I misteri della jungla nera/Parte I - Capitolo IX - Manciadi
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Capitolo IX
Manciadi
Ad oriente cominciava ad albeggiare, quando il canotto giunse alle sponde della jungla nera.
Nulla di nuovo pareva che fosse accaduto. La capanna si rizzava ancora fra i canneti sormontata da una dozzina di giganteschi arghilah immobili sulle loro lunghe gambe giallastre, e la tigre, la fedele Darma, vi girava e rigirava attorno, senza mai allontanarsi.
- Buono, - mormorò Kammamuri. - I maledetti non hanno visitato questi luoghi. Darma!
La tigre a quella chiamata s’arrestò, alzò la testa, fissò sul canotto i suoi occhi verdastri e si slanciò verso la riva emettendo un sordo mugolìo.
Kammamuri e Aghur si affrettarono a sbarcare e portarono il padrone nella capanna, adagiandolo su di una comoda amaca. La tigre ed il cane si arrestarono al di fuori a vegliare.- Esamina la ferita, Aghur, - disse Kammamuri.
Il bengalese levò la fascia e guardò attentamente il petto del povero Tremal-Naik. Una ruga si disegnò sulla sua fronte.
- È grave, - disse. - Il pugnale è entrato assai, probabilmente fino all’impugnatura.
- Guarirà?
- Lo spero. Ma perché l’hanno pugnalato?
- È difficile il dirlo. Tu sai che il padrone voleva rivedere la visione.
- Almeno così ha detto.
- Egli, giunto all’isola, si fissò in testa di scoprire quella creatura. Pare che sapesse ove si celava, poiché mi comandò di ritornare alla capanna e partì solo. Ventiquattro ore dopo lo trovava nella jungla immerso in un lago di sangue: lo avevano pugnalato.
- Ma chi?
- Gli uomini che abitano l’isola e che forse vegliano su quella donna.
- Ma a quale scopo?
- Certamente per ucciderlo.
- Hai veduto tu quegli esseri?
- Coi miei propri occhi.
- Sono uomini o spiriti?
- Credo che siano uomini. Anzi mi gettarono un laccio al collo per strangolarmi, e ne uccisi due o tre. Se fossero spiriti, non sarebbero morti.
- È strano, - mormorò Aghur, diventato pensieroso. - E cosa fanno quegli uomini? Perché ammazzano le persone che sbarcano sulla loro isola?
- L’ignoro, Aghur. So che sono uomini terribili e che adorano una divinità la quale esige molte vittime.
- Hai paura, Kammamuri?
- Ho le mie buone ragioni per averne.
- Credi tu che si mostreranno nella nostra jungla?
- Lo temo, Aghur: quell’uomo ci ha gridato: "ci rivedremo".
- Mal per loro. La tigre è un animale da non lasciarli avvicinare.
- Lo so, ma vegliamo attentamente. Ci sono nell’aria delle nubi che minacciano tempesta.
- Lascia fare a me, Kammamuri. Tu pensa a guarire il padrone e io m’incarico di loro.
Kammamuri ritornò presso il padrone per applicare sulla ferita un nuovo cataplasma di erbe, ed Aghur si sedette dinanzi alla capanna, colla tigre ed il cane accovacciati.
La giornata passò senza incidenti. Tremal-Naik ebbe ancora qualche accesso di delirio, durante il quale gli usci più volte dalle labbra straziate il nome di Ada, la sventurata giovane che aveva lasciato senza difesa, nelle mani di quei terribili fanatici.
Però tornò a cadere in una specie di assopimento, che si prolungò fino al calare del sole. I due indiani, quantunque ardessero dal desiderio d’interrogarlo per sapere qualche cosa su coloro che lo avevano pugnalato, credettero bene di astenersene per non affaticarlo.
Allorché le tenebre stesero il loro nero velo sulla silenziosa jungla, Aghur montò pel primo la guardia, al di fuori della capanna, armato fino ai denti. Il cane si era accovacciato ai suoi piedi cogli occhi fissi al sud. A mezzanotte nessun indiano era comparso, né sul fiume, né sulla jungla. Però il cane s’era più volte alzato fiutando l’aria, dando segni evidenti d’inquietudine. Forse presentiva qualche cosa d’insolito; chissà, forse la vicinanza di qualche persona e forse anche di qualche animale selvaggio. Aghur stava per svegliare Kammamuri onde lo surrogasse, quando Punthy s’alzò abbaiando.
- To’! - esclamò l’indiano, sorpreso. - Cosa vuol dir ciò?
Il cane abbaiava colla testa volta al fiume, segno evidente che colà succedeva qualche cosa. Contemporaneamente la tigre apparve sulla soglia della capanna, facendo udire un sordo miagolio.
- Kammamuri! - chiamò Aghur, preparando le armi.
Il maharatto, che dormiva con un sol occhio, lo raggiunse.
- Cosa succede? - chiese egli.
- I nostri animali hanno udito qualche cosa e sono inquieti.
- Hai udito qualche rumore?
- Assolutamente nulla.
- Tieni il cane ed ascoltiamo.
Aghur s’affrettò a ubbidire.
D’improvviso verso il fiume s’udi a gridare:
- Aiuto! Aiuto!...
Il cane si mise ad abbaiare furiosamente.
- Aiuto!...- ripeté la medesima voce.
- Kammamuri! - esclamò Aghur. - Qualcuno si annega.
- Certamente.
- Non possiamo lasciarlo annegare.
- Non sappiamo chi sia.
- Non importa: alla riva!
- Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano.
La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d’inchiostro.
- Vedi nulla? - chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente.
- Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva.
- Un uomo forse?
- Si direbbe più il tronco di un albero.
- Olà! - gridò Kammamuri. - Chi chiama?
- Salvatemi! - rispose una fioca voce.
- È un naufrago, disse il maharatto.
- Potete giungere alla riva? - chiese Aghur.
Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all’altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto s’avvidero che l’oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione.
- Salvatemi!... - balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello.
I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d’una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue.
- Sei ferito? - gli domandò Kammamuri.
Quell’uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi.
- Credo, - mormorò dipoi.
- Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere
- Non è nulla, - diss’egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. - Ho battuto la testa su quel tronco d’albero e mi sanguinò il naso.
- Da dove vieni?
- Da Calcutta.
- Ti chiami?
- Manciadi.
- Ma come ti trovi qui?
Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti.
- Chi abita questi luoghi? - chiese egli, con terrore.
- Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti, - rispose Kammamuri.
Manciadi tornò a tremare.
- Feroce uomo, - balbettò.
Aghur ed il maharatto si guardarono l’un l’altro con sorpresa.
- Tu sei pazzo, - disse Aghur.
- Pazzo!... Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre?
- I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni.
Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento.
- Voi!... Voi!... - ripeté. - Sono perduto!
S’aggrappò all’orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l’afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi.
- Spiegami la causa di questo spavento, - gli disse con accento minaccioso. - Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina.
- Volete assassinarmi! - piagnucolò Manciadi.
- Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui?
- Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo.
- Tira avanti.
- Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio...
- Ah! - esclamarono i due indiani. - Un laccio, hai detto?
- Sì - confermò il bengalese.
- Gii hai veduti quegli uomini? - chiese Aghur.
- Sì, come vedo voi.
- Cosa avevano sul petto?
- Mi pare d’aver visto un tatuaggio.
- Erano quelli di Raimangal, - disse Kammamuri. - Continua.
- Impugnai il mio coltello, - proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, - e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto.
- Sappiamo il resto, - disse il maharatto. - Tu adunque sei cacciatore.
- Sì, e valente.
- Vuoi venire con noi?
- Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese.
- Non domando di meglio, - s’affrettò a dire. - Sono solo al mondo.
- Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone.
I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti.
- Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, trattenendolo.- È uno dei nostri.
Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente.
- Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, - disse Manciadi, sforzandosi a sorridere.
- Non aver paura, ti diventerà amico, - disse il maharatto.
Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt’altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato.
- Oh! - esclamò egli spaventato. - Una tigre!
- È addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone.
- Dal padrone! È qui forse? - chiese il bengalese attonito.
- Sicuro.
- Ancora vivo!...
- To’! - esclamò il maharatto sorpreso. - Perché tale domanda?
Il bengalese trasalì e parve confuso.
- Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? - replicò Kammamuri.
- Non m’hai detto tu che era stato ferito?
- Io!...
- Mi sembra.
- Non mi rammento.
- Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno.
- Così deve essere.
Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra.
- Non vale la pena di svegliarlo, - borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur.
- Lo presenteremo domani, disse quest’ultimo. - Cosa ti sembra di quel Manciadi?
- Ha l’aspetto d’un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente.
- Lo credo anch’io.
- Lo faremo vegliare lui fino a domani.
Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo.
Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l’allerta se scorgesse qualche pericolo, s’affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta.
Era appena scomparso che Manciadi s’alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s’erano d’un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso.
- Ah! Ah! - esclamò egli, sogghignando.
S’accostò alla capanna e vi appoggiò l’orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d’ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano.
Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione.
Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.