente, costituì una società, ma questa fallì e sedici anni dopo il povero marchese, ridotto in miseria, moriva all'Ospizio degli Invalidi di Parigi!
— Che disgraziato! — esclamò Michele. — E tutti così! Si vede che erano perseguitati dalla fatalità. Continuate, don Pablo.
— Nell'America settentrionale era sorto Pitch, un orologiaio di Filadelfia. Propose, nel 1787, a Washington, allora presidente, la costruzione di un battello a vapore. Ne fece uno e lo varò nelle acque del Delaware. Cercò dei capitalisti e li trovò, ma il battello che costruì scoppiò. Si unì allora a Thornton ed un nuovo piroscafo fu costruito nel 1792, il quale filò 129 chilometri, ma i capitalisti non ne vollero sapere. Il povero Pitch venne in Europa, ma non ebbe fortuna, e tornato a Filadelfia si suicidò precipitandosi nel Delaware.
— Un altro infelice!
— A Pitch tennero dietro Lewingston, Kriwley, Rooswell e Miller e finalmente Stewens e Roberto Fulton. A questi due ultimi spetta il merito della grande invenzione. Fulton, dopo mille avventure, varò il vapore Clermont nelle acque dell'Hudson il 10 agosto 1807, facendolo filare 6 chilometri all'ora e intraprese un regolare servizio fra New-York e Albany. Stevens varò la Fenice recandosi da New-York a Filadelfia. Così la grande scoperta fu assicurata.
— Ma quanti disgraziati prima! Ah se potessi inventare anch'io una macchina che spingesse innanzi il nostro canotto!
— Ma non abbiamo carbone, tenente.
— Ma io vorrei inventare una macchina che funzionasse senza fuoco, capitano. Ci penserò.
Il 16 il cielo si oscurò e il vento crebbe, ma soffiando ancora dal nord-nord est; l'oceano divenne agitatissimo e parecchi colpi di mare saltarono nel canotto, bagnando le scarse provviste e gli uomini.
Il 17 il tempo peggiorò. Montagne d'acqua percorrevano l'immenso oceano con lunghi muggiti e colle creste coperte di spuma. La Giovane Italia faticava assai, si dondolava spaventosamente imbarcando ad ogni istante acqua e veniva ora slanciata verso le nubi che correvano disordinatamente pel cielo ed ora precipitata furiosamente negli avvallamenti delle onde, con grande pericolo di non uscirne più. Verso sera cadde anche una pioggia diluviale che tornò molto utile ai naufraghi poiché poterono così rinnovare la loro provvista d'acqua dolce che era già quasi finita.
Verso la mezzanotte un foltissimo colpo di vento squarciò la massa dei vapori e apparve il cielo stellato. Don Pablo cercò subito la stella del nord per orientarsi, ma subito un grido gli sfuggì.
— Cosa avete? — chiese Michele, che stava alla ribolla del timone.
— La stella del nord è scomparsa — disse il capitano con voce tremula.
— Scomparsa!... Ma allora...
— Guardate laggiù, Michele.
— Ah, la Croce del Sud!...
— Sì, la Croce del Sud.
Infatti, fra due gigantesche nubi, scintillava in cielo quella superba Croce del Sud che è solamente visibile nell'emisfero australe e che è fissa come la stella del nord. I tre naufraghi, nel contemplarla, provarono una stretta al cuore.
— Gran Dio! — mormorò don Pablo. — Dove andiamo noi?
— Ma quando abbiamo passato la linea equatoriale? — chiese Josè.
— Ieri, o l'altro ieri senza dubbio — rispose Michele.
— C'è dunque una forte corrente che ci trascina continuamente verso il sud?
— Anche il Grande Oceano ha il suo Gulf-Stream, Josè.
— Ma dove andremo a finire noi?
— Su qualche isola di selvaggi.
— I quali selvaggi ci metteranno allo spiedo.
— Bah! Forse a quel tempo noi saremo diventati così magri da non meritare tanto onore — disse Michele ridendo.
— Ci ingrasseranno, tenente.
— Ebbene, ci lasceremo ingrassare.
Il cattivo tempo non cessò nemmeno il dì seguente. Il vento continuò a soffiare con estrema violenza, mantenendo l'oceano agitatissimo e la pioggia tornò a cadere accompagnata da lampi e da formidabili tuoni.
Il 22 maggio, mastro Josè annunciava al capitano che i viveri stavano per mancare. Non rimanevano che pochi chilogrammi di biscotto fracido, tre scatole di conserve e un po' di carne secca. Quella notizia sgomentò anche Michele.
— Saremo costretti a mangiarci? — mormorò il genovese, diventato pensieroso.
Don Guzman decise di ridurre la razione e nei giorni seguenti la ridusse ancora, ma venne finalmente il giorno in cui i viveri mancarono.
Il primo giugno, alle dieci del mattino, i superstiti del disgraziato Poplador, che da quattro giorni soffrivano le torture della fame, divoravano l'ultimo biscotto.