I naufraghi del Poplador/13. La vendetta del capitano

13. La vendetta del capitano

../12. Mastro Josè ../14. La tempesta IncludiIntestazione 20 novembre 2017 75% Da definire

12. Mastro Josè 14. La tempesta

13.

LA VENDETTA DEL CAPITANO


Nella batteria regnava un'oscurità profondissima e un silenzio quasi perfetto. Non si udivano che le onde che venivano ad infrangersi, con sordo fragore, contro i fianchi del vascello.

Josè, dopo aver ascoltato attentamente, s'avvicinò ad un sabordo e guardò fuori.

— Vedi nulla? — gli chiese don Guzman, sottovoce.

— L'oceano è deserto — rispose il vecchio lupo di mare.

— Si vede il gran canotto?

— Sì, capitano. Segue la nave a cinque o sei metri di distanza.

— Hai una fune?

— L'ho nascosta ieri mattina sotto un cannone.

— Va' a prenderla.

Il mastro si allontanò senza far rumore, e poco dopo ritornò con una lunga corda a nodi. Legò un capo alla culatta di un grosso pezzo d'artiglieria e gettò l'altro in mare.

— Tutto è pronto, capitano — disse poi.

— Attendetemi un istante — disse don Guzman.

— Dove andate, capitano?

— A vendicare i morti — rispose il messicano con terribile accento. — Del Richmond, non rimarrà un'antenna intera.

— Capitano!...

— È giustizia, Josè.

Impugnò il coltello, attraversò con passo fermo la batteria e scese nella santabarbara.

— Ah, tenente! — mormorò Josè. — Ho il cuore che mi batte in modo tale, che mi sembra voglia scoppiare.

— Tu, un lupo di mare — disse Michele.

— Gli uomini che stiamo per far saltare, gli ho avuti per tanti anni sotto di me, tenente.

— Al Messico i ribelli si fucilano e i pirati si appiccano, Josè; meritano quindi due volte la morte, gli uomini che tu ora compiangi. D'altronde è necessario sbarazzarsi di quei manigoldi, che domani senza dubbio ci appiccherebbero. E poi, credilo, Josè, noi rendiamo un grande servizio all'umanità.

— Quale servizio?

— Tu sai che i pirati macellano spietatamente gli equipaggi delle navi che predano. Facendoli saltare in aria, noi risparmieremo delle centinaia e forse delle migliaia di vite umane.

— È vero, tenente.

— Ecco il capitano.

Don Guzman infatti saliva la scaletta che conduceva nella santabarbara. Era un po' pallido, ma non tremava.

— Ebbene? — gli chiese Michele, muovendogli incontro.

— La miccia è accesa — rispose don Guzman con voce ferma.

— Quanto durerà?

— Pochi minuti: affrettiamoci.

— Scendete, capitano.

Don Guzman afferrò la fune e si calò in mare. Michele e Josè lo seguirono subito.

— Attenti al gran canotto — disse il capitano, nuotando lungo il fianco della nave.

— Ed ai pescicani — aggiunse Josè. — Forse qualcuno segue il vascello.

— Dei pescicani m'incarico io — disse Michele.

Il Richmond che veleggiava con qualche rapidità, un po' inclinato a babordo, in breve passò. Subito apparve il gran canotto che era legato a poppa con una fune piuttosto lunga.

Don Guzman con due vigorose bracciate lo raggiunse, vi saltò dentro e con un colpo di coltello tagliò subito la fune.

— Attento, Josè — disse Michele, aggrappandosi al bordo del canotto. — Mi sembra di aver veduto la testa di un pescecane.

— Affrettatevi — disse don Guzman.

I due messicani, facendo forza di braccia, entrarono nell'imbarcazione, la quale oscillava violentemente sotto le ondate dell'oceano. Gli occhi dei tre fuggiaschi si fissarono sul vascello il quale s'allontanava colla velocità di quattro o cinque nodi all'ora. Vicino al fanale di poppa scorsero alcuni uomini curvi sulla murata.

— Ehi! — gridò ad un tratto una voce. — Non vedo più il gran canotto.

— È impossibile che si sia rotta la gomena! — grido un'altra voce. — Era nuova e grossa come il mio pollice.

— Eccolo laggiù, il gran canotto! — gridò una terza voce.

— Viriamo di bordo.

— Alle vele, camerati!

I tre messicani avevano perfettamente udito quei discorsi.

— Ai remi! — gridò don Guzman, prendendo la barra del timone. — Coraggio, amici.

Il tenente e il mastro presero i remi e spinsero innanzi l'imbarcazione, dirigendola verso l'est. Il Richmond virava allora di bordo a seicento passi.

— Degli uomini nel gran canotto! — gridò una voce.

— Sono i prigionieri! — gridò un'altra.

— Chiamate Hearney!

— Prendete i fucili!

— Tutti alle vele!

— Coraggio, amici! — gridò don Guzman.

Tre o quattro fucilate scoppiarono sul ponte del vascello. Una palla fischiò agli orecchi di Michele.

— Grandina — disse il bravo genovese, ridendo. — Arranca, Josè, arranca!

Il Richmond, terminata la bordata, aveva messa la prua in direzione del gran canotto e s'avvicinava rapidamente. Sul suo ponte s'udivano i ribelli a gridare e bestemmiare.

Già non distava che quattrocento passi dai fuggiaschi, quando la santabarbara scoppiò con orribile frastuono. Una fiamma immensa si slanciò verso le nubi illuminando l'oceano e le tenebre, scagliando a destra ed a sinistra, dinanzi e di dietro, migliaia e migliaia di tizzoni, di frammenti d'alberi e d'antenne, cannoni, attrezzi, palle, armi, ribelli e casse e barili che caddero in mare ad una grande distanza.

Per alcuni istanti un'immensa nube di fumo avvolse ogni cosa, poi, dileguatasi un po', apparve il Richmond orribilmente squarciato, senz'alberi, senza murate, senza ponte. Dai fori entrava l'acqua a torrenti con sinistri fragori. Don Guzman, Michele e Josè, pallidi per l'emozione, erano saltati in piedi abbandonando i remi.

Il Richmond stava per affondare. Oscillava violentemente da prua a poppa, con lunghi scricchiolii che parevano i rantoli d'un moribondo e si immergeva sempre più.

Ben presto l'acqua invase la batteria rovesciandosi giù per gli squarciati sabordi, poi invase le cabine di poppa, poi quelle di prua, salì ancora e finalmente apparve sulla coperta e montò sulle murate, sul castello e sul cassero. Pel povero vascello era finita.

D'improvviso si rovesciò sul tribordo con un formidabile scroscio, girò su se stesso, innalzò ancora una volta la poppa, sulla quale ondeggiava il vessillo della repubblica, indi sparve nella cupa massa delle acque, formando un vortice gigantesco che assorbì quanti rottami ancora galleggiavano. I messicani erano vendicati!

Né don Guzman, né Michele, né Josè si erano mossi, dopo la scomparsa del vascello. Curvi sulla prua del gran canotto, coi visi pallidi, le fronti bagnate di un freddo sudore, il cuore stretto, guardavano ancora il luogo ove era scomparso il legno. Sembravano atterriti e pareva che ascoltassero attentamente, forse colla speranza di udire un grido, un gemito, un rantolo.

— Fuggiamo, fuggiamo! — esclamò ad un tratto don Guzman, scuotendosi. — Questo luogo per tanto disastro mi fa orrore e paura.

Poi si lasciò cadere sul banco di prua e si nascose la faccia fra le mani, mormorando con voce spezzata:

— È orribile!... È orribile!...

Michele e mastro Josè si guardarono in viso all'incerto chiarore degli astri.

— Eppure è giustizia — disse il primo.

— Partiamo, tenente — disse il secondo. — E che Dio ci perdoni.

Un venticello fresco soffiava dal settentrione, corrugando lievemente la vasta superficie dell'oceano che era tornata tranquilla. Bastava spiegare un lembo di tela per allontanarsi da quei paraggi.

Michele e il vecchio lupo di mare si misero tosto all'opera. Il gran canotto, oltre una buona quantità di viveri, conteneva una attrezzatura completa da cutter. Rizzarono l'albero, spiegarono la randa che era altissima, vi aggiunsero una trinchettina e assicurarono a prua un piccolo ma solido bompresso che poteva portare due flocchi.

— Dove andiamo? — chiese Josè, quand'ebbe terminato.

— Quale era la posizione del Richmond? — chiese Michele, sedendosi alla barra del timone.

— A mezzodì navigava a centosessanta miglia dalle Revilla Gigedo — rispose Josè. — Ora saremo lontani duecentoventi miglia all'incirca.

— Metteremo la prua all'est. Hai fatto imbarcare una bussola ed un sestante?

— Ho nascosto l'una e l'altro in una cassa di biscotti.

— Dammi la bussola.

Josè esaminò le casse imbarcate e ne aprì una. Ad un tratto mandò un urlo di rabbia e di disperazione.

— Cos'hai? — chiese don Guzman rialzando la testa, che fino allora aveva tenuta nascosta fra le mani.

— I miserabili hanno cambiato la cassa! — disse Josè con voce strozzata. — Stanno bene in fondo all'oceano!

— Taci, Josè — disse don Guzman.

— Ci hanno rovinati, capitano. Non abbiamo più né bussola, né sestante.

— Per le corna di centomila diavoli! — gridò Michele. — Anche questa birbonata dovevano commettere! Eccoci in un bell'imbarazzo.

— Una bussoletta l'ho io — disse don Guzman, levandola dal taschino del panciotto.

— A cosa potrà servirci quella?

— Ci dirigeremo come meglio potremo, Michele.

— Ma non sapremo mai dove saremo. Cane di Hearney! Scommetto la mia testa contro una piastra, che fu lui a levare i due istrumenti. Ma non riderai più, mio caro; ti auguro il ventre di un pescecane per cassa mortuaria.

— Non scoraggiatevi, Michele.

— Non perdo il coraggio, capitano. Son ben risoluto di tornarmene al Messico, dovessi navigare un anno intero e soffrire ogni quarant'otto ore la fame e la sete. Mi dispiacerebbe però di tornare là, a guerra finita.

— Mettete da una parte questa speranza, Michele. Forse a quest'ora la pace è stata firmata.

— E chi avrà vinto? — chiese mastro Josè.

— Gli yankees, mio buon Josè — rispose don Guzman, con un sospiro. — Quando abbiamo lasciato il Messico, la sola capitale era in grado di opporre resistenza.

— Dannati yankees!

— Povera patria! — mormorò don Guzman, con voce triste.

Nel gran canotto regnò per alcuni istanti un penoso silenzio. Michele fu il primo a romperlo.

— Capitano, pensiamo un po' anche a noi — disse. — La nostra posizione non è certo migliore di quella dei nostri compatrioti.

— Avete ragione, tenente.

— Cosa dobbiamo fare?

— Josè ha detto, se non erro, che ci troviamo a circa duecentoventi miglia dalle Revilla Gigedo. Mettiamo la prua all'est e cerchiamo di mantenerci sempre in questa direzione.

— Quanti giorni impiegheremo a giungervi?

— Parecchi giorni di certo, Michele, poiché ben di rado troveremo il vento favorevole. Di più avremo da lottare contro la corrente, che cercherà di trascinarci al sud. Quanti viveri abbiamo, Josè?

— Ho fatto imbarcare due barili d'acqua, due di carne secca e tre casse di biscotto. Potremo tirare innanzi un mese.

— A tutto questo aggiungeremo qualche pesce — disse Michele. — Nelle mie tasche devo avere qualche amo e mi metterò a pescare.

— E potremo fare qualche fucilata contro qualche squalo — aggiunse Josè. — In quella cassa ho fatto mettere tre buoni fucili ed una buona provvista di munizioni.

— Possiamo poi incontrare qualche nave — disse Michele. — Non sono molti i vascelli che dalle coste dell'America centrale si recano nel Giappone o nella Cina, ma qualcuno ci va. Bah! La nostra situazione non è poi tanto brutta come pareva a prima vista.

— Capitano, — disse Josè, — un legno senza nome non ha fortuna, e il nostro canotto non ha alcun nome.

— Ne daremo uno.

— E quale mai?

— Il nostro amico Michele non è messicano, eppure tanto ha fatto per la repubblica messicana, Josè. Al nostro canotto daremo un nome che ricordi all'amico nostro la sua generosa patria.

— Ah capitano! — esclamò Michele.

— Tenente, il nostro canotto da oggi si chiamerà la Giovane Italia. Che questo nome porti fortuna alla vostra disgraziata patria ed a noi.

— Viva la Giovane Italia! — urlò mastro Josè, scoprendosi il capo.

— Grazie, amici, grazie — disse Michele con voce commossa. — Lasciate che gridi anch'io: Viva la Giovane Italia! E anche viva il Messico! Tuoni e fulmini! Io sono commosso! Grazie, don Guzman; grazie, mio vecchio Josè.

— Ora, — disse don Pablo, — che due di noi dormano. Non bisogna stremare le nostre forze.

— Io monterò il primo quarto di guardia — disse Michele.

— Lo farò io se mi permettete, tenente.

— No, Josè, no. Questo onore spetta a me, ora che si naviga sulla Giovane Italia.

— È giusto — disse don Guzman.

Michele si sedette a poppa, alla barra del timone. Don Guzman e Josè orientarono le vele, indi si sdraiarono nel fondo del canotto, avvolgendosi in una coperta che il lupo di mare aveva tolto da una cassa. Pochi istanti dopo la Giovane Italia, guidata dalla robusta mano del genovese, scivolava rapidamente sui neri flutti del Grand'Oceano, colla prua volta all'est.