II. La casa di Pierrot

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I III


E BOURGEOIS.

Apercevant Pierrot qui paraît au fond.
Justement, j'en vois un qui vient. Comme il est pâle!
On dirait un malade, avec son blanc sarrot!

Pierrot exprime q'il n'a jamais songé à cela «Ce que nous
faisions?» dit-il «Nous dansions.»
Les Folies Nouvelles. — Th. DE BANVILLE.

. . . . . J'étais Pierrot.
Et .j'aurais des effets de nieje sur mon front.
Ancien Pierrot. — Th. DE BANVILI.E.


Sette colonne di marmo bianco. sostengono la volta della sala: le pareti bianche a lastre di marmo. Delle cornici di verde antico corrono sotto li architravi. La lampada d’alabastro sospesa a catenelle d’argento dondola: come la luce si porta qua e là, nell’ondeggiare brillano i capitelli dorati delle colonne di lampi fugaci. Trilla e mormora una fontana nel mezzo della sala. L’acque ricadano in una conchiglia di marmo roseo di Bologna, come li zampilli freschi in un patio di Sivilla. Sette finestre sono tese a cortine di velluto nero: forse per impedire che il sole penetri. Delle frigide camelie si sfogliano tra le lucide foglie coriacee, senza profumo. La lampada a volte sembra una pallida e mesta luna. — Si pensa che fuori, a cielo libero, risplenda un tiepido e calmo vespero d’autunno. Dentro, un freddo striscia sulla persona e punge l’ossa. — Oltre le tende, sommesso e lontano, come venisse d’un altro mondo, un pigolio d’uccelli — Pierrot passeggia, fumando, guarda alla lampada e guarda al suolo che lo rispecchia: sorride, sbadiglia, fuma; la sigaretta, abruciandosi, avvolge come di un alone la lampada luna. Sbadiglia, sorride e pensa Pierrot per se stesso.

 
Già, cantano; null’hanno da far meglio,
cantan la fine e il risveglio del giorno. Se non l’udissi a pigolare,
io non m’accorgerei del tempo. Eh! quanto tempo
passato! È un peccato ch’io non abbia già mai
dato fuora un «Diario». Il vario e vago errare
per le care e le amare illusioni, ha bisogno d’un lessico
completo, o d’un vocabolario, o d’un itinerario
per ritrovarci nel tempo futuro. —
Fa troppo caldo qui. Come un orso marino,
ho bisogno di ghiaccio nella gabbia;
antivediamo col ghiaccio alla flogosi del cervello balzano.
E il tabacco è cattivo. Eh!... l’Italia;... tabacco italiano
ricolto dalla mano d’un paesano abruzzese,
in un dì di canicola.
Bel paese eh! Così van lavorando sotto il sol che li abrucia:
 e membra nude fumano
fuman ma, non tabacco, sudore,
e nel cuore si prepara... che cosa? una burletta
a suono di fanfare, per il villaggio sciocco,
in contro al municipio, senza un principio... di che?...
Eh! col principio della fame. — In Italia non ci dovea venire;
già, se pur mi ricordo; di un qualche cosa come d’un foglio del lessico
da scriversi, d’una fiaba, o d’un consiglio a rubrica «Dell’Isterismo maschile»,
consiglio gentile e disinteressato.
Un Baronetto inglese, giallo come un Maltese
d’ipocondria, nelle dubiose sere del Tamigi,
raccontava d’un cielo di velluto, d’un cielo senza pari,
costellato di rari diamanti notturni. Io son ghiotto di tali
preziosi misteri. Amo la notte, una notte che ha luna
o sospetto di luna, una notte che aduna
mille forme indistinte e vaporose, che placa la sfacciata
impudenza vermiglia delle rose, ch’anima tuberose,
giunchiglie e gelsomini, che evoca pei giardini
molli profumi e più molli sospiri.
Io m’assomiglio in tutto a questi miei fratelli, a questi sogni.
E se dell’alberelli nani piangon sull’acque dei canali,
e l’onde lente vanno e fatali, frusciando sulle lunghe
erbe dei margini;
al chiaror della luna si riplasmano
vapori che sen van colle correnti.
O veli, o Belle della Notte in lenti
accorgimenti seguendo i canali,
o prolissi, caudati sudarii di Vestali
sepolte vive, anime vergini, irrequiete d’amore,
d’amar ancor dopo morte! La Notte apre le porte
a tutto quanto mi assomiglia, o, forse, specchio,
mi riflette in torno mille volte e mi fa re d’un principio,
a seguito di bianchi cavalieri, tutti pensieri... e nulla. —
Venni in Italia e fui deluso; feci viaggio lontano;
le nubi ingorde mi hanno tolto il piacere:
 o non vidi che grigio di notte e giallo di giorno:
io voglio nero e bianco, come qui. Così mi voltolo di tra la neve.
Gentleman Baronetto, ei vide stelle briaco di vin di Porto. —
All is true! Aho! Jes sir! — Senza pretese,
mi son foggiato il mio paese. Non per nulla son Principe
nelle Pantomime dove non parlo. — La Parola!
Qualche cosa che pare una marca da giuoco; Hobbes dice,
se non mi sbaglio; così imparai quando studiai
filosofia alla Sorbona, cent’anni fa.
Una Parola nasconde un valore; che se poi trilla,
scintilla,
sfavilla
e squilla
come un metallo d’oro
è tutto il mondo, e, noi, Pierrot, ne abbiam nella scarsella
a dovizia; per sopra più quando accenniam di gesti
lesti, furbeschi,
arditi e mesti,
e ridicoli e sciocchi,
gesti di cavalieri e di pitocchi,
gesti di dama e di sacerdotessa,
di cortigiana e di professoressa,
e non parliamo, poi che l’atto che accenna è l’espression migliore.
Un atto, un’intenzione, una misteriosa sigla,
una fragranza nascosta, un odoroso motivo di fiori,
una brillante meteora che canti, e, nell’incanti
dello immaginare, un altare gemmante
ed una estasiante vittima a pena uccisa.
Letteratura muta! Un foggiar per i sensi;
Pantomima per chi verrà. Idea, fuoco fatuo surgente
nella tepente ed estivale sera sulla nera
fossa recente d’una vergine morta d’amore,
fuoco fatuo al cuore, da un altro cuore espresso,
fuoco che dal promesso alla promessa vola,
di luce, sopra l’anemoni pazzi color del sangue.
E vi si spegne. Così le creature nate a pena
scompajono e s’annegan, carni composte di viscere materne,
nelle profonde sepolture di sotto all’Erme immobili
del Tempo che sogghigna;
e Natura, matrigna, custodisce un ricordo e una speranza.
E pur ritorna. Swedemhorg norvegese, avatar d’Eliphas Levi
riconsegna alla storia la trasformazione, come nella memoria
si ripeton le forme del pensiero abnorme dell’umanità;
e nella paurosa immensità della coscienza umana
il credere è una fede, se il fatto siede di sopra a una fantasima.
Oh, io amo l’Idee veggenti e silenti nel Mondo,
ed eloquenti dentro all’intendimento personale;
amo le Idee a sciame, incatenate pecchie d’oro,
al sonoro timpano del comporre.
Le amo volanti, fantastiche, pure,
sicure,
senza paure
d’una critica e d’una ribellione,
l’Idee della passione, che mutano la terra in paradiso,
incantevole annuncio d’un sorriso che non vedrem già mai
sopra le femminili labra baciate
e che sentiamo in noi,
pallidi Eroi d’una funambolesca ebrietà di rime. —
Pierrot, d’in sulle cime della bruna coorte dei pioppi
vedrem montar la luna e dalle piante
un’ombria gigante scendere al piano; un laghetto annojato
afferra e specchia l’incontentabile
Ecate ginandra che non s’attenta a baciarmi sul volto.
Ed è Pierrot, (pur questo so) che al mandolino classico
trova l’eolio antico e compendia Saffo,
se vede Zo e Jo in rosee conche
sicuramente ammalarsi d’amore,
baciandosi sui seni, mentre i sereni
cieli smuntano e cadono nella nebbia.
Eh, eh!... I profumi e le nebbie sono forse l’Idee,
incapricciate Dee,
Dee, nostre creature, Dee, amanti di morti,
vampiri all’angiporti delle cripte funeree
e farfalle vermiglie dentro a un raggio di sole che risplenda
sopra ai fiords di Norvegia. Può darsi quindi!... Pierrot?...
Eh! il Baronetto inglese vide stelle in Italia;
quand’io giunsi vestir la gramaglia, e imaginai le stelle
e mi foggiai la luna d’alabastro e per tutto sognai,
per ciò meglio tutto io vidi. — Fuma tabacco detestabile.
Noi faremo d’in torno a questa luna d’alabastro oscillante
un amante corteggio di nuvole o pur l’alone
delle notti estive: così avremo un ciel dentro alla sala.


Pausa. Di fuori l’uccelli cantano più sommessamente per terminare. Silenzio. Il tramonto succede al vespero. S’indovina che, dall’altra parte delle tende tese alle finestre, discendono rapidissime l’ombre dalla collina e nebbie sorgono. Una calma di riposo. Nella sala fa più freddo, forse perchè la brezza è più pungente all’aperto. Pierrot tende l’orecchio: si rallegra: s’avvicina ad una finestra e getta la sigaretta. Riprende il torneo strambo del pensare.

 
Bah! Non cantano più; si son stancati; han forse sonno,
Così... (Fischia accompagnando ed aggiungendo di queste parole ai gorgheggi che spaziano d’un tratto per l’aria con mirabile virtuosità).

                                 Un amore
                            val quanto un fiore,
                    che si schiuda al benigno tepore
                           della serra; e il calore
                          che divampa dal cuore
                               gli dà il colore
                              rosso e dell’oro.
                               Ma nella sera
                                di primavera
                                 una severa
                   passion si riaccende e si confonde,
                   e, tra i baci e le lagrime, profonde
                      tenebrie si stendono a ingannare.
                            Per ciò le amare . . . .
                            .............. ...

   Oh! L’usignuolo
Il boscajuolo dei faggi, l’amico dei selvaggi luoghi della pineta,
l’usignuolo in giardino? La notte scende dunque?
Or s’apre entusiasta il gelsomino notturno
Oh profumi ed incensi, che dispensi notte munifica,
sorella di mistero! Il bianco e il nero
e tutto si confonde. Ed i passeri taccion finalmente,
questi pettegoli come beceri che dilacerano coscienze
senza coscienza, vigliacchi della notte;
da poi che l’onestà non teme le tenebre.
Canzone, in sulle scale che t’appresta la luna,
nell’ora ambigua e bruna, trilla augurale:
scintilla come un rubino
dentro a un cesello
d’un vecchio anello
questa gemmante strofe,
come dispilla
da un canaletto
un ruscelletto
sulla vasca di marmo,
o una fontana piange e si lagna,
numero d’oro,
dentro al lavoro moresco d’un bacino di porfido.
L’usignolo; s’egli canta io taccio; la dolce musica
imbalsamata d’idealità si ripercuote al di là
delle coscienze. Così uno spunto è tutta l’armonia
e la malinconia è l’ispirazione; tutta una canzone,
ed il resto è l’orchestra. E tacerai, o vago della luna
e del silenzio, tacerai nell’inverno.
O patria, o terra aspettata! Come tarda l’amata all’amatore!
In torno al mio palazzo ho coltivato un pazzo
laberinto di fiori;
corolle violacee
come un lutto di vergine strana:
ma de’ pistilli linguaggian d’oro e vermigli, insidiosi.
Io vedrò della neve sopra questo corrotto troppo ricco,
funerale d’un principe: il mio. E soffierà il vento maligno
come la parola capziosa dell’amico
ed io mi troverò meglio sdrajato... No, no, vivere!
Quando? in che modo? domani? nel buio? Vivere?


Questi ultimi pensieri vengono espressi a viva voce come in un grido. Il Pierrot si stupisce e quasi teme di queste voci, che insolitamente risuonano nella sala. Poi ride: il riso stride ed il Pierrot parla.

 
Io parlo adunque! De Banville m’ha ingannato;
io parlo ancora: la Pantomima è morta al mondo,
e io ritorno a sofrire! Aria al polmone
assetato di brezza notturna.


Spalanca una finestra. Notte luminosa. Un ramoscello di rosa si sporge nel vano tutto bagnato di luce lunare e scintilla sulla nera cortina. E il raggio della luna fa impallidire la lampada. Non fa più freddo. Qualche cosa di vivo riscalda questo sepolcro di Maschere.

 
                                   E la mia luna artificiale smunta
tremante al raggio della vera. E pure i fiori
e le gemme mentite gareggiano coi veri e sono preferite;
e un bacio simulato ha più sapore del bacio santo
che vien dal cuore. Io ch’amo il posticcio,
e l’inganno ed il dubio?... O seguendo le fasi lunari
dirò pei dignitarii delle imprese lunatiche
le regole pragmatiche della mia esistenza di Pierrot?
Gobba a levante e gobba a ponente?
Zitti; la ben nata gente sta tutta in me e l’altra:
e la servetta scaltra,
e la minosa padroncina,
e il ladron di cucina,
e il ghiottone sudicio, e l’impudico,
e lo spleematico sere, e il messere poltrone,
ed il Re Sole, e un parruccone che vide l’a venire,
ed una macchina insanguinata
e una bacata funzion sociale, e il funerale
della nobiltà; tutto tra il sorgere ed il morire
della luna, tra il crescere e il calare
del cerchio pallido sul ritmico sospiro del simpatico mare:
e le Fasi e la Vita,
e una sbiadita felicità che in terra non si trova
e s’arrovella per farsi ritrovare,
e la scarsella vuota, e una baldracca letteratura
che va dalla baracca istrionesca a ciance e a tresca
sul trono, o in Campidoglio, ai lauri di una gloria immeritata.


La luna dilaga nella sala: i marmi rispecchiano come forbiti acciai. Le rose incensano dalla finestra. Ogni cosa palpita col cuore di Pierrot che si rinsangua. Egli grida e geme, pauroso della vita gagliarda che s’inturgida nel suo corpo. Un singhiozzo: una risata. Pierrot sente di morire e di rinascere.