IV. Luna piena

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III V


Oui, Pierrot, enivré de gloire, d'applaudissmente et de triomphes,
tirait la savate avec Arimane et donnait des renforcemente
à Oromane, sans respect pour la flamme bleue de son diadème:
il tratait comme on traite de simples gamins les Simboles de
la comogonie de Zoroastre et les Mythes du ZendAvesta.
THEOPHILE GAUTIER.


Notte a Parigi dopo una bella giornata di Maggio. La Luna sale in cielo piena e lucente; delle nuvole bianche le si rischiarono in torno. Da un ponte ideale sopra la Senna, Pierrot distingue tutto il confuso e bruno panorama della Città. I Boulevards e le vie sono disegnate dalla riga tremula e gialla delle lampade. Alcune finestre sembrano rossi occhi lucidi, poveri occhi ammalati, inutilmente spalancati nell’oscurità e nel mistero. Molti pensieri si suscitano, si compensano, si rifiutano nel cervello della Maschera: dalla balaustrata vede l’acque passare sotto le pile; dal ponte, le case, le torri e le basiliche: ciascuna cosa si riflette dentro di lui e sorgono imagini. Egli vede Sè stesso nella Città e l’Istoria ed i Sogni: vede una fatale combinazione di fatti e di idee. Per questo Pierrot sogna, pensa ed opera mutamente così.

 
Tondo d’argento, se tu fossi slabrato ad oriente,
tondo vagolo e pieno di mestizia,
ed a nuove avventure per la puerizia e per la pudicizia
cavalcasse in Parigi (triste ragione per le cose buone)
quella magra figura del manchese;
non dalle torri di Notre Dame a notte,
quando calan li spiriti saccenti, pruriginosi a frotte
di sopra al capezzale di Don Claudio Frollo,
ei ti avrebbe invocata, morione celeste di Mambrino?
M’assomiglio a costui; non che pretenda coprirmi la testa
della Luna, ma assurgere alla festa di seder nella Luna
a concistorio, tra uno stuolo canoro di Pierrettes,
Mastro alla danza e Presidente bianco
sopra l’argenteo banco,
vicino alla prescelta, alla più bella.
Per or godo la terra
Alita cortigiana, alita dispensiera qui nell’ore
dopo calato il Sole; n’è un profumo di muschio,
v’è un sito di sudore, un irritar di polvere,
un denso fermentar dalle cloache:
per ciò sei la feconda, per ciò sei verde e ricca,
per ciò dei fiori sorgono che assomigliano a labra,
dei fiori epicurei e dei fiori pitocchi:
alita, bruna Gea, rinserrata tra le cinte ed i forti,
sotto ai palazzi, le chiese e le caserme,
tutte cose rafferme in una mota,
fin che le scuota,... ah, ah, la volontà di Dio!
Dio e San Luigi e pur la Nave che rulla e batte ancora
il Mare tormentoso, come nel tuo Blason, vecchia Parigi;
ed i Gilii dorati, alla trimurti succeduti plebea
dei Colori sbracati, ed a questi un grifagno
Sparviero ed una Pecchia,
t’hanno condotto lungo, una vieta istoria,
per terminar nel legaccio di calza catalana
d’una cavallerizza Contessa di Teba.
Olozaga fa il mastro nella reggia e presenta a Luigi Buonaparte
il lancier don Ramiro, frutto non dichiarato
dell’amor morganatico d’un tempo
colla bella Eugenia; Bacciocchi, nuovo conte, ride e strizza
l’occhio volpino al compar che si stizza;
e i cortigiani inchinano le terga.
Così Rodin sconciato intende lacci alla imperiale fregola,
e i Gesuiti instaura a Palazzo. I Monaci di Spagna umilmente
gli mandano Claret; mentre suor Patrocinio s’impostura
di stigmate alle mani, predica e turba Isabella di Spagna
d’un luttuoso avvenimento, odorando il mal tempo,
’ella tentenna tra un Serrano e un Marfori.
Morny che bacia all'Opèra Comique ed abboraccia intrighi
per i Cafès Chantants e pei Vaudevilles, al fratello uterino e adulterino
sorride in cortesia d’un bell’atto squisito e gli prepara,
dentro la bara, l’imperial repubblica legata.
E alla farsa «Monsieur de Choufleury», l’elegante Morny
la farsa buona e rossa ci congiunge, e Persigny-Fialin,
sozzo sergente, e Saint-Arnaud, misterioso e cupo,
e Magnan e Mocquart vengono a stuolo
e si lisciano i baffi, sciacalli sopra al popolo,
come sciacalli sui douars d’Algeria. Alla cuccagna!
Al Tempio e a Saint Martin romba il cannone;
ed i morti innocenti, e le fanciulle, e i bimbi; ladri, ladri!
Oh, oh! La piova decembrina su Lutezia, piova di sangue e fango
al fuggitivo dalla torre d’Ham, nel tradimento;
e, tra la ria canaglia, la piova di mitraglia: ecco l’impero;
alla cuccagna! Dall’Invalidi stende lo Zio lo scettro
arrugginito e dona un’astuzia di serpe e un braccheggiare
d’ipocrito bastardo (egli perdona) all’imperial nipote,
col riscatto feroce e la sottomissione al vecchio altare.
O biondina d’Albione, Howard, le lucide sterline patrie
appianano la via al divenire, come il mentire
segna di mille rughe sulla fronte il corso cavaliere,
ed il pensiero del tradimento si ricollega al fingere d’amore,
Sofia, frigido fiore, Sofia camelia.
Queste camelie del Secondo Impero! —
Oh bella Notte pazza di Parigi, sono una povera e bestemiata
istoria plebea; l’epica cerco tra i cancans dell'Orfée aux Enfers;
e se sventola la stola di Medea Rejane, tragicamente greca;
non la bionda Judic ripete il ritornello dei Lampions?
Non fummo sempre strambi su, a Montmartre; la Butte
impende alle Torri ed ai Domi e più vicina al cielo
vede forse le cose senza velo, o pur lacera il velo delle nubi
di un anarchico gesto? Di codesti misteri io m’accontento un poco;
come per i verzieri delle favole vado per giuoco.
Chi mi comprende qui? Sono sciocchezze.
Colombina e Arlecchino nel giardino di Cassandre
devastano le pere saporite; Momus sbraita ed assorda
coi campanelli fessi e distonati; eloquente Pierrot,
parlo a gesti per l’altri e per me stesso improvviso monologhi,
quando nessun più m’ode: ma il Volgo, il mio uditorio,
ha perduto il perchè della mia sigla, ha perduto la chiave del simbolo;
solo un poeta intende ed un sapiente. Il Mistero!
Oh Pantomima tragedia dell’Uomo,
Pantomima tragedia della Vita: noi siamo un’invertita
caterva d’Eroi. Guardate me; Pierrot!
Pallido, fragile, stanco, morente,
schiavo antico alle verghe, un insistente grido muto
disferro in sui festini: ironia della pancia che si lagna,
proletario sfuggito dalla ragna d’ogni qualunque religione,
e libera ragione. A me, Pierrot.
Sono il bimbo lasciato per le vie nel fango dei rigagnoli;
sono l’inzaccherato; son lo stridulo nato
dall’assassino e dalla prostituta: zan! il coltello lucido
della rossa comare: zan! sopra al collo.
Sto nelle dubbie feste al lupanare di questa civiltà,
e innamoro le Vergini avariate colle speranze rare
di chi forse verrà; sono un mendico d’amore e di fame
che il pasciuto condanna, son la paura eterna all’impostura
di chi piange per burla. E sarò forse il Mago galileo
tornato sulla Butte, l’agnello senza macchia, bianco, bianco
come la neve, ma non come la neve di Parigi:
e come un dì il Bastardo dell’Angiolo biondo; come l’Uomo
azzurro che viaggiò sull’onde del mare, io, l’Uomo nuovo...
e bene, e poi,... io non sarò nulla.
Gautier porge la mano a Champfleury per un Pierrot
Valletto della Morte; ai Funambules, Théodore de Banville
s’acconcia a’ miei sgambietti e dà la rima,
ritta giuocoliera sul filo di seta,
raggiando fiamme d’intenzion secreta.
Pure la nostra orchestra ha abbandonato le rosse trombe, Amici,
e Getry piagnolone si lamenta sui violini ed i flauti
della lenta agonia sospirosa: or mai dietro a una trina
nera si vela il viso capriccioso ed affanna la bocca piccolina
e l’occhi lagriman, la Pantomima...
Via, via; sono senza pietà: irrito ed avveleno la mia infermità;
voglio odorar le camelie ammalate,
e Violetta, ed ascender per la notte;
amo i liquori dolci e profumati e l’insalate russe,
come una Dama isterica; adoro le pralines
sotto ai miei denti schricchiare, vetro saporoso, e ridere,
ed i fondants, baci e carezze voluttuose al palato, come Niniche
Colombina le tonde melarancie. Numeri e Sogni!
Il Voyou non mi conosce più e la raffinatezza,
tira alla monarchia, come la Senna carreggia l’annegati:..
quindi là giù, il bel palazzo, la casa rossa, al pazzo che si appicca,
allo strambo che scende lungo le verdi acque in sino al mare,
verde come le piante fluviali: oh, sì il rosso faro
alle notti brumose, la marmorea sala, i bianchi letti,
duri, lucidi, belli come me, letti di sepoltura; la Morgue,
che mi assicura all’osse vecchie e stanche
un beato riposo... Numeri, Sogni; grigio, bianco e nero,...
ubriaco, ubriaco di parole... Oh, come va la Senna
e come gira il capo; è la maligna corrente che attira;
Numeri e Sogni sopra al ponte fantastico.
Il Trocadero splende come San Marco sopra la laguna
con mutata fortuna;
e a Mabille danno feste veneziane senza gondole e lampioni,
come al Bosco di Boulogne si stira l’ultimo onesto
dentro un saldo giubbetto, che anticipa, per fame, sulla morte
l’apertura alle porte oscure della pace.
Le fantasie: Les Mystéres de Paris e Les Miserables!
Oh sul romanticismo s’impiantano le corna,
come una Luna piena che si faccia battagliera e crudele
e che disvolga, dalla glabra faccia, la curva lama d’una falce
in contro al tremolio ambiguo delle stelle.
Ond’io vidi a passar poc’anzi, gravi e tragiche all’aspetto,
tenendosi per mano, Mademoiselle che Maupin e Madame Bovary;
l’una un fior di peccato nel corsetto di seta bruna tenendo appuntato,
l’altra sul giustacuore e sul berretto maschile un amuleto di stranezza
orientale, la lucida sardonia. Ed andavano al ballo.
Fuori per la banlieue ed a Mabille anch’io mutai costume;
e tra i rapins e i carabins intuonai «Le rapin de Damiette»;
quando Paul de Kock, dal riso gallico, svolgea la sceda nuova.
Le cornette ed i flauti! I pergolati eran l’alcove,
e sotto ai capannucci dei giardini
si davan le modiste alli Zerbini
del Paese Latino. — Mascherate! Così...
Se ho dato un bacio a Rosa Pampon, la bella debardeuse,
di velluto, di rasi e di miseria, anche a Mimi Pinson,
passero irrequieto di grondaja, uccello dei boulevards,
tributai le blandizie; mentre Musette, ragazza non sciupona,
badava alla cassetta. Schaunard forse ha trovato lo spunto eccezionale
della gran sinfonia? E Rodolphe la quartina iniziale al celebre poema?
Nelle soffitte entra col sole il vento freddo di gennaio,
e basta il bacio d’una bella sulle labra per riscaldare
alla gloria futura. — Mascherate! Così...
Mosche d’oro e fors’anche velenose nelle dorate vesti,
o libellule azzurre e titubanti, o vespe
dalla taglia fragile, l’amabile Maschera e la ritrosa
portan volanti di seta e di rosa.
La persona amorosa ha un ondeggiare come su un flutto calmo
un paliscalmo, e si trascina alla caudata gonna
i desideri d’un Dulcamara. Oh le scarpette laccate e pettegole
come i ciarlieri passeri, che fan concilii in alto sulle tegole,
le scarpette che volle Gavarni alli strani piedini
delle amiche di Rolla! Oh le civetterie di trine pallide
di Chantilly e le maglie grassotte e rotondette
di sotto ai falpalà, e la coperta e astuta nudità,
che tutta si dimostra, oltre ai trafori!
Io son tra questi fiori già disfogliati un eccessivo
e troppo presto caduto fiocco di neve.
Codesta neve frigida brucia il cervello ond’egli dà
quanto sa e non sa.
Ouindi tra i Dominôs neri sto meglio e mi faccio valere;
poi che la Luce stia tra le tenebre. Il saper è tal cosa
che non ha valore se non tra l’ignoranza:
come un limpido vin non ha sapore
offerto in una tazza rabberciata:
ogni cosa si mostra per li oppositi: e li spropositi
della gente per bene son catene d’argento falso
che racchiudono un diamante fino. Pierrot dice sentenze e dà
d’ogni cosa la vera verità tra i lazzi dei Borghesi
di tutti i paesi: Borghesi neri sotto la larva,
borghesi Dominos sull’oro delle casse invigilate.
Io sto tra i Dominos, sintesi nell’analisi;
tutti i colori han fatto bujo presto per il troppo indagare,
per il lungo ingannare, per il nulla appianare;
tutto han sciupato per trovar dell’oro dentro alla loro essenza,
scomposero sè stessi e vi han cavato il bianco. In visibilium va
la polvere borghese sotto la folgore del voler di Pierrot, e spare.
Voglio ed affermo? Un Pierrot vuole? Che?
Un perchè. Quello di riaccender forse il sole
a mezzanotte poi che più non appaia in mezzo giorno.
In tal modo si compie la ventura. —
Passan le nuvole con pio mistero,
ed i barconi dormono ammarrati: tutta la folla è scomparsa,
tutti voglion riposare. Fantomatici alberi sulle piazze,
alberi tisici della città, i lampioni disturbano
le povere fornicazioni sopra ai magri tappeti dei giardini.
Sono bruni trasporti funerali le carrozze che van senza rumore
per le strade e sfumano nere sul nero; oh quell’occhi fanali!
Occhi verdi ed azzurri, occhi rossi e violacei,
viaggianti per le vie tortuose della vecchia Città,
o lungo le rive del Fiume ingannatore a postierle segrete
carrozze di delitti e d’amore e di baci. Tra le mortelle e li abeti s’imbuca
un padiglione bigio. Guardiani dall’inferriate industriate
nel curvo gusto della reggenza; ecco un Marchese in veste rossa ed erto
in mano lo staffile sulla nuda Justine raddoppiar colpi.
Sprizza il sangue alle terga e sopra ai fianchi;
urla la donna, ride e furoreggia, Menade ubrica e bionda,
porge il sangue ed il seno estasiato all’osceno maestro divino.
Occhi, viole di passione eterna!
Ho veduti dell’occhi straordinari, raggi di stelle,
e dell’occhi a cui il saggio Marbodeo dava la facoltà dello zaffiro
d’attirar le sorelle api in cielo e di saper l’intrichi zodiacali;
ho veduto le lagrime gelarsi sui fredd’occhi di smalto,
sul ghiacciato cobalto dell’iridi feroci e imperiali;
ho visto l’occhio d’oro, l’occhi fiori, l’occhi di malizia
ed il candido sguardo della puerizia; ho visto l’occhi ciechi senza vita
cercar la tradita, esistenza nell’eterna e bruna agonia:
occhi, stelle, rivolti languidi alla Luna, tondo d’argento
tra i marosi del cielo capricciosi.
E le nubi, le nuvole che sorgono sfumando, che non si stancono
di furoreggiare, di sfuggire, di spiegarsi, d’incendiarsi, di lacerarsi;
nubi, vele, camelli, orsi, squali;
nubi, languidi penetrali di conchiglia, rosee conche d’amore,
e caverne e burroni di misteri e d’ideali assassini celesti:
e questa Luna piena che scompare e riappare;
e quei pallidi visi che mi chiamano ancora;
e il paradiso dei morti ritrovati senza casa;
e l’albergo nuziale d’ogni Maschera povera
che s’affatichi per un ideale, palazzo rosso a finestre di fuoco.
Numeri e Sogni sopra al ponte fantastico:
Parigi dorme.
Notte sulla Città; ogni colore si marita e fonde
nel colore simpatico ed amante; notte calma e sincera
sotto la spera, che a quando a quando giuoca coi comignoli.
Del bigio diamantato. Molte ricchezze amano l’oscuro
per più farsi valere, come il ciclame e le mammole stanno
tra i cespugli e li intrichi delli sterpi, Pure la Luna giunge
a loro in grazia, li circonfonde di mimbi imbalsamati.
Ed il Fiume! Largo, possente, tenebroso, lucido,
dalle sete cangianti e che si svolgono
dalle bracie che ammorzansi,
e dai lampioni capovolti a spegnersi, ma pure inestinguibili.
Dell’argento alle pile sotto al ponte, argento verde e azzurro,
del frusciare d’argento in un sussurro d’una tiepieda gola feminile:
e lucciole in alto e le torri campate sul basalto
che le voglion baciare: e ancora, dentro all’acqua,
come un capriccio piacque, delle colonne a spire,
opaline, guizzanti, insaziate al moto
ed avide a cercar la sconosciuta morte del letto fluviale.
E poi la Catedrale, e forme erette le torri delli Invalidi:
Parigi dorme,
i piedi nella Senna, e tacciono i Funambuli.
Senna, Etera! Gallica Loreley,
nel silenzio acconsenti e lungi dalle false storielle dei saggi
il tuo seno e il tuo ventre d’un velo glauco e tenue coperti,
sì che trapasa il pregio.
O dalla Costa d’oro,
rivolo frigido, baldo e sonoro,
lungo le verdi conche in labirinti,
poi che la Marna amica e innamorata
si profuse al tuo talamo fatale;
che ti dicon le grasse pietre urbane?
Che dicon le cloache ed i rigagnoli
sudici delle vie, ed i detriti e l’immondizie e i frusti?
e le gonfie scialuppe ed i facchini e i biricchini
vaporetti chiassosi e pretenziosi?
Vi sono confidenze di serve e pizzicagnoli,
di zappatori e di commissionarie
in mille scede varie; e il guanto baronale,
dato all’onde per gioco, fugge questa plebea compagnia.
V’è una maschera ancora tutta nera;
e dei soldi di rame giuocan sulla giornea del servidorame
di Corte; ed un moschetto tra la melma e l’erbe
si ricorda Fourier ed i giorni di Luglio,
e d’una palla uscita, dritta all’elmetto d’un corazziere:
poi una stecca di un biscazziere si vede tramutare
per incanto di furbo in uno scettro. La storia si ripete
e l’acqua passa e muta sempre varia, quest’acqua solitaria
anche in mezzo a Parigi.
Senna a prostituzione, insaziata al brivido
già mai accolto a encomio, t’abbandoni e non senti
il perchè dell’amore.
Così normamma Marion dai bianchi denti divoratori,
guardiana di polli ai patri campi,
se lo zoccolo muta in lo scarpino
ed il pugno sonoro del bifolco nel capzioso inchino del boursier,
Marion si chiama la Belle aux tètons
de beurre rosé, blanche oïe et mouton
douce ou belier della grande lussuria parigina:
e Senna, tu che sola qui prendi nome,
Gouf Stream, serrato sotto a ponti di marmo.
Saccard! In alto della colonna Vandome,
hai rubato l’impero all’uomo di bronzo:
le lune elettriche verranno a festeggiarti, lune espresse dai forni
della Borsa, lune industriate ed ebree.
Poi delle mosche che venera la folla gaudente, nate dai letamai
faran torneo al lume artificiale: che se Muffat s’imbruta
presso alla nuda e fulva Nana, l’Eccellenza Rugon
corteggia le scudiere. Oh tragica famiglia di Plassans!
La taverna e l’altare, le galere e le sale principesche: s’affondino le lenze
ingannatrici a pesche mirabolanti e trovino nel fondo
una condanna ed un pentimento, quando Pascal,
meraviglioso David, s’infutura, eterna gioventù nella vecchiaja,
tra le sincere e fresche braccia della nipote e aspetta l’uomo nuovo
che covano le viscere beate all’integrazione.
Gente passata, gente che muore e gente che rinasce;
com’io tra i bianchi lini delle fasce veglio
ad una sicura rivelazione. — Senna... Ecco, ecco,...
il Fiume s’abbuja e l’argento è scomparso sotto il ponte,...
treman le stelle, la Luna si vela: nebbie, gramaglie.
E l’acqua e quest’acqua livida e queste schiume rossigne;
oh cruore diffuso dentro all’onde
Che è mai su in cielo, che è mai questa sciagura?
Notte sulla città, orrida, oscura;
e delle fiamme in alto sui basalti,
dei rombi dalli spalti: anche la Catedrale s’invermiglia.
Fiume di lava lucida, infuocata al cerchio delle fiamme!
Che è mai, dentro a Parigi, l’ardente maraviglia? —
Oh Città, oh Cloaca, oh Cervello,
oh Scienza, oh Penitenza, ed Ingiustizia, oh sacra Impudicizia!
E la milizia cittadina, e l’anello di fuoco, ed il cannone!
E la fame!... All’armi! Ahi! nel cuore:
la Francia muore. —
I barbari cavalli... l’eserciti lontani tra la neve,
l’inutili battaglie... li Ulani!... Li Ulani!...


Come una meteora passa: tutto l’orizzonte è in fiamme: da quelle: fiamme rombi e detonazioni: delle grida, dei clangori. Il ponte scroscia e precipita nel fiume. Quasi a miracolo Pierrot sfuggito, grida dalle rive ancora: «Li Ulani!... All’armi!»

La città è un’immensa fornace ed arroventa il cielo notturno.