I misteri della jungla nera/Parte I - Capitolo X - Lo strangolatore

Parte I - Capitolo X - Lo strangolatore

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Parte I - Capitolo X - Lo strangolatore
Parte I - Capitolo IX - Manciadi Parte I - Capitolo XI - Il secondo colpo dello strangolatore

Capitolo X
Lo strangolatore


Erano trascorsi venti giorni. Tremal-Naik, mercé la sua robusta costituzione e le assidue cure dei suoi compagni, guariva rapidamente.

La ferita si era ormai richiusa e poteva alzarsi.

Però, mentre riacquistava le forze, l’indiano diventava ognor più cupo ed inquieto. I suoi compagni lo sorprendevano talvolta colla faccia nascosta fra le mani e le gote umide, come se avesse pianto. Non parlava che rade volte, non confessava a chicchessia il terribile dolore che struggevalo e talvolta veniva assalito da improvvisi accessi di rabbia, durante i quali si lacerava le carni colle unghie e tentava di gettarsi dall’amaca gridando:

- Ada!... Ada!...

Kammamuri ed Aghur indarno si sforzavano di farlo parlare; indarno cercavano la causa di quelle sfuriate che minacciavano di riaprire la non ancora cicatrizzata ferita e si chiedevano chi mai poteva essere colei che portava quel nome che egli pronunciava e nei suoi deliri e nei suoi sonni, quel nome che era il suo incubo, il suo tormento.

Manciadi il bengalese, qualche volta si associava a loro per venire a capo di qualche cosa, ma ciò accadeva assai di rado. Quest’uomo pareva anzi che sfuggisse la presenza del ferito, quasiché avesse da temere qualche cosa.

Non entrava nella di lui stanza se non quando lo vedeva dormire, ma quasi con ripugnanza. Amava meglio percorrere la jungla in cerca di selvaggina, di raccogliere legna e di attingere acqua. Strana cosa: ogni qual volta udiva il padrone invocare Ada, egli veniva assalito da un tremore straordinario e la sua faccia, di solito tranquilla, d’un subito s’alterava cangiando persino di colore.. Altro particolare misterioso è, che di mano in mano che Tremal-Naik migliorava, anziché gioire, diventava tetro e d’umore nero.

Si avrebbe detto che a quell’uomo spiaceva che il padrone guarisse. Perché? Nessuno avrebbe potuto dirlo.

Il mattino del ventunesimo giorno, nella capanna accadde un avvenimento che doveva avere funeste conseguenze.

Kammamuri s’era alzato al primo raggio di sole. Visto che Tremal-Naik dormiva d’un sonno tranquillo, si diresse verso la porta per svegliare Manciadi che riposava al di fuori, sotto una piccola tettoia di canne di bambù. Levò la spranga e spinse l’uscio ma con sua grande sorpresa questo non s’aprì: c’era al di fuori qualche cosa che gli faceva intoppo.- Manciadi!- gridò il maharatto.

Nessuno rispose alla chiamata.. Nella mente del maharatto balenò il sospetto che al poveretto fosse toccata qualche disgrazia, che i nemici lo avessero strangolato o che le tigri della jungla l’avessero sbranato.

Accostò un occhio alla fessura della porta e s’accorse che l’oggetto che le impediva d’aprirsi era un corpo umano. Guardando con maggiore attenzione, riconobbe in lui il bengalese Manciadi.

- Oh!... - esclamò egli con orrore. Aghur!

L’indiano fu lesto ad accorrere alla chiamata del compagno.

- Aghur, - disse il maharatto, sgomentato. - Hai udito nulla questa notte?

- Assolutamente nulla.

- Nemmeno un gemito?

- No, perché?

- Hanno ucciso Manciadi!

- È impossibile! - esclamò Aghur.

- È qui disteso dinanzi alla porta.

- Darma non ha dato alcun segnale e nemmeno Punthy.

- Eppure dev’esser morto. Non risponde, né si muove.

- Bisogna uscire: spingi forte.

Il maharatto appoggiò una spalla alla porta e fece forza respingendo Manciadi. Ottenuto un varco, i due indiani si slanciarono all’aperto. Il povero bengalese era coricato bocconi e pareva morto, quantunque non si vedesse sul suo corpo ferita alcuna.. Kammamuri gli accostò una mano sul petto e sentì che il cuore ancora batteva.

- È svenuto, - diss’egli.

Strappò una penna ad un punya che trovavasi lì vicino, vi diede fuoco e l’accostò alle nari dello svenuto. Tosto un sospiro sollevò il petto, poi le braccia e le gambe si mossero e infine s’aprirono gli occhi che si fissarono con smarrimento sui due indiani.

- Cosa ti è accaduto - gli chiese premurosamente Kammamuri.

- Siete voi! - esclamò affannosamente il bengalese. - Ah!... che paura!... Credevo di essere stato ammazzato sul colpo!

- Ma cos’hai veduto? Chi cercò d’ammazzarti? Degli uomini forse?

- Uomini?... Chi parla d’uomini?

- Di’ su.

- Ma non sono stati uomini, - disse il bengalese.

- Sì, sì, non m’inganno, era un elefante.

- Un elefante! esclamarono i due indiani. - Un elefante qui!

- Ma sì, era un elefante enorme, con una proboscide mostruosa, e due denti lunghissimi.

- E si è avvicinato a te? - chiese Aghur.

- Sì, e per poco non mi spezzò il cranio. Io dormiva saporitamente, quando fui svegliato da un potente soffio; aprii gli occhi e vidi sopra di me la gigantesca testa del mostro. Cercai di alzarmi per fuggire, ma la proboscide mi piombò sul cranio, inchiodandomi al suolo.

- E poi? - chiese Kammamuri con ansietà.

- Poi non ricordo più nulla. Il colpo era stato così forte che svenni.

- Che ora era?

- Non lo so, perché m’ero addormentato.

- È strano, - disse il maharatto. - E Punthy non s’accorse di nulla.

- Cosa facciamo, - chiese Aghur, lanciando uno sguardo ardente sulla jungla.

- Lasciamo il colosso in pace, rispose Kammamuri.

- Ritornerà, - s’affrettò a dire Manciadi, - e rovinerà la capanna..

- È vero, - disse Aghur. - Se lo inseguissimo?

- E perché no? Abbiamo delle buone carabine.

- Io sono pronto ad aiutarvi, - rispose Manciadi.

- Ma non possiamo lasciare solo il padrone, quantunque sia completamente guarito, - osservò Kammamuri. - Voi sapete che un pericolo ci minaccia sempre.

- Tu rimarrai e noi andremo alla caccia, - incalzò Aghur. - Con un vicino così pericoloso, non si può vivere tranquilli.

- Se avete coraggio bastante, vi lascio libero campo.

- Così va bene! - esclamò Aghur. - Lascia fare a noi, e vedrai che prima di mezzodì il colosso sarà morto.

Andò a prendere nella capanna due pesanti carabine di grosso calibro e ne porse una al bengalese che la caricò con grande attenzione, con una verga di piombo. Munitisi di pistoloni e d’un enorme coltellaccio, nonché di abbondanti munizioni, entrarono risolutamente nella jungla, percorrendo un largo sentiero tracciato fra i bambù. Aghur era allegro e discorreva; il bengalese, invece, era diventato cupo e spesso soffermavasi per guardare il compagno che lo precedeva di pochi passi.

Talvolta si chinava verso terra ed ascoltava, fingendo di cercare le traccie dell’elefante. Quel brusco cangiamento, quegli sguardi e quelle manovre, non sfuggirono ad Aghur, il quale credette che il bengalese avesse paura.

- Animo, Manciadi, diss’egli, allegramente. - Non credere che sia tanto difficile abbattere una bestia, anche se è munita di proboscide. Una palla in un occhio e tutto sarà finito.

- Non ho paura io, - rispose bruscamente il bengalese, sforzandosi, ma invano, di atteggiare le sue labbra ad un sorriso.

- Mi sembri inquieto.

- Infatti lo sono, ma non è l’elefante che mi preoccupa.

- E che cosa, adunque?

- Aghur, - disse Manciadi con accento strano. - Hai paura della morte?

- Se ho paura della morte?... Perché mi fai questa domanda? Non ho mai avuto paura di nulla... io!

- Meglio per te.

- Non ti capisco.

- Comprenderai fra qualche ora, silenzio ed avanti.

- È pazzo, - pensò Aghur, - o mezzo morto dalla paura. Sta bene, lo abbatterò io il colosso.

I due indiani affrettarono il passo, malgrado il sole che gli arrostiva e gli ostacoli che ingombravano il sentiero, e un’ora dopo giungevano in un boschetto di giacchieri alberi, le cui frutta, anziché pendere all’estremità dei rami, escono direttamente dal tronco, d’un bel colore giallo, d’una fragranza straordinaria e del peso di oltre trenta libbre.

Quivi giunti, Manciadi con grande sorpresa del compagno, si mise a fischiare un’arietta malinconica, giammai udita nella jungla nera.

- Cosa fai? - gli chiese Aghur.

- Fischio, - rispose Manciadi tranquillamente.

- Farai fuggire l’elefante.

- Anzi lo attiro. Gli elefanti amano la musica e, quando la odono, accorrono.

- To’! non l’ho mai saputo.

- Cammina, Aghur, e guardati ben d’attorno. Sai tu dove trovasi uno stagno?

- Qui vicino.

- Andiamo.

Aghur, quantunque tuttociò gli sembrasse assai strano, ubbidì.. Prese un sentieruccio appena visibile e condusse il compagno sulle rive di un piccolo stagno contornato da ammassi di pietre rozzamente scolpite rovine di un’antica pagoda.

- Tu rimarrai qui, - gli disse il bengalese. - Io batto il bosco e scovo l’elefante, poiché qui dev’essere nascosto.

Si mise sotto il braccio la carabina e si allontanò senza aggiungere sillaba. Appena fu certo di non essere né veduto, né udito, si mise a correre rapidamente e si arrestò ai piedi di un palmizio, sul cui tronco vedevasi rozzamente inciso l’emblema misterioso degl’indiani di Raimangal.

- A me ora, diss’egli. - Questo bosco sarà la sua tomba.

Si drizzò quanto era lungo ed emise un fischio. Un segnale eguale vi rispose e qualche minuto dopo, fra il varco di due cespugli appariva la sinistra figura di Suyodhana. Egli incrociò le braccia sul petto, fregiato del serpente dalla testa di donna, e fissò Manciadi con uno sguardo acuto come la punta d’una spilla.

- Figlio delle sacre acque del Gange, sii il benvenuto, - disse il bengalese, toccando la polvere colla fronte.

- Ebbene? - chiese brevemente Suyodhana.

- Siamo battuti.

- Che vuoi tu dire?

- Tremal-Naik è vivo.

Suyodhana divenne ancor più cupo e si conficcò le unghie nelle carni.

- Avrei mancato al colpo? - ringhiò egli. - Eppure il pugnale vendicatore gli squarciò il seno!

Chinò il capo sul petto e s’immerse in tetri pensieri.

- Manciadi, - disse dopo qualche tempo, - quell’uomo deve morire.

- Comanda, figlio delle sacre acque del Gange.

- La vergine della sacra pagoda fu profondamente ferita dal velenoso sguardo di quell’uomo. La sciagurata ancora l’ama, né cesserà d’amarlo finché egli vivrà.

- Crederà alla sua morte?

- Sì, perché io le darò le prove.

- Cosa devo fare? Devo avvelenarlo?

- No, il veleno non sempre uccide; vi sono degli antidoti.

- Devo strangolarlo? Ho il mio laccio.

- Andiamo adagio. Hai eseguito quanto ti ordinai?

- Sì, figlio delle sacre acque del Gange. Aghur m’attende presso lo stagno.

- Bene, tu lo ucciderai.

- E poi? chiese il fanatico con terribile calma.

- Poi tornerai alla capanna e narrerai a Kammamuri che Aghur fu assassinato. Ti crederà e correrà a cercarlo; comprendi il resto.

- Hai altro da dirmi?

- Più nulla.

- E strangolato che abbia Tremal-Naik, cosa dovrò fare?

- Raggiungermi a Raimangal: va’!

Manciadi toccò una seconda volta la polvere colla fronte e si allontanò colla dritta sul calcio d’una pistola.

- Decisamente, - disse il bengalese, - il figlio delle sacre acque del Gange è un grande uomo!

Il fanatico non pensò nemmeno al doppio assassinio che stava per commettere. Suyodhana così aveva ordinato, e Suyodhana parlava in nome della mostruosa divinità alla quale tutti loro avevano consacrato il loro braccio e la loro vita. Attraversò lentamente il bosco dei giacchieri e giunse allo stagno, presso il quale stava sdraiato, colla carabina sulle ginocchia, la futura vittima.

- Hai veduto l’elefante? - gli chiese Aghur.

- Non ancora, ma ho scoperto le sue traccie, - disse l’assassino guardandolo con due occhi che mandavano sinistri bagliori.

- Cos’hai che mi guardi così? - domandò Aghur.

Il bengalese non rispose e continuò a guardarlo.

- Hai scoperto qualche cosa di strano?

- Sì, - rispose Manciadi. - Aghur, ti ricordi cosa ti dissi un’ora fa?

L’indiano parve sorpreso ed inquieto. Forse presentiva la catastrofe.

- Allorché mi parlasti della morte?

- Sì.

- Me lo ricordo, - rispose Aghur.

- Non ti sembra crudele morire a vent’anni, quando l’avvenire forse sorride? Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall’olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell’oscurità, nel mistero?

- Sei pazzo? - domandò Aghur.

- No, Aghur, non sono pazzo, - disse l’assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. - Guarda! -

Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna.

- Cos’è? - chiese Aghur.

- L’emblema della morte.

- Non capisco.

- Tanto peggio per te.

Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa.

- Aghur! - gridò, - Suyodhana ti ha condannato e devi morire!

L’indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore.

Un fischio tagliò l’aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra.

- Assassino!... - urlò egli con voce strozzata.

- Aghur! - disse lo strangolatore con accento funebre. - Saluta un’ultima volta il sole che ti accarezza, respira un’ultima volta quest’aria che corre sulle Sunderbunds, invia l’estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba.

- Kammamuri!... Padrone!... - balbettò Aghur, dibattendosi.

Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse.

- Muori, ché la dea lo vuole! - gli gridò un’ultima volta Manciadi.

Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde.

- E uno, - disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull’assassinato. - Ora, pensiamo all’altro.

E s’allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell’infelice Aghur.